MANET E MONET

Note su due grandi pittori

di Anna Murabito

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Musica di César Franck: dalla “Sonata per violino e pianoforte”

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Musica di Johannes Brahms: dal “Quintetto per archi op.115”

Li abbiamo sempre confusi, o almeno distinti grossolanamente. Édouard Manet (1832 – 1883) l’autore de “La Colazione sull’erba”, opera ritenuta enigmatica quasi quanto “La Tempesta” di Giorgione; e Claude Monet (1840 – 1926), “quello delle ninfee”.

Li abbiamo messi insieme a torto in quel calderone fremente di vita che fu l’Impressionismo, chiedendoci: Manet o Monet? La colpa, ovviamente, è loro. Ne mancavano, cognomi? Tra l’altro, per ispessire la nebbia, anche Monet è autore di una “Colazione sull’erba”. 

A volte procediamo per semplificazioni elementari: Degas è “quello delle ballerine” e dimentichiamo che è anche quello de “L’Absinthe”, che è certo l’assenzio, ma anche la mancanza di speranza nello sguardo di una donna. E le colorate farfalle danzanti sono solo una parte della sua ossessione pittorica che conosce l’eros greve delle case di tolleranza. Almeno però non lo confondiamo con nessun altro. Per Manet e Monet, dunque, qualche precisazione è necessaria.

Volendo fare un paragone tra i due artisti, si potrebbe dire di Manet, con Anna Achmatova: “Ci sono giorni che precedono la primavera”. E di Monet: “Primavera d’intorno brilla nell’aria e per li campi esulta”. Uno precede l’altro e fa da battistrada.

Quando gli schemi sono vecchi e usurati, si può creare il clima giusto perché la forza di un genio li abbatta. Manet sentì prima degli altri l’urgenza di percorrere strade diverse. Con lui la pittura abbandona gli studi polverosi e i soggetti ampollosi e stantii ed entra nella vita reale, spesso “en plein air”, all’aperto. Le divinità del mito e i personaggi storici cedono il passo alla quotidianità, alla gente comune.

La sua fu una grande rivoluzione: quella che aprì la strada all’Impressionismo, anche se egli non si propose mai coscientemente questo scopo. Non volle mai essere un ribelle, ed anzi si ostinò, con lunga pazienza, a cercare l’approvazione degli ambienti accademici. Fu travolto dalle critiche. Assaggiò delusioni cocenti ed anche umilianti irrisioni. Forse fu innovatore al di là di quel che avrebbe voluto. Forse voleva solo riformare la pittura classica. Se fosse riuscito ad essere un po’ più conformista, e ciò gli avesse permesso di essere accettato dai critici suoi contemporanei, forse si sarebbe per questo “falsificato”. Per nostra fortuna il suo genio era indomabile. E la sua importanza nell’ambito della Storia dell’Arte è enorme come enorme è il fascino immortale delle sue opere.

La ragazza di “Un bar aux Folies Bergère” è stampata nella nostra memoria insieme al nome del suo autore. È lì, per sempre, in primo piano, mentre dà le spalle a un pubblico anonimo che assiste allo spettacolo. Così naturalmente giovane ed ingenuamente procace, il viso serio e l’espressione quasi timida. La vita sottile, di cui si indovina il tepore, pare aspettare il braccio di un uomo al ballo. Non è una nobildonna, non è una persona importante. È una creatura viva in mezzo alle bottiglie vive e colorate. Il prototipo della brava e bella ragazza del bar, quella dall’anima candida, che spesso accompagna e consola l’eroe stanco al bancone.

A Bar at the Folies-Bergère

Nelle scene ambientate ad Argenteuil incanta l’indicibile leggerezza e naturalezza dei gesti e dell’abbigliamento. Un uomo dalla mise bianco-abbagliante in barca, un altro con una maglietta a righe con le maniche rivoltate a mostrare braccia abbronzate.

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C’è un dipinto in cui una coppia siede a un tavolo di un locale pubblico, sotto un albero di arancio. Lui è un giovane bello e disinvolto, elegante nella sua camicia gialla con la sua piccola cravatta Lavallière da pittore, secondo la moda del tempo. Lo sguardo tenero implorante e sfrontato, la bocca sensuale, sta corteggiando la sua “dame”. Si allunga verso di lei e quasi la circonda con le braccia. Sono troppo vicini per non parlare d’amore. Tutta l’attenzione del pittore è concentrata sul volto dell’uomo, uno scugnizzo napoletano terribilmente moderno. Le sta sussurrando l’eterno invito: “Vieni a letto con me e ti farò felice. Con me vedrai le stelle nel cielo azzurro del meriggio estivo”. Lei è un po’ rigida ed incerta: “Il cameriere ci sta guardando”, sembra dire. “Lascialo guardare”, continua lui.

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Le signore sono piuttosto statiche ed impettite in queste scene marine ed estive. Sembrano un passo indietro, rispetto agli uomini. Ma la vita che scorre non racconta più pose e allegorie, è quella di sempre, anche quella di oggi. Il “clima” è caldo e popolare, sembra di vedere nei personaggi maschili una sorta di Massimo Ranieri più raffinato, ma sempre con le sue “rose rosse per te”.

Non ricordo prima di Manet un pittore così moderno e così limpidamente esplicito. Lontanissima l’enfasi di Hayez, che si lancia a rappresentare l’amore romantico come poteva immaginarlo una sartina. O il tentativo di Klimt di portare su tela il lusso e la raffinatezza di cui anche la donna, con i suoi sensuali sfinimenti, è un esempio.

La luce “en plein air” bastava raccoglierla, e Monet ancor più di Manet, la rese protagonista.

In entrambi la luce non sottolinea più le espressioni e non scolpisce i volumi, come in Caravaggio; non esalta il pulviscolo fluttuante in un raggio di sole come nei miti interni dei fiamminghi. Ma in Manet questa luce appare  ancora statica, come se venisse da una sorgente fissa e diretta, esterna, ad accompagnare la vita; in Monet invece si muove e sembra avere un’esistenza propria. Una sorta di valore in sé: macchia chiara sulla gonna o sull’erba, degna di essere rappresentata. Non strumento, ma risultato.

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I volti perdono interesse. Sono appena abbozzati. Chiazze di colore in mezzo alle altre. I quadri crescono a pennellate veloci, senza disegno preparatorio. Mentre lo scandalo dei critici si levava alto, il paesaggio sostituiva l’uomo come soggetto cangiante, all’infinito.

Nessun ritratto in Monet. Quando rappresenta la figura umana, la natura e la luce invadono l’abito bianco e il parasole verde che fa tutt’uno col cielo azzurro. La realtà si trasfigura in un fulgore che trema e ricorda veramente la primavera leopardiana.

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Nessun sentimento da comunicare: soltanto il respiro fremente dell’aria; la seta di cieli tenerissimi e indistinti; l’allucinazione velata di rosso di Cattedrali gotiche, di cui non si saprebbe dire se sono sogno o realtà. Un lento viaggio verso qualcosa che non si era mai visto, la fine della pittura figurativa: nell’acqua del mare e del lago, nelle nuances indistinte delle foglie degli alberi. La realtà pittorica si semplifica, liberata dagli schemi, dai simboli, dagli intenti didattici ma si dilata e arricchisce attraverso i mille occhi che la percepiscono, nella infinita libertà delle sensazioni che procura, così come infiniti sono i colori. E anche la pietra smette di essere pietra. Rouen non è più una cattedrale di granito innalzata per la gloria di Dio, ma diventa occasione di emozioni in tutte le ore del giorno e in tutte le stagioni. Il colore diventa essenza, la luce l’unica realtà astratta che valga la pena di rappresentare.

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Catturare la luce, catturare il colore: cogliere quello che l’occhio percepisce e mescolarlo con il battito meravigliato del cuore, in una visione radiosa della vita: con Monet esplode l’Impressionismo e con esso la libertà e la leggerezza di un’arte pittorica che legittima l’emozione come immediata risposta. Come disse Gauguin: prima l’emozione poi la comprensione.

Con Manet e con gli Impressionisti (in prima fila Monet) ci avviciniamo alla pittura in sé, che è figlia del piacere di vedere. All’impressione, all’emozione della realtà e dei suoi colori, piuttosto che alla cronaca della visione. Non c’è posto per Arti e Mestieri, Vizi Capitali, Estasi di santi e Crocifissioni. Non c’è posto per omaggi ai potenti né per stereotipate rappresentazioni di umili pastorelli. La donna smette di essere Madonna o Nobildonna e diventa ragazza che legge un libro sotto un albero nel tripudio della primavera, giovane madre che passeggia per i campi in un giorno d’estate e le sue gonne bianche si portano dietro erba secca. Passando da un quadro all’altro, da un pittore all’altro, si è incantati da cento visioni, senza che sia importante il soggetto rappresentato, quanto la gioia di ciò che vediamo.

Questi grandi pittori non ci insegnano nulla, perché quello che ci comunicano non è materia di apprendimento. Manet ci lascia il sole che si accende sugli abiti di un giovane, durante una gita in barca; il desiderio d’amore negli occhi di un uomo. Monet ci lascia il rosso dei papaveri, il profumo del vento, il silenzio che cambia colore intorno alla cattedrale. Cose che non si apprendono, si sentono. Ed assumono valore universale perché arrivano al cuore di tutti, come le parole semplici delle Tragedie greche, come la musica di Mozart. Ecco perché le riproduzioni delle opere più note degli Impressionisti si trovano anche nelle case degli umili. La pittura non contribuisce alla “cause du peuple” di Sartre negli anni devianti del “realismo socialista”, ma alla causa dell’umanità.

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Le anime dei defunti nel mondo classico avevano un dolore cocente, quello di essere privati della luce. Guardando i quadri degli Impressionisti cresce in noi il rimpianto della vita mentre la viviamo.

Anna Murabito      annamurabito2@gmail.com

 

 

 

MANET E MONETultima modifica: 2021-04-11T08:21:32+02:00da helvalida
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10 pensieri su “MANET E MONET

  1. Incomparabile Anna Murabito! E’ vero, i due artisti hanno il guaio di essere facilmente confusi tra loro per via dei cognomi. Con quanta chiarezza li racconta l’Autrice! Volevo copiare e segnalare qualche espressione particolarmente felice, ma le frasi si moltiplicavano in continuazione ed ho finito per rinunciare all’impresa. Sono troppe le intuizioni geniali che riguardano i due pittori, come troppe sono le geniali espressioni con le quali i due sono offerti al lettore, anzi allo spettatore. Perché la Murabito scrive spesso per immagini: agire da poeta. E l’acutezza delle interpretazioni è quasi incredibile. Manet non più il voyeur di giovani ballerine, non più Monet fisso su pallide ninfee. C’è ben altro e la Murabito ce lo apre in maniera splendida. Leggere è un vero piacere. Complimentarsi è riduttivo.

  2. In questa domenica di Aprile cosi grigia, arriva questo raggio di sole, questa abilità di tradurre sensazioni e interpretazioni in parole.
    Sono parole che Alida sa dire, sia che si inchini di fronte al miracolo di un tramonto, sia che resti estasiata di fronte a un Manet o a un Monet.
    E sento quasi un grido di felicità ( è inutile negarlo, l’arte rende felici ) che le sgorga spontaneo.
    Se” l’arte della poesia consiste nel non dire tutto”, ( Alida è maestra nella poesia ) l’arte della prosa consiste nel dire tutto. E Alida lo fa , semplicemente, ma con passione, passione della parola , culto della parola, cui è demandato il grave compito di traslare sentimenti di altri.

  3. Un’osservazione sulla famosa “Colazione sull’erba”. Come è noto, questo quadro è ritenuto enigmatico. Perché i tre uomini sono perfettamente vestiti e la donna è nuda? Perché i signori parlano, bevono, si comportano del tutto normalmente, e non degnano neppure di uno sguardo la donna? Quella che sarebbe il primo oggetto di curiosità, per chiunque vedesse la scena? Per anni, neanch’io ho avuto la risposta. Poi, leggendo qualcosa su Manet (semplicemente su Wikipedia) ho scoperto qualcosa che fornisce una risposta evidente a tutte quelle domande.
    Sembra che Manet come pittore sia subito entrato in conflitto con la pittura ufficiale del suo tempo perché essa aveva ai suoi occhi due grandi, imperdonabili colpe, come dice anche Anna Murabito: la prima, di non rappresentare la vita corrente, ma soggetti astratti, ampollosi, a volte mitologici. Un po’ quello stile enfatico di cui Parigi (purtroppo) abbonda. La seconda, imperdonabile colpa, è quella di dipingere nell’atelier, allontanandosi dalla vita corrente, col modello o la modella in posa. La vita vera è là fuori, sulle spiagge, nelle trattorie, alle Folies Bergère. Dappertutto, salvo che negli atelier dei pittori.
    E allora ecco la vendetta: Manet prende tre artisti , li tira fuori dall’atelier. li porta su un prato, a fare un pic nic, e a godersi la vita e i colori della natura. E tutto è normale. E la donna nuda?
    Secondo me Manet ha appunto voluto portare la pittura fuori dalle stanze chiuse, nel trionfo del verde. E per dimostrare che questa è la sua tesi, porta fuori i pittori con i loro normali vestiti, e la loro modella con la sua normale nudità. Una nudità talmente normale che essi non fanno caso a lei, mentre lei si volta verso lo spettatore, e ci chiede quasi, con la sua aria tranquilla: “Perché vi stupite che sia nuda? Come dovrei essere, essendo una modella? Come potrei rappresentare la pittura, insieme con questi tre amici, se non sottolineassi che – come tante volte ci hanno mostrato i greci – non c’è contrasto tra vita all’aperto e nudità, quando la nudità è quella di una donna bella?”
    Tralascio di parlare della mia ammirazione per Manet, per Anna Murabito, a me più che cara, e al raffinato “tecnico” Carlo Casagni”, che ha montato il video, perché sono convinto che questa ammirazione non è solo mia, ma di chiunque abbia goduto di questo piccolo capolavoro.

  4. Cara Alida, non vorrei esagerare con i complimenti, dunque ti diro’ lo stretto indispensabile: sei sublime.

    Questo e’ stato di gran lunga l’articolo piu’ bello che abbia mai letto sull’Impressionismo. Chiarissimo, intelligente, divulgativo, elegante. Sapevamo tutti che la luce e la natura sono protagoniste nell’impressionismo. Ma il modo in cui tu lo descrivi! Uno dei passaggi piu’ belli secondo me, e’ questo:

    Con Manet e con gli Impressionisti (in prima fila Monet) ci avviciniamo alla pittura in sé, che è figlia del piacere di vedere. All’impressione, all’emozione della realtà e dei suoi colori, piuttosto che alla cronaca della visione. Non c’è posto per Arti e Mestieri, Vizi Capitali, Estasi di santi e Crocifissioni. Non c’è posto per omaggi ai potenti né per stereotipate rappresentazioni di umili pastorelli. La donna smette di essere Madonna o Nobildonna e diventa ragazza che legge un libro sotto un albero nel tripudio della primavera, giovane madre che passeggia per i campi in un giorno d’estate e le sue gonne bianche si portano dietro erba secca.

    Chiunque legga queste righe non ha bisogno di leggere piu’ nulla sull’argomento, ha capito l’essenza dell’Impressionismo. Brava, brava Alida!

    • Una volta ho detto ad un amico gentile: “Sei meglio del Prozac”.
      Per Nicola non so trovare una risposta così sintetica ed espressiva, ma gli dico che conserverò le sue parole nella mia mente e ne avrò cura, perché non perdano l’efficacia balsamica. Grazie.

    • Sono sempre contenta di sentire la presenza del multiforme Pjotr, scrittore che ammiro, amico sensibile a cui voglio bene.

  5. Alida si rivela ancora una volta sublime (rubo la lode di Nicola) non solo nella poesia ma anche come appassionata d’arte ed è difficile aggiungere qualcosa se non una piccolissima informazione.
    Le pose dei personaggi de “le déjeuner sur l’herbe” di Manet sono tratte da una copia ad incisione del Giudizio di Paride di Raffaello ad opera di Marcantonio Raimondi e chiari riferimenti sono anche al Concerto campestre di Tiziano, il tutto denota come Manet abbia studiato con passione i maestri del nostro glorioso passato e per dirla con Zola, Manet è riuscito a tradurre con un linguaggio particolare le verità della luce e dell’ombra, la realtà degli oggetti e delle creature.
    Ma ancor più calzante è quanto sensibilmente ha scritto Alida” Guardando i quadri degli Impressionisti cresce in noi il rimpianto della vita mentre la viviamo”

    • La mia amica Ivana, sempre generosa ed appassionata, ci elargisce la sua cultura filologica. Grazie di tutto, anche delle utili informazioni.

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