expressioni

UN ARTICOLO

di Gianni Pardo

LA TORMENTATA STORIA DI UNA VOCALE

Un primo pregiudizio che bisogna sfatare, in materia di vocali, è che esse siano cinque, aeiou. Non solo esistono la “u” lombarda, in fonetica y (più correttamente, i simboli fonetici andrebbero scritti tra due barre, così: /y/) e la “eu” francese, in fonetica /ø/, ma bisogna concepire la gamma delle vocali come quella dei colori.

Nell’iride i colori che consideriamo fondamentali (se così vogliamo metterla) sono tre: rosso, verde e blu. Ma in realtà, addizionando rosso e verde abbiamo il giallo. E addizionando giallo e rosso abbiamo l’arancione. La faccio breve, i colori sono infiniti o quasi. Nello stesso modo, c’è la “a” chiusa (/ɑ/) e quella nasale (/ᾶ/), due “a” che in italiano non usiamo. E poi la “a” comincia ad inclinare verso la “e” (/æ/), come nell’inglese “that”, notando al passaggio che in inglese æ è più vicina alla a che alla e, mentre in americano è più vicina alla e che alla a. Non si finirebbe mai.

Insomma, per citare i principali fenomeni, esistono due “i”, che in inglese cambiano il senso delle parole, tre “o” (aperta, /ɔ/, chiusa, /o/, e nasalizzata, /ɔ̃/) due “eu” francesi (aperta, /œ/ e chiusa /ø/) e perfino, in inglese, seppure senza valore discretivo, due “u”, (aperta, /ʊ/, come in “put”) e chiusa (come in “look”). Per non parlare delle abitudini fonatorie.

Per i francesi una “e” chiusa è breve (été) e una “e” aperta è lunga (même), mentre per i tedeschi una “e” chiusa è lunga (sehen, /zeen/) e una “e” aperta è breve (spät /ʃpɛt/).

E dopo questa penitenza, torniamo alla vocale “e”, soltanto per quanto riguarda la lingua francese. In francese ci sono fondamentalmente quattro “e”: /e ɛ ɛ̃ ǝ/, e chiusa e breve, e aperta e lunga, e nasalizzata (cioè prodotta espirando una parte dell’aria dal naso e non chiudendo il naso come credono alcuni imbecilli) e, soprattutto la “e” semimuta (/ǝ/). Non parlo infine della “e” inesistente, perché è appunto inesistente. Per esempio, il verbo “appeler”, chiamare, all’infinito si pronuncia /a’ple/ (in fonetica l’apostrofo precede la sillaba accentata). Non si pronunciano né le doppie né le “e” mute, appunto. E come riconoscerle? Nella grafia esse sono in fine di sillaba e non accentate. In “appeler” la divisione in sillabe è ap/pe/ler: la prima “e” è in fine di sillaba, e dunque muta, la seconda è seguita da una r, e dunque è sonora. Più difficile è distinguere le “e” aperte dalle “e” chiuse. Sono certamente aperte quelle con l’accento grave (poète, po’ɛte) o con l’accento circonflesso (suprême), quelle derivanti da un dittongo (j’étais, io ero, che si legge / ʒe’tɛ/, ed altri casi che sarebbe complicato elencare). Comunque, anche sbagliandole, i francesi ci capiscono. Per loro il nome Hélène si legge /e’lɛn) ma se noi pronunciamo (e’len) tutto è chiaro lo stesso.

Un caso speciale è la pronunzia della “e” in poesia o cantando. Ovviamente, la “e” in fine di sillaba (o di parola) è muta. Tuttavia, se serve una sillaba in più, la parola caresse, carezza, normalmente bisillaba (/ka’rɛs/ può divenire trisillaba, ka’rɛsǝ/. Per esempio, ho sentito Edith Piaf, ne “La vie en rose”, cantare  “Je l’ai juré, pour la vie”, e “pour la vie” diviene una frase di quattro sillabe: /pur-la-’vi-ǝ/. E vale anche per quel famoso titolo di canzone: “Douce France”, che in fonetica dovrebbe essere /dus’fRans/, ma diviene /dusǝ’fRansǝ/, prima perché siamo incappati in tre consonanti di seguito: “sfr”, e poi perché la canzone necessitava di una sillaba in più.

Per non parlare della regola di Grammont. La regola nasce dalla constatazione che, secondo le abitudini fonatorie dei francesi, è impossibile pronunciare tre consonanti di seguito. Dunque, se capita che ci siano tre consonanti , da qualche parte bisogna inserire una ǝ. E così, se vi chiedono come si legge “la fenêtre” (la finestra ) la risposta normale è /laf’nɛtR/ ma se la frase è “une fenêtre”, avendosi il gruppo “ntr” la pronuncia diverrà: /ynǝfnɛtR/. E qui si legge una “e” che comunque era scritta. Ma il colmo è che si legge anche se non era scritta. Come annotava un libro di fonetica, “un ours”, un orso, si legge /ɛ̃’nurs/ ma “un ours blanc”, un orso bianco, dal momento che si crea il terzetto “sbl” si legge / ɛ̃’nursǝblã/.

Una volta il generale De Gaulle disse che era impossibile governare bene un Paese che ha duecentocinquanta tipi di formaggio. Avrebbe anche potuto dire che è difficile parlare la lingua di un Paese che ha sedici vocali e tre semivocali.

Gianni Pardo giannipardo1@gmail.com

06/01/2021

 

UN ARTICOLOultima modifica: 2021-01-06T12:14:18+01:00da
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