PASQUA A FARI SPENTI
di Santuzza Quattrocchi
Questi giorni che precedono la Pasqua, questo cielo grigio, cosi pieno di nuvole, questa natura ancora chiusa nelle sue gemme riportano ad altre, antiche, simili atmosfere.
Un tempo, nelle chiese di paese, silenzi custodivano il Cristo morto e drammaticamente invitavano alla mortificazione. Figure di Santi, in altri giorni splendenti di ori e di colori, mestamente coperti di viola nei Venerdì Santi dei nostri ricordi, offrivano il loro esempio e incitavano alla totale identificazione con la loro sofferenza.
Si viveva intensamente il dolore e neanche gli odori delle violacciocche e dei gigli, che pure abitavano le chiese, lasciavano intravedere la fine di quella triste atmosfera. La Resurrezione era lontana, sembrava si dovesse aspettare una vita intera prima di godere del suono festoso delle campane della Pasqua solare dei nostri ricordi, e degli abbracci con parenti e amici, per le strade, nelle piazze, nelle case.
Nei cinema, rigorosamente partecipi di questa mestizia, si proiettavano solo i film della Passione, con il Vangelo per sceneggiatura e i fondali finti quale scenografia. Gli attori, malgrado il trucco e i costumi austeri, mostravano visi giovani, dove il dolore non aveva ancora lasciato segni. Persino il volto di Gesù, coronato di spine, o di Pilato, provato dall’incertezza, e di Maria, mite e rassegnata nell’accettazione del dolore, non avevano impressa se non una piccola parte del dramma che interpretavano. E tuttavia quei film ingenui contribuivano a intensificare il clima dì mortificazione della Settimana di Passione. Non si poteva ridere in quella settimana, non si mangiava carne e il digiuno e l’astinenza erano la prova di un sacrificio concreto.
Quando poi finalmente la gioia tornava nelle chiese, nelle case, nelle piazze, e la pace si spargeva fra gli uomini di buona volontà, chiamandoli a raccolta per godere della Resurrezione di Cristo, il perdono, frutto del Suo sacrificio, diventava purificazione e dava sicurezza e speranza. Si poteva sperare se, dopo tanta pena, arrivava la gioia della Pasqua. Si poteva sognare un mondo di pace.
Si formava così la mentalità cristiana, l’ingenuo ottimismo dei fedeli di Cristo che non disperano e si piegano alla Sua volontà, nella convinzione che tutto si risolverà, a tutto c’è rimedio, perché Dio vuole il bene degli uomini.
Più laicamente, con lo stesso ottimismo, un vecchio adagio francese recita: «Les nuages passent, le ciel reste».
Ma in questa Pasqua, così intrisa di pena, che tanto ricorda le sofferenze di Cristo, la speranza sembra non avere più alcuno spazio nel mondo: gli uomini sono martoriati, e per essi risulta veramente difficile credere e sperare in una concreta, tangibile, terrena resurrezione.
Che delicatezza, che dolcezza in questo amarcord di un tempo felice, il tempo della giovinezza della buona autrice. Quanto tempo è passato, quanti cambiamenti del mondo! Non resta che la nostalgia. E rivivere quelle atmosfere galleggianti tra sogno e memoria è una sensazione bellissima. Emerge tutto “l’ingenuo ottimismo dei fedeli di Cristo che non disperano” che confina con la felicità, l’unica felicità, quella domestica, ffrugale, confidente. La pace, una pace perduta, troneggia su tutto. In questo scritto la semplicità nasconde la profondità. Complimenti per questa sorpresa.
Molto bello e toccante questo articolo di Santuzza, che ci ricorda il periodo della Pasqua come era sentito dai fedeli, cioe’ la stragrande maggioranza della popolazione italiana di mezzo secolo fa. Una Pasqua che era specialmente celebrata al sud d’Italia e di Spagna, con l’astinenza, le processioni, i sepolcri, i veli viola a coprire l’oro dei santi. Ma la religione, a mia memoria, regolava i nostri comportamenti durante tutto l’anno, e in ogni nostra azione. Era presente nell’ obbligo della messa alla Domenica. Nelle preghiere del mattino e della sera. Nel rosario pomeridiano, che solevo recitare con mia madre e mia nonna. Ci seguiva dalla nascita alla morte (ricordate la canzone “Les trois cloches”, cantata dai Compagons de la Chanson?). Ci dava sensi di colpa se avevamo “sbagliato”. Ma ci dava speranza nell’attraversare una convalescenza, o una brutta malattia. E soprattutto, ci assicurava la nostra continuazione nell’eternita’, annullando, o mitigando, la paura della morte.
Oggi, che Dio e’ morto o quasi, resta solo la disperazione. O l’indifferenza. La Pasqua di quest’anno, causa l’epidemia, e’ triste come qualsiasi altro giorno della Settimana Santa. Non c’e’ piu’ quel senso di gioia, di rinascita, che si annunziava con le campane mattutine della Domenica Pasquale. E forse l’unica consolazione rimane oggi l’inizio della primavera (almeno per voi che vivete a Nord dell’equatore). Non dimentichiamo che Pasqua in inglese si chiama Easter, dal nome di Eastra, la dea della primavera nella religione druidica. Beh, almeno quello.