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ARA GÜLER: Istanbul tra documento e poesia

di Anna Murabito

Ara Güler (Istanbul 1928 – 2018) è un grande fotografo. Non nel senso di “un professionista di rilievo”, ma proprio un fotografo acclamato, insignito di molte onorificenze, tra cui la Legion d’Onore in Francia. Stimato dai grandi della terra da Churchill a Golda Meir, come dai personaggi in vista dello spettacolo e dell’arte, da Federico Fellini a Sophia Loren a Marc Chagall. Addirittura nominato da una prestigiosa rivista britannica “uno dei sette fotografi più grandi del mondo”. Se si facesse la stessa graduatoria in letteratura, molti  “grandissimi” rimarrebbero esclusi. Ma è un paragone improponibile, perché la letteratura occidentale è nata con Omero mentre la fotografia è un’arte recente.

Eppure Güler non voleva essere chiamato artista: “La mia non è foto artistica. Essere un artista è diverso. Sono stufo di questa parola ‘arte’”. Ed ancora: “L’arte può facilmente mentire, la fotografia riflette la realtà.” Un’ulteriore distinzione è quella tra fotografo e fotoreporter: “Noi non siamo fotografi, ma fotoreporter. Immortaliamo  la nostra epoca e la lasciamo alle prossime generazioni”.

Affermazioni sorprendenti. Un documento appartiene alla storia e l’arte rappresenta un’altra cosa, ma niente impedisce che un documento sia anche artistico. Quanto all’idea che la fotografia rifletta la realtà, è troppo ingenua per poterla attribuire disinvoltamente ad un artista raffinato come Güler.

Non esiste una realtà obiettiva. Un satellite dallo spazio, con camera fissa, definisce i contorni geografici di un territorio e i suoi colori; rileva la presenza di un ciclone o di un anticiclone, e questa può essere chiamata realtà obiettiva. Ma – senza parlare del fotografo artista – già il semplice fotoreporter modifica la realtà per il solo fatto di essere al di qua della macchina fotografica. Perfino il turista sprovveduto sceglie il soggetto e l’inquadratura.

Güler rifiuta la qualifica di artista, ma è solo una questione nominalistica. O si è artisti o non lo si è, che lo si voglia o no. Artista è chi ha la capacità di creare bellezza indipendentemente dal soggetto trattato.

Le affermazioni di Güler, qualunque cosa egli abbia inteso dire, rappresentano una sorta di brusio molesto che si frappone tra l’autore e il fruitore. E dunque si possono ignorare. L’approccio senza prefazioni con l’opera d’arte è l’unico modo corretto di verificarne l’autenticità emotiva.

Ara Güler racconta la sua Istanbul (“la mia città, il mio respiro”) in una serie di scatti a partire dal 1950. È la narrazione insolita di una città povera, buia, triste. Pare che le fotografie siano volutamente sottoesposte. Prima facie le immagini danno una sensazione di déjà-vu, perché ovunque la povertà ho lo stesso odore e la stessa mancanza di colore. Chi l’ha anche solo intravista, non può dimenticarla.

Quello di Güler è un mondo di uomini e pesci, di lavoro concitato sulle rive del Bosforo e di orizzonti bassi, anche in senso figurato. Il degrado fisico si esprime nei volti pesanti, intagliati dalla fatica, nei corpi sgraziati e ineleganti, nei vestiti da lavoro di cui sembra di percepire il tanfo. Ci sono le vite perdute dei “servi”: un vecchio porta due bisacce appese ad una stanga che gli grava sulle spalle; un uomo trascina un carretto carico sotto la neve; un altro fa tutt’uno con un’enorme botte, il busto inclinato, e sembra uscito da un quadro di Bosch. Per tutti una vita vissuta tra gironi danteschi e mito di Sisifo.

Non è molto diversa la vita dei “padroni”. L’immortale marinaio con la sigaretta che gli pende dalle labbra evoca suggestioni verghiane, ma è solo a causa del cielo drammatico dietro di lui. I personaggi non sembrano vivere drammi: si muovono in un’atmosfera pesantemente mercantile, dove più facilmente si parla del prezzo del pesce che della malasorte. E meno che mai della condizione umana o del sesso degli angeli.

Così i tre uomini inquadrati di spalle, senza volto e senz’anima, nei loro vestiti sghembi e maltagliati. Così gli altri tre personaggi seduti davanti a un bar: ricordano gli uomini delle piazze del Sud Italia, della Grecia, della Tunisia. Sembra di sentire il loro alito, magari avranno masticato bastoncini di cannella, bevuto acqua e anice; sono radicati nelle loro certezze consolidate e brutali, come le capsule d’oro che potrebbero intravedersi nella loro dentatura.

Nei volti dei bambini sporchi c’è una sorta di omologazione di gregge al di là delle risate un po’ ebeti. Nessuna bambina, se non qualche scolara che si intravede appena tra i suoi compagni, a condividere i pidocchi. Una sola immagine di ragazze lavoratrici molto giovani ma col corpo devastato dagli sforzi, lontanissime da quella Silvana Mangano bianca e sensuale di “Riso Amaro”. Simili piuttosto alle contadine borboniche che nei campi orinavano in piedi a gambe divaricate. Il mondo femminile, a parte qualche figurina luttuosa e inconsistente, non merita neanche una menzione.

Tutte queste immagini rispondono alla sincera volontà di Güler di documentare un’epoca, ma un velo di ambiguità impedisce di leggerle nitidamente: forse rimangono in bilico tra dolore e folclore. Güler è un intellettuale. Il suo mondo è quello del teatro, del cinema, della letteratura. Pensa che il fotografo debba essere un uomo colto. Infatti ha detto: “Un fotografo è tenuto a conoscere tutto. Deve conoscere anche il teatro e la pittura. La fotografia è una questione di cultura”. Coerentemente con queste dichiarazioni, nelle sue foto non c’è niente di istintivo, opera con la mente prima che con la macchina. E se non incontra mai lo sguardo di una bambina o il sorriso di una donna è perché non li ha cercati: infatti le rare immagini di bambine sembrano casuali e si rivelano insignificanti. Ha selezionato uno per uno i suoi soggetti, ma a volte sembra considerarli come campionario, fauna, “colore”. Non campo in cui la sua anima possa trasparire. Soggetti facili, su cui tutti si cimentano non andando oltre la superficie. Anche oggi nella magica Istanbul ci sono uomini magri senza tempo e senza vita che portano sulla testa in equilibrio centinaia di ciambelle. Fa parte della scena. Fa parte anche del nostro ingenuo patrimonio fotografico.

La voluta connotazione sociale non aiuta: il distacco che Güler vuole imporsi rende fredde molte fotografie, prive di un retroterra emozionale. La perfezione tecnica è abbagliante; nel prezioso l’equilibrio di luci e ombre emergono come per magia le singole pietre dell’acciottolato e le scrostature dei muri: ma la condizione umana è annegata nella calligrafia. Certe immagini di Güler sono per così dire “in posa”. Appaiono più toccanti le immagini dei disperati delle zolfare siciliane o degli scugnizzi napoletani, scalzi sulle macerie del secondo dopoguerra, gli occhi ardenti solo di fame.

Per fortuna Güler, al di là del suo “cartello”, è un vero artista. E proprio quella poesia che egli ritiene estranea alla funzione del fotoreporter si vendica in uno di quei “servi” che volevano essere solo documento: è la foto del vecchio con le bisacce. Con le gambe accorciate dal peso e dall’inquadratura, imprevedibilmente sorride. Ci offre la sua bocca sdentata con un’espressione mite ed inerme. Un sorriso degno di “dormire sotto la terra, dormire sotto il tempo”, come “Martin”, il contadino di Georges Brassens, paradigma dei vinti.

Quando Güler dimentica i suoi intenti di documentarista, il suo universo poetico prevale, irresistibile. E travolge lo spettatore. Con la forza intellettuale dell’astrazione, con la leggerezza fantastica del sogno. Ed ecco due gabbiani bianchi volare a pelo d’acqua accanto a un battello nero. Altri uccelli vanno di pari passo con la nave ed il battito d’ala si sente più forte dei motori. Si asciugano al sole spaventapasseri, vesti nere di prefiche, chiome di spiriti inquieti. Ma forse sono reti da pesca.

Domina la scena un’impostazione teatrale, esplicitamente consapevole. In una serie di foto due uomini sono l’uno di fronte all’altro o l’uno accanto all’altro, ridotti a sagome nere – i volti non importano – a suggerire un dialogo finalmente umano e non mercantile sui temi eterni: il bene e il male, la vita e la morte, il mare. Immagini oniriche, come quella del marinaio inquadrato contro luce: alle sue spalle una distesa bianco argento e un’imbarcazione che sembra un disegno stilizzato. Visioni misteriose come quella dell’uomo col cappello nero in primo piano. La vertigine nell’indimenticabile figura  dell’uomo sull’ancora. Una bellezza arcana e tremante vive nelle due sedie vuote davanti a un traghetto che avanza, nel panorama lontano. Una città intrisa degli umori di Bisanzio fa da sfondo poetico e sfinito a quest’umanità che forse si interroga sul proprio destino. Mentre le navi, figure astratte, elegantissime e moderne, divorano lo spazio.

Nel 2006, anno in cui Orhan Pamuk vinse il premio Nobel per la letteratura con il suo “Istanbul”, mi colpì l’immagine della copertina: un uomo inquadrato di spalle avanza di notte nella nebbia, lungo una strada illuminata dai lampioni. In lontananza una città nobile e stanca, intrisa di malinconia. Avevo incontrato Ara Güler.

Anna Murabito      annamurabito2@gmail.com

TURKEY. Istanbul.

ARA GÜLER: Istanbul tra documento e poesiaultima modifica: 2022-09-10T16:30:45+02:00da
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