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ZENGWALAND

UN RACCONTO

di Gianni Pardo

Un giorno il signor Goodwill decise di fare un bel viaggio e andò in Africa. Visitò molte nazioni e infine scoprì che nello Zengwaland esisteva ancora la schiavitù.  Non che gli schiavi fossero molti: in realtà c’era un solo uomo, Kamimba, abbastanza ricco da possederne un centinaio, ed è facile immaginare come vivessero in un Paese già poverissimo quelli che addirittura erano considerati una sorta di bestiame, come gli asini o i cammelli. Quei disgraziati lavoravano sedici ore al giorno, domenica inclusa, mangiavano poco e male e come unico premio avevano il sonno della notte, sulla paglia. Se disobbedivano o si lamentavano, il proprietario non esitava a farli frustare. Un incubo.

Facendo finta d’essere interessato al fenomeno etnologico, l’inglese chiese di parlare con loro e presto non poté trattenere le lacrime. Quei poveri cristi erano per la maggior parte analfabeti, sporchi, malnutriti, stanchi e soprattutto programmaticamente umiliati. L’inglese decise di fare qualche cosa per loro. Andò dal proprietario e dopo una breve contrattazione, essendo un miliardario, riuscì facilmente a comperare l’intero complesso: la fattoria, il terreno e soprattutto gli schiavi. E quando tutto fu in regola, con tanto di bolli dinanzi ad un notaio, riunì gli schiavi nell’aia della fattoria:

“Quando sono venuto a trovarvi, molti di voi mi hanno espresso il rimpianto per la libertà perduta: ebbene, da oggi non siete più schiavi. Vi siete lamentati di essere compensati solo con un po’ di cibo e un po’ di sonno e da ora avrete diritto alla paga degli uomini liberi, con un tempo di lavoro normale. Kamimba faceva la bella vita col vostro sudore, da domani potrete spartire fra voi tutta la ricchezza che produrrete. Avevate desiderato qualche ora di riposo in più, qualcosa di buono da mangiare ogni tanto, la possibilità di andarvene? Sono qui a regalarvi non solo questo ma assolutamente tutto quello che la libertà può darvi. In cambio di ciò che ho fatto per voi desidero soltanto che mi diciate grazie”.

Gli rispose un autentico boato: “Grazie!” Poi tutti gli uomini si misero a ballare per la gioia e il benefattore non sapeva come sfuggire a coloro che volevano baciargli le mani o i piedi.

Cinque anni dopo, nella sua bella casa del Kent, Goodwill ricevette un pacchetto con dentro una lettera. Kamimba gli comunicava che stava per morire e voleva fargli avere una preziosa statua, di notevole valore etnologico, solo per ringraziarlo. Ringraziarlo perché, diversamente da quei poveracci degli schiavi, aveva fatto di lui un uomo felice. Il miliardario rimase a rigirarsi la statuetta fra le mani, chiedendosi: perché mai diceva “diversamente da quei poveracci…?” La curiosità fu tanto forte che decise di andare a vedere.

La prima sorpresa l’ebbe all’agenzia di viaggi. “Goodwill? Quel Goodwill?” Apprese così che in Africa il suo nome era tutt’altro che dimenticato. Anzi, era meglio che ci andasse accompagnato da robuste guardie del corpo. “Ah, è così? Stavolta in quel dannato paese non darò un soldo a nessuno!”, esclamò.

Arrivato nello Zengwaland, constatò che la sua impopolarità era effettivamente notevolissima. Il suo nome era sinonimo di ipocrisia, carità pelosa, disastro. Pubblicò allora un avviso sul giornale, chiedendo agli ex-schiavi di venirlo a trovare nell’aia dell’antica fattoria, divenuta un rudere in mezzo ad un deserto.

All’ora stabilita, fu attorniato da una folla torva e risentita: tanto che le guardie del corpo mantenevano con aria indifferente il dito sul grilletto. Goodwill sedette sul tetto della Jeep, come per un safari fotografico, e chiese con calma che gli spiegassero che cosa avevano fatto dopo la manomissione: perché la fattoria era chiusa; perché si diceva non fossero felici; soprattutto perché, a quanto sembrava, tutti maledicevano il suo nome. Ne seguì un vocìo da stadio, con ciascuno che diceva la sua, ma Goodwill per sovrastare le loro voci aveva il vantaggio dell’altoparlante portatile. Avrebbero parlato, concesse, ma uno alla volta. Magari cominciando da colui che, al tempo della schiavitù, era il foreman, cioè quello che dava loro ordini e all’occasione li frustava.

-Un tempo i tuoi compagni odiavano a morte te, ora sembra che anche tu odi me. Forse sei a mezza strada e potrai spiegarti meglio di altri.

-Ci proverò, disse l’uomo, che nel frattempo aveva tentato di darsi alla politica. Ci proverò andando in ordine di tempo.

-Sinteticamente, precisò Goodwill.

-Non è che ci sia molto da dire. Appena la fattoria è stata nostra, abbiamo costituito una cooperativa, abbiamo ridotto l’orario di lavoro e abbiamo stabilito la paga sindacale.

-Ottimo. E poi?

-Ottimo un corno. La cooperativa è fallita nel giro di tre mesi. Eravamo fuori mercato. La produttività era bassa, nessuno era disposto ad investire capitali, gli operai sono rimasti senza paga e sono scappati per andare a procurarsi qualcosa da mangiare. Alcuni sono morti di stenti. Altri sono diventati pastori e vivono nella savana. Alcune donne si sono date alla prostituzione…

Ci fu un mormorio di approvazione e Goodwill dette la parola ad un giovane che, stranamente, portava degli occhiali da vista ed era accettabilmente vestito.

-Tu hai fatto parte degli schiavi? gli domandò.

-Da bambino, ma sono stato più fortunato di altri. Sono stato adottato, ho potuto studiare e sono ragioniere.

-Almeno tu mi sarai grato, azzardò Goodwill.

-Proprio per niente. Lei, riempiendosi la bocca di parole come libertà e prosperità, ha di fatto commesso un crimine. Non lo sapeva che questi poveracci non erano in grado di gestire una fattoria? Non ha pensato che prima qualcuno gli forniva da mangiare e dopo non sarebbero stati in grado di procurarselo? Non ha pensato all’immenso danno che provocava, in ognuno, la coscienza di avere la responsabilità di tutti i propri guai, senza potere incolpare l’odiato padrone? Questi uomini sono stati liberati senza avere avuto alcuna educazione. Prima sono stati trattati come animali e poi alcuni di loro hanno trattato come animali gli altri, uccidendo e stuprando. Perché crede che il suo nome sia odiato, qui, nello Zengwaland?

-Insomma, disse Goodwill, con la voce che gli tremava per la rabbia, secondo lei e secondo voi tutti, io non avrei dovuto liberarvi.

-No, disse un altro giovane dall’aria sveglia. Avrebbe dovuto amministrare la fattoria in modo che lavorassimo di meno, guadagnassimo di più, avessimo il tempo di istruirci per potere, un giorno, proseguire con questo schema da soli. È così? chiese girandosi verso la folla.

-Sììììì…

-Ma quanto tempo ci sarebbe voluto? E chi mi avrebbe perdonato di essere padrone di schiavi? Chi dice che poi sareste stati in grado di proseguire da soli? obiettò Goodwill, furente. Ci avete pensato che mi avete descritto lo schema del colonialismo? Forse che le ex-colonie sono grate alle ex-madrepatrie? L’avessi fatto, m’avreste maledetto lo stesso!

La discussione si avviava a divenire animata ma Goodwill ne ebbe abbastanza. Scese dal tetto e sfuggì ai molti che gli chiedevano l’elemosina. Anzi, ad uno che, più insistente degli altri, gli trotterellava accanto al finestrino, disse: “Vattene, uomo. Non ti darò nulla. Non vorrei danneggiarti col mio denaro”.

Gianni Pardo, 10 dicembre 2007

 

 

ZENGWALANDultima modifica: 2021-05-05T16:50:35+02:00da
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