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OSSA DI MORTO

di Anna Murabito

In questo periodo dell’anno, in Sicilia, può capitare di sentire ricordare la Festa dei Morti. Si celebrava in passato e si basava su un singolare assunto: i morti di ogni famiglia, nella notte tra Ognissanti e il 2 Novembre, lasciavano il luogo ignoto in cui si trovavano (il cielo?) e venivano a portare regali ai bambini. In molti ne parlano, con la nostalgia a fior di lacrima, lamentandosi delle tradizioni belle e irrimediabilmente dimenticate. E una prima impressione è che rimpiangano la loro fanciullezza.

Capisco poco il valore della tradizione. Non in senso storico, ovviamente, ma come risonanza emozionale valida per tutti. Le feste comandate mi lasciano indifferente. Mi è bastato oltrepassare l’adolescenza per verificare che il Natale in stile Mulino Bianco era una mistificazione. Quanto al Capodanno, molte sere del 31 dicembre le ho trascorse da sola, sopravvivendo senza danni; molte in due e qualcuna in tre, quando ci è capitato di invitare a cena qualche amico triste. E mi sono chiesta perché il Carnevale dovesse finire il martedì grasso ed essere seguito dalla contrizione del Mercoledì delle Ceneri.

Preferisco non parlare delle nuove feste, quelle che “allietano” soprattutto le finanze dei supermercati. Chissà chi ha cominciato. Forse gli innamorati: l’amore è al primo posto e un diamante è per sempre. Poi la mamma, gratificata, almeno una volta l’anno, da azalee, rose e tvb. Quindi il papà, orgoglioso di essere, almeno il 19 marzo, il capo della famiglia tradizionale. Da allora in poi è stato un incontenibile diluvio di feste dei nonni, dei bambini e degli animali, del profugo e dell’omosessuale, del magro e del grasso. Aspettiamo, fresca di traversata dell’Atlantico, la Festa del Genere x. Ma forse c’è già ed ha anzi il suo pride.

La non adesione al gruppo di appartenenza segna la misura del disadattamento sociale ma nello stesso tempo corrisponde allo sviluppo della capacità critica individuale e con esso ad una visione più ampia della realtà. La domanda è: ciò che mi circonda non mi piace perché sono io incapace di vederne la giustezza oppure ne vedo i limiti effettivi, quei limiti che gli altri non vogliono vedere, per difendere il loro “io” allargato? Per caso ci sono degli “altrove” meno sbagliati, che mi provochino meno conflitti e meno dolore, e più conformi a ciò che mi sembra ragionevole?

Non ci sono tradizioni regionali che io possa rimpiangere o con cui mi possa identificare. Non ho radici, in Sicilia, benché ci sia nata. Nascere in un posto piuttosto che un altro è un caso, cioè quanto di più mobile e inafferrabile si possa concepire, inconciliabile con le radici, che dovrebbero dare stabilità e sicurezza.

La tradizione mi disturba non soltanto in quanto disadattata nella mia terra d’origine: in anni lontani ne ho visto l’islamismo di fondo, la sottocultura e la sottomissione; mi disturba perché sembra una lode del passato “dalla faccia umana”, da contrapporre al disordine e alla frenesia meccanica del presente. E non vorrei si trattasse di un errore di prospettiva. Perché quella faccia umana nascondeva spesso l’ignoranza, la miseria, la superstizione, il pregiudizio.

Quando poi ci si mette di mezzo la letteratura, le cose si complicano. Il filtro che l’autore usa può darci una visione della realtà che non corrisponde al nostro sentire. Questo mi è capitato leggendo un brano di Andrea Camilleri, postato da un amico su una chat, proprio sulla Festa dei Morti. Così Camilleri, con la solita lingua intrisa di sicilianismi, ci descrive l’attesa dei regali da parte dei bambini: “Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno, volevamo vederli, i nostri morti … dopo il sonno agitato ci svegliavamo all’alba… avevo otto anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato dalle mie preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano…” Poi l’autore ci spiega che dopo il 1943 con i soldati americani arrivò l’albero di Natale e “…avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto”.

Tralasciando i molti bambini coetanei di Camilleri che lavoravano nelle zolfare, perché avevano altro da pensare; tralasciando gli scugnizzi di otto anni che a Napoli aiutavano le sorelle e le madri a prostituirsi, per mangiare. Già il mio ambiente sociale di appartenenza, operaio o al massimo piccolo-borghese, “fabbricava” bambini “scafati” che mai avrebbero creduto ai morti veri che portano doni. “I morti sono morti”, diceva mia nonna che era nata nell’800 e aveva un forte senso del reale. E i bambini non si sarebbero mai sognati di pregarli e di rimanere svegli per l’eccitazione di aspettarli. Se pregavano i morti, lo facevano nell’ambito di un condizionamento che induceva a pronunziare dei Requiem insieme alle Ave Maria. Ma lo stesso condizionamento sovente sosteneva con convinzione l’esistenza di “Donne di notte” e fatture. E si recitavano formule per fare passare il mal di testa, dimostrazione tangibile di “un’occhiatura” subita. Se qualcosa aspettavano i bambini, erano i regali. Per quelli che potevano permetterseli.

Non solo le feste comandate ma anche tutto ciò che è “colore”, mi lascia indifferente. Soprattutto non esistono sentimenti e comportamenti collettivi cui si possa aderire acriticamente. Il gruppo conforta e rassicura perché non fa sentire soli, ma apre la strada ad incidenti di percorso di non piccola entità quali certi disagi mentali e, socialmente, nevrosi e fanatismi. Ci sono tradizioni belle e brutte, buone o cattive (era tradizione anche percuotere la moglie), ma certo non valide soltanto in quanto “Tradizioni”. La realtà è molto più ricca e complessa del pane di casa e dei sapori familiari.

Ho pensato che il brano di Camilleri mi rendeva triste e mi faceva precipitare nel provincialismo o, peggio, nello strapaese.

Forse non bisognerebbe accarezzare le proprie tradizioni come cosa sacra, ma esaminare con l’occhio acuto e distaccato dell’antropologo altre tradizioni. Dalla festa di Santa Lucia nei Paesi nordici, con le sue sfilate di fanciulle e candele, alle singolari abitudini degli abitanti di un villaggio (di una parte del mondo che non ricordo più) che mettono fuori di casa le ragazze con le mestruazioni e le costringono a dormire sul tetto della capanna. Né molto più gentile era la Bibbia. A questo proposito si legga il Levitico (Levitico 15,19 -31).

Una tradizione può essere autentica e condivisibile, ma ugualmente rifiutata dal singolo se non corrispondente ai suoi schemi culturali ed estetici. Un amico, commentando un mio testo su Chagall, mi disse che anche lui aveva dormito in Sicilia in una stalla, con l’asino. Una volta aveva accompagnato il padre che faceva l’orafo e aveva clienti anche nell’isola. Uno di questi, volendo ospitare padre e figlio ma non non avendo in casa due posti letto, offrì la stalla al ragazzo. In occasione di quel viaggio il mio amico assistette a un omicidio in diretta, a Palermo, lui era rimasto in macchina ad aspettare il padre. E, sembra incredibile, anche a un suicidio. “E come finì il tuo viaggio”? gli chiesi. “Dissi a mio padre che non sarei più venuto in Sicilia”. “Peccato per i dolci”, finì. Ho trovato questo racconto esilarante e brillante. Capace di superare con balzi acrobatici tutte le possibili favole buoniste. Anche se devo dire che nella mia vita non ho mai visto uccidere non solo nessun uomo ma nessun animale più grande di un geco.

A proposito di dolci, anche qui Camilleri sbaglia le dosi eccedendo negli apprezzamenti. A partire dagli stessi “Ossa di morto”, durissimi ed elementari. E poi i mostaccioli color vinaccia, liquidi in partenza, simili, una volta asciutti, al cibo che gli Egizi mettevano nelle piramidi per i bisogni dei trapassati. Ancora peggiori, anche nel colore marrone chiaro, dubbiosamente attraente, erano le mostarde di fichidindia. Si preparavano in pentoloni da caserma e si sprecavano i racconti dei tanti bambini ustionati a morte da quel fiume rovente e appiccicaticcio.

Credo nel grande potere evocativo della memoria, ma non trovo poesia nelle righe di Camilleri: il suo è in un ricordo bozzettistico, omologato e in parte inverosimile. E non c’è modo di addomesticare la Morte. La Morte, anche allora, era una inconsapevolezza vestita di mistero, che il pensiero non poteva nemmeno sfiorare.

Anna Murabito annamurabito2@gmail.com

OSSA DI MORTOultima modifica: 2021-11-03T15:49:05+01:00da
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