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DISPERATI A COLORI

Recensione del romanzo “I CANACHI” di Peter Patti

Ci sono libri che bruciano. E non fanno dormire la notte.

Ho finito di leggere “I canachi” di Peter Patti qualche giorno fa e sento ancora una scia elettrizzante che mi attraversa la mente. Parole e vite aggrappate al mio cervello. E non so ancora perché mi faccia questo effetto un pugno di uomini malvestiti, grossolani e scontenti.    

Disperati a colori: picari o, come li chiama l’autore, canachi, epiteto dispregiativo di cui sono fatti oggetto gli emigrati nella Germania satolla. Gente che sperava di trovare l’America, ma ora non sa cosa cercare. L’ulivo, in lontananza, conserva la sua forza di attrazione. Ma se tornano a casa rimbalzano indietro: “uomini boomerang”. Vivono una quotidianità convulsa e smembrata lungo strade che si rivelano il più delle volte vicoli ciechi. Bevono fino all’incoscienza, entrando in bar dai nomi strani e stranieri che significano sempre “ricettacoli di solitudine”: “L’alternativa più valida il Ponte dei Suicidi”. Si sente risuonare il nome “amico”, “compagno”, “amigo”, ma qualcuno cerca “complici” per un espediente che duri un giorno o sia risolutivo di una vita.

L’autore non inveisce, non critica, non predica, non esibisce – come un personaggio del suo romanzo – gigantografie di Che Guevara. Non è esperto di strategia rivoluzionaria. Dirà, in una parte avanzata del libro, che gli emigrati non riusciranno mai ad essere come i tedeschi perché non sanno pronunciare le “e” strette, ma pronunciano una vocale tra la “a” e la “e”. Suprema, elegante ironia.

Il suo sguardo è obliquo. I personaggi ce li fa sfilare davanti uno dopo l’altro o in gruppi, ma come attraverso un vetro. Non possiamo toccarli. Né sentirli, essendo stato abbassato l’audio del loro strazio e della loro insignificanza.

Una visione distaccata e pudica di un mondo multiforme e di grana grossa, ma pulsante e redento, quasi, dalla sua stessa sofferenza non esibita: ecco il primo ingrediente usato dal “quoquo” (cuoco) di questo lungo racconto.

Questa umanità malferma e brulicante, dall’anima nascosta, (i personaggi non piangono, i dialoghi non graffiano), non potrebbe da sola costituire un’attrazione irresistibile. Rappresenta ancora il “cosa”, non il “come”. Potrebbe essere l’argomento di un libro di buon gusto, di una onesta narrazione, in un film o un documentario. Solo che l’autore non racconta, insegue i suoi pensieri.

E qui l’arte fa la differenza. Il suo è un “vaneggiamento”, talvolta allucinato, sempre raffinato, irregolare, trasgressivo e distorto, come condire con sale e aceto una bella granita di fragole. Una lingua effervescente, che non è solo schiuma sopra l’onda: è sostanza liquida che “scorre” inarrestabile, anch’essa come l’autore, in un colto, ricchissimo, sorprendente on the road. Patti continuamente “dimentica” l’espressione usata prima per un’altra che si presenta, geniale, e un’altra ancora, in un gioco continuo e allusivo di scatole cinesi. La sua narrazione riproduce lo stolido andare senza regole dell’esistenza, le angosce, i sogni svincolati dalla ragione, le ossessioni dure, metalliche quasi. Il martellare di un desiderio sessuale sempre maschile, diretto e distratto, singolarmente privo di eros, vissuto nella sua funzione di analgesico e appagamento momentaneo: whisky, che diventa acqua subito dopo, e lascia lo stesso bisogno di alcol. “Sesso alla maniera zoologica: babbuini e primati assortiti che saltano l’uno sulla schiena dell’altro”.

Una lingua che fa sgranare gli occhi ad ogni pagina. Modernissima e antica (non disdegna il latino), produce e accoglie, come una madre prolifica e generosa, neologismi e invenzioni, inglese e tedesco, senza apparire falsa. O fredda. Si articola anzi in mille ruscelletti di fuoco. Fuoco intellettuale. Non si può descrivere questa lingua, lussureggiante ma priva di ostentazione, a chi non ha letto il romanzo. È come voler illustrare a chi non ha occhi le differenze fra Caravaggio e Beato Angelico.

Ed ecco che, in mezzo a questo gioco pirotecnico irrompe, tagliente e tenera, la poesia. Poesia del paesaggio, poesia dell’amore e dell’amicizia. Radure erbose, dove il respiro si placa.

Ho riletto molti passi, per assaporarli, sottraendomi alla frenesia della narrazione. Per qualcuno non ho resistito al desiderio di mettere in versi le parole dell’autore. Un piacere sollecitato dalla lettura. E qualcosa di più, un contagio, un “amor ch’a nullo amato amar perdona”. Ecco qualche esempio della prosa poetica di Peter Patti:

“Il grembo vaneggia impossibili accoppiamenti. Aiuola annerita dal gelo, il letto suo. L’amore che ha dentro di sé se ne sta tutto rattrappito e fa il muso, non sapendo da che parte volgersi. Ogni tanto vola dalla finestra, si libra sopra i tetti, ridiscende e striscia sui prati. Va ad accarezzare un fiore, si posa sui capelli di una passante … Ma, al primo contatto con il mondo dell’agitarsi indaffarato, torna ad avvitarsi su se stesso nel cantuccio di sempre, guaiolando abbattuto”.

“E arrivò per lui un’altra alba solitaria. Alba in automobile. Gli ontani della riva pluviale si ergevano, netti e fieri, contro la volta rosaceleste, dove ancora si profilava la luna – moneta falsa -. La lunga melodia della natura andò via via trasformandosi in un Intermezzo furioso là dove si adagiavano le ultime propaggini della cittadina”.

“Farmi seppellire in una casa color malva, ecco il mio sommo desiderio. In una casa simile, con la malva a predominare assoluta, ogni problema, anche il più spinoso, si sarebbe dissolto all’istante: niente più nervosità né insonnia, e attacchi di febbre neanche a parlarne. Preferibilmente, le pareti dovrebbero essere fatte di un impasto di muschio, genziana e noce moscata”.

“Mattinagiocosagelsominoargentata”.

“… Mentre procede così, impigliandosi nei cespugli di sambuco e incespicando sulle pietre conficcate nel terreno, alle sue spalle i rombi dei motori e i brontolii delle fabbriche sfumano in un vago presentimento di libellula. Gli alberi sono fitti e, se si allargano, è per far posto a una marcita oppure alla casupola del guardaboschi. Scricchiolio del legno; stridore di un gatto volante che salta da un ramo all’altro. L’abetaia si trasforma in una parata di pioppi”.

“Alba, dammi il tuo colore … Tingimi del rosa melodico degli involvoli di conchiglie. Sotto le tue dita intrise io sto, … in attesa dell’abbaglio della tua tavolozza e del tuo arrivederci inclemente tra ali color indaco”.

“La calotta del sole è punteggiata da lepidotteri, farfalle giallo limone e farfalle ‘occhi di tigre’. L’autobus aggira un bosco a maglia stretta in cui, tra macchie di candore sparso, danzano silfidi e gnomi che, pallidi pallidissimi, si rallegrano  – come tutti, del resto – per la fine del Lungo Freddo. Le pigne si spaccano, si aprono: nuovi abeti cresceranno”.  

La passione del protagonista per la sua Brigitte si colora di sentimento e perfino di un velo di erotismo (letterario): “Lieto di rivederti, donna di tabacco biondo! Adesso accendo un’estremità di te e ti fumo tutta, lentissimamente”.

“ …vuole solo essere presa sul palmo della mano, come una lucciola arrendevole”.

E Roccus, il suo amico poeta malaticcio geniale e mentecatto, incongruamente “piantato in una casa rumorosa e carnevalesca” gli ispira righe intime:

Amico. Ci lanciavamo la sfera di cuoio. Poi, sudati, ci immergevamo negli scenari di brume discrete e picchi luminosi, sotto gli occhi acuti di lupi e quelli irridenti di civette. Senza una parola. Senza una fottuta parola”.

L’amicizia virile: hanno diviso tutto, perfino la ragazza, perfino nello stesso letto. Viene in mente Jacques Brel e il suo Jojo. Sulla tomba dell’amico Brel porta risate, un po’ di vino, qualche sigaretta (Jojo/ voici donc quelques rires/ quelques vins quelques blondes); ha il “piacere” di dirgli che trascorrerà una lunga notte con lui; gli ricorda la loro dolente complicità: “Sappiamo entrambi che il mondo sonnecchia per mancanza d’imprudenza” (Nous savons tous les deux/ que le monde sommeille/ par manque d’imprudence).

Questo libro dà al critico un sentimento di inadeguatezza. Si segue una scia, un rivolo, e mille altri rimangono trascurati. Ciò non significa che tutte le pagine si equivalgano. Non esiste il romanzo perfetto e solo dei morti non si può dire nulla “nisi bonum”. E questo è un romanzo terribilmente vivo. Scritto da un uomo, grande artista, non da Dio in persona. Per esempio, la descrizione di un sogno prolisso mette in difficoltà chi non riesce a sganciarsi troppo a lungo dal cervello, così come le pagine della formazione filosofica dell’autore suonano meno convincenti di altre.

Ma i piccoli rilievi sono poca cosa di fronte alla ricchezza elargita. E poi l’autore non è tipo da filosofia teoretica. È perfetto quando dice: “La vita è un’unica pazzia” e aggiunge (una delle poche citazioni in francese) “Quoi”. Cioè: “Quoi d’autre?” È coerente con la sua narrazione quando ci conduce sulle sponde di un canale (“Nel canale l’acqua scorre insieme ai residui del tempo”) e butta in un gesto simbolico (anche se nega che lo sia) i suoi manoscritti nella melma. Tanto “Neppure un componimento poetico o musicale realmente portentoso può arrestare le epoche, i secoli, gli anni, le ore, i minuti. A dispetto dell’arte e degli artisti, l’acqua sudicia continuerà ad affluire nel Traum in un subdolo serpeggiare perpetuo”.

Nell’unica chiusa positiva che può trovare, si affida ad una risata di donna, che sembra uscire dalla sua vagina. Una risata profonda vitale oscura e primitiva come l’orgasmo. Viene in mente un famoso dipinto di Courbet, “L’origine du monde”, nobilitato dalla poesia di Patti, che porta quella risata a spasso per il cielo, con un volo di rondine a concludere il libro.

La lettura di questo testo è senza istruzioni per l’uso. E il viaggio che ne consegue non è una visita guidata. L’autore stesso ne è trascinato, fino alla scrittura automatica, fino ad un’arte sganciata da ogni timidezza, da ogni ritegno e si direbbe persino da ogni verosimiglianza. Esistono spettacoli vietati ai minori, qui bisognerebbe avvertire chi non è sicuro del proprio equilibrio di tenersi lontano da queste righe: di visionario ne basta uno, l’autore, ed occupa tutta la scena. Anche se lo fa con umiltà, a volte con disperazione, rimanendo sempre – come potremmo dire, echeggiando il titolo di un libro di Nietzsche – “umano, troppo umano”.

La sua sensibilità al reale – qualunque forma di reale – si amplifica fino alla sofferenza, come quando c’è troppa luce o troppo rumore. La realtà non gli parla, lo stordisce, ed egli la registra come può, a volte la segue in maniera sommaria, con pennellate impressioniste, a volte con la precisione levigata e smagliante di Leonardo.

In lui c’è la ricchezza del banchetto rinascimentale, quando si è contemporaneamente stracolmi di cibo e tuttavia tentati di averne ancora e ancora. Ma anche un quid di bruciante e nascosto, nonostante la conclusione pacata del suo romanzo. Sembra aver scritto come qualcuno che è stato avvelenato  e al Pronto Soccorso gli fanno la lavanda gastrica. Sicché erutta tutto quello che ha dentro, forse nella speranza catartica di liberarsene consegnandolo al foglio di carta, e in un certo senso costringendo il lettore a farsi carico di una parte di quel veleno.

Anna Murabito     annamurabito2@gmail.com

DISPERATI A COLORIultima modifica: 2021-03-26T17:22:21+01:00da
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