KENNA

1di Anna Murabito

Michael Kenna, (1953, Widnes, Lancashire, Inghilterra) è un grande fotografo. Apprezzato, celebrato ed esposto nei musei di mezzo mondo. È stato anche nominato “Cavaliere dell’Ordine delle Arti e delle Lettere” dal Ministero della Cultura di Francia. Pur essendo un contemporaneo, i suoi temi e le sue modalità espressive non sono legati al presente. Ciò ne fa, in qualche misura, un artista anomalo.

Nel nostro tempo la comunicazione massmediatica è prevalentemente basata sulla velocità dell’immagine e sul livello dei decibel. I “messaggi” che ci bombardano sono fragorosi come cannonate. Tutto deve colpire l’attenzione per una frazione di secondo per consentirci di passare subito dopo ad un’altra emozione-spazzatura. L’arte si è smarrita nella ricerca della novità a tutti i costi ed è diventata, nella maggior parte dei casi, trovata, marchingegno. In una parola, mistificazione.

Michael Kenna è il contrario di tutto ciò. In questo contesto frettoloso ed epidermico, spesso kitsch, egli ristabilisce i giusti parametri della produzione artistica. E rappresenta un enorme e balsamico “elogio della lentezza”: una sorta di lusso aristocratico, come i migliori ristoranti di “slow food”. Si indugia con godimento ad un tavolo vestito di lino bianco gustando cibi raffinati; nello stesso modo si può rimanere a lungo davanti a una fotografia di Kenna, in una sorta di raccoglimento della mente. Con lui la parola “meditazione” si ripropone nel suo significato originario di pensiero alto, “considerazione approfondita di un argomento, per intenderne l’essenza”. Mentre al contrario la meditazione – come oggi è comunemente intesa – è un fenomeno d’accatto mediato dalla civiltà orientale. Molti pensano che basti una mezz’ora al giorno (o nei fine settimana) di “disintossicazione”, di SPA dell’anima – magari in costume da guru e seduti a gambe incrociate – per raggiungere il benessere spirituale. E si può scegliere tra corsi gratuiti o a pagamento, video, tutorial più o meno improvvisati.

Anche meditare sulle opere di Kenna favorisce il benessere spirituale. Riflettere sul Tempo che corre e tralascia – e a volte sembra fermarsi -, su un volo d’uccelli, sulla Morte onnivora, significa soffermarsi sui grandi temi dell’uomo e sulle più alte realizzazioni del pensiero e della letteratura.  

Le fotografie di Michael Kenna hanno sapore di verità. E sono lontane dalla retorica dei tanti che predicano una sorta di laica contrizione. La nostra epoca, così viziata e benestante, sembra aver smarrito, oltre all’emozione estetica dell’arte, anche lo slancio vitale, la ricerca del piacere. E tende ad instillare sentimenti di colpa nei confronti di tutte le vittime di ingiustizie ed emarginazioni. Così il “Grande Tema Sociale” invade anche l’ambito della produzione artistica e finisce col condizionarlo. Rischiando di scadere nel piagnisteo.

Kenna non ci descrive il mondo dei diseredati e degli oppressi; ci parla del crepuscolo e del silenzio, del cielo e della pioggia: ci parla della sua anima. Ed individua nella realtà ciò che gli consente di rappresentare la passione del suo mondo intimo. Ecco perché le fotografie di Michael Kenna non stancano e non frastornano: come non stanca un “Brandeburghese” di Bach.  

Le sue opere, sostiene egli stesso, sono più vicine alla poesia che al racconto. Per questo alcuni – forse pensando alla “vicinanza” dell’artista al Giappone – hanno paragonato le sue foto agli aiku, brevi componimenti poetici.

Con il suo riferimento alla poesia credo che l’artista intendesse dire innanzi tutto che le sue immagini non hanno intenti narrativi ma attengono all’espressione artistica di un sentimento. L’essenzialità stessa dei soggetti ci riporta al concetto di poesia, e non necessariamente alla sua brevità, come nel minimalismo estremo degli aiku. In letteratura la poesia è identificazione di un tema e scelta delle parole più adeguate per rappresentarlo: eliminando gli orpelli ed ogni ridondanza. È quello che fa anche Kenna con le sue immagini, mai sporcate da elementi accessori, ma scarnificate, fin quasi alla stilizzazione.

Kenna è un fotografo viaggiatore. Ma, ovunque egli sia stato – negli Stati Uniti, in Giappone, in Francia, in Italia, in Egitto –  si è portato dietro lo stesso sentimento della vita. Così le immagini del fiume Po, la foto iconica dell’albero inclinato che proietta l’ombra obliqua del suo tronco nero sulla neve (Albero. Lago Kussharo, Hokkaido) e le strutture di una fabbrica, nel Michigan o in Inghilterra (dove Kenna fotografò la Centrale Elettrica di Ratcliffe) pur nelle loro differenze, si equivalgono.

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Il paesaggio, naturale o industriale, è solo un pretesto per individuare quella trama astratta di linee e contrasti, di ombre e forme con cui l’artista dialoga. Le immagini assumono la stessa atmosfera di incanto sospeso, e sono ricordo ed evanescenza del passato, precarietà ed eternità. Mai false, mai fredde, pur nella loro esigua presenza. Anche un recinto, una palizzata, una rete da pesca o un portale, forse perché così isolati in un mare di niente, rimandano ad altre suggestioni, creano una catena di collegamenti visivi e mentali. Si guarda la nebbia, si pensa all’infinito.

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Il fatto che gli esseri umani siano assenti, non impedisce a Michael di parlarci della condizione umana. Ci sono gli alberi per questo. Semiaffogati in terreni paludosi, piegati, vinti. Altri alberi alti e magri sembrano copie dell’iconografia fantastica di don Chisciotte; sembrano un esercito di sconfitti, in ritirata, sulla neve.

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Altri ancora sono un gregge sperduto su una collina, o vedette immobili, in fila, nel freddo. Alberi tutti uguali, fermi come un fondale di scena di un bosco invernale. Alberi isolati, su un pianoro: sembrano implorare, rivolti a un cielo indifferente.

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Ci sono le passerelle consunte; i pali piantati nelle acque morte; le montagne degradanti, tra la poesia di Alcmane e il silenzio di paesaggi fantascientifici.

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Qualcuno ha parlato di atmosfere mistiche. Non so se si respira il sacro: certo anche le curve delle grandi costruzioni industriali hanno una potenza  che incute rispetto, come una cattedrale.

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I contenuti preponderanti non devono farci dimenticare che Michael Kenna, oltre ad essere un uomo di preziosa sensibilità, è anche un grande tecnico. Famosi, e citati da tutti i biografi, sono i suoi tempi di posa: dieci, dodici ore di attesa pur di realizzare l’immagine che desidera. E altre magie – si immagina rivelate solo in parte – in camera oscura. “Con le lunghe esposizioni si può fotografare ciò che l’occhio umano è incapace di vedere”, dice l’artista.

Sono notizie che forse il profano può acquisire, ma senza dare loro molta importanza. Senza neppure rammaricarsi di non capirle bene. Tempo fa ho ascoltato un’intervista rilasciata da un direttore d’orchestra che diceva di invidiare i dilettanti, gli ignari di composizione musicale: “Possono godersi a livello emotivo la realizzazione, senza turbarla con la comprensione di elementi minutamente tecnici”.

Ogni artista adotta la sua maniera, la sua “tecnica”: nuova o sperimentata  non importa. Non sappiamo niente delle tecniche dei singoli artisti, se non quel poco che riportano le biografie o le cronache: ricordo di aver sentito che il Tintoretto fabbricava statuine di cera, le appendeva al soffitto e le faceva oscillare illuminate dalle candele, per studiare gli effetti della luce sui corpi in movimento. E c’è qualcuno che può usufruire di doni personali, come una capacità percettiva fuori dall’ordinario: ho letto recentemente che Van Gogh sveniva d’emozione davanti ai colori della primavera nella campagna di Arles. Ma tutto questo non si traduce automaticamente in arte. La cosa vale anche per gli atleti. Qual è la tecnica di Federer, così composto anche nel realizzare imprese sovrumane; quale quella usata dal candido Phelps? C’è qualcosa che non è traducibile in modulo, in protocollo: la divina scintilla che produce un incendio non può essere analizzata.

A proposito di rimandi, l’albero sul Lago Kussharo Kenna lo fotografò a più riprese, nel corso degli anni, fino al 2009, quando fu abbattuto. Anche io sono andata a trovare per trent’anni, ogni estate, il relitto di un peschereccio nell’Anse Saint-Laurent, in Bretagna. Ogni volta la morte aveva fatto un altro passo nel grande corpo della barca, colori grigiastri avevano sostituito il muschio e la ruggine, assi di legno giacevano in terra corrosi dal marciume. Era diverso, ed ero diversa io. Anche Kenna cita Eraclito. Adesso forse il battello si è fuso con l’argilla del fiordo.

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E c’è una foto in cui, in fondo ad un mare fosco e confuso, si intravede, forse, una fila di alberi. A volte dei nostri desideri, e di tutta la nostra vita, non rimane che l’ombra e lo strazio.  

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A Michael Kenna non dobbiamo carpire un segreto, non dobbiamo “rubare il mestiere”. Dobbiamo cercare in lui uno che sa raffigurare i cieli spenti dell’esistenza. Un compagno con cui condividere le maree basse dell’anima, per dirla con Brel; con cui intraprendere un viaggio verso il niente lungo una strada di nebbia.

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Anna Murabito      annamurabito2@gmail.com

KENNAultima modifica: 2023-06-07T12:19:34+02:00da helvalida
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