expressioni

FAN HO

di Anna Murabito

Forse c’è qualcosa di vero nella teoria della reincarnazione. Ci deve essere un motivo per spiegare la mia consonanza con gli artisti orientali: qualche speciale merito acquisito in una vita precedente, dall’altra parte del mondo. Una volta, molti anni fa, in una mostra allestita all’interno di Palazzo Ducale a Venezia, rimasi come ipnotizzata da un paravento in seta. Dipinto da un artista giapponese, dicevano le didascalie. Ma non era vero: dipinto da qualche angelo, pittore di Dio in persona. In Paradiso Mozart suonava e lui dipingeva, doveva essere andata così. Spesso mi basta guardare le opere degli artisti orientali per rimanere incantata.

Così con Fan Ho (Shanghai 1931 – San José, California, 2016), anche se questa volta la consonanza riguarda milioni di persone.

Fan Ho è considerato infatti il più grande fotografo orientale, e “uno dei dieci più importanti fotografi del mondo”, come narrano le note biografiche. Ricevette moltissimi premi e riconoscimenti (circa 280) e fu chiamato ad insegnare nelle università di molti Paesi.

Viene indicato come il padre della “street photography”: “Vedo la strada come un teatro vivente”, – diceva – “aspetto che gli attori entrino al loro posto”. Non per niente Living Theatre è anche il titolo di un suo libro. Comunque si voglia tradurre questa espressione, Fan Ho riesce a rappresentare la vita nel suo fluire sfrangiato e generoso. Nessun teorema, nessuna forzatura, nessun paradigma. L’opera di Fan Ho è l’esatto contrario di un racconto a tema: non tende a uno scopo predeterminato, non predica, non dimostra. Non ci deve insegnare niente che non sia la bellezza, l’occasionale eppure densa poesia del puro esistere.

Fu regista cinematografico, oltre che fotografo eccelso. Girò anche dei film erotici e si comprende che lo abbia fatto: non ha paura dell’amore. Anche le sue fotografie grondano eros, inteso non tanto come sesso ma come sentimento dionisiaco: slancio, piacere del vivere che si oppone a Thanatos.

Fan Ho ama quasi carnalmente i soggetti della Hong Kong degli anni ’50 e ’60 cui dedicò una serie di scatti prevalentemente in bianco e nero: “Metto la mia vita intera in ogni singola fotografia”. Ama il pulviscolo galleggiante nella luce, la bruma che sale dai canali, gli uomini sospesi sui ponteggi di bambù, i bambini che giocano a piedi nudi, i passanti – sagome dal contorno d’oroche si incontrano lungo scale oniriche. Il caso diviene coreografia di un balletto corale ed armonioso.

La figura umana è l’indiscussa protagonista delle sue immagini, nella sua spoglia essenza atemporale, senza velleità di documentazione. Un uomo ha vicino a sé tre bambini seminudi, uno ancora nella carrozzina, presumibilmente i suoi figli. Assomigliano ad un’inerme cucciolata più che essere un troppo facile simbolo di povertà. Il chierichetto ben pettinato con la riga e la brillantina, con la cotta bianca su cui si ferma la luce, accompagna un funerale spargendo incenso e le volute invadono il vicolo, profumano l’aria. Poco importa che quel ragazzino sia un europeo cristiano: non si distingue dagli altri ragazzini e ragazzine che popolano le strade di una Hong Kong brulicante e affamata, mercantile e poetica. Appartengono tutti alla stessa umanità, come i bambini in parte scalzi che discutono animatamente per strada o i tre inquadrati di spalle che corrono felici in una stradina ingombra di masserizie con i panni stesi.

Nei vicoli una ragazza “danza” con un gatto e anziane mendicanti siedono per terra; si compra e si vende sotto i tipici tendoni; due innamoratini si tengono per mano.

Lo stesso lavoro non è visto come una condanna: gli uomini e le donne con i bilancieri svolgono la loro normale attività. La fatica fisica – o forse la pena di vivere accumulata nel tempo – si vede nella smorfia che contrae drammaticamente la faccia di un vecchio; in un’altra immagine l’ombra disegna alle spalle di un portatore magro e incurvato una sorta di croce, un crudo zig zag separa il bianco dal nero, evoca punte di ferro, gradoni impercorribili, strumenti di sofferenza. Ma in genere i giovani sostengono dritti e disinvolti i loro pesi, e i loro passi sembrano lunghi ed elastici. C’è posto anche per qualche impertinenza: un uomo avanza quasi sopraffatto dal carico e tre monelli di strada crudelmente si fanno beffe di lui: immagine che la nostra insulsa political correctness avrebbe censurato o comunque biasimato, e che per Fan si inserisce nella commedia.

Nella Hong Kong degli anni ‘50/’60 la ragazzina fiera che vende patate al mercato non è una vittima dello sfruttamento minorile, come la bambina con una ramazza più grande di lei ha l’aria di giocare: con i dovuti “distinguo”, è come se mettesse il rossetto della madre o le sue scarpe col tacco. Sono immagini poetiche, non documenti a carico dei “padroni”. Così come c’è poesia nella tenerezza con cui un uomo inquadrato di spalle tiene in braccio una bambina.

Le magiche inquadrature non sono conclusioni, sono solo sospensioni dell’azione. Anche in questo Fan Ho è avvantaggiato dall’essere regista cinematografico. Danno l’idea dell’interruzione momentanea di un dialogo, del fotogramma di un film che poi continuerà a scorrere. Quelle di Fan Ho sono fotografie in itinere, scenografie di un racconto ancora da inventare. Un uomo col cappello nero sembra parlare, in un ambiente che ricorda una stazione, con una signora anziana ed elegante. Forse la madre, forse una scrittrice, una pianista incontrata per caso?

Il sole è ambivalente. Esalta la realtà e la nega. Filtra, quasi corposo, attraverso la trama larga dei ruvidi tendoni dei mercati; crea aloni leggeri sui capelli dei personaggi e determina lo stupore silenzioso di magiche illusioni, insieme alla sua eterna metà, l’ombra.

Contrariamente alla maggior parte delle ambientazioni – sfumate, nebbiose – la più nota fotografia di Fan Ho, Approaching shadow (Ombra che si avvicina) si basa su un contrasto netto. Una linea separa il bianco e il nero che taglia l’immagine in diagonale fino a lambire i piedi di una ragazza appoggiata ad una parete. Fan Ho aggiunse il nero in camera oscura a voler significare, con l’avanzare dell’ombra sul muro assolato, la fine inesorabile della giovinezza.

La foto ha i pregi e i difetti di un’immagine costruita cui si vuole attribuire un significato preconfezionato. Perfetta formalmente, risulta tuttavia scopertamente calligrafica ed alla fine fredda; la negazione di quella fotografia di strada su cui si basano i grandi meriti e la fama del fotografo. Lui stesso ha dichiarato che “la tecnica non è troppo importante. È più importante usare i tuoi occhi, la mente e il cuore”. Qui invece la tecnica prevale sul sentimento, collocando la fotografia ben al di sotto della poesia intima che rappresenta il culmine della sua capacità.

Non bastasse, in questa foto l’intento morale appesantisce l’eleganza dell’astrazione riscontrabile nelle fotografie “geometriche” dello stesso Fan Ho: in una di queste, per esempio, l’ombra delle imposte a vetri sulla facciata si allunga come grandi ali di libellula.  Infine la didascalia rompe il rapporto diretto tra opera d’arte e fruitore.

L’autore che impone l’interpretazione di un quadro è simile a un poeta che spiega la sua poesia, confessando che la sua opera quell’interpretazione non è capace di imporla da sé. Approaching shadow sembra costruita per piacere ai giudici di un concorso fotografico, e non stupisce che sia stata venduta per 38.000$.

Fan Ho non ha bisogno di costruire una fotografia. C’è un’immagine non appariscente tra le molte famose: lungo una strada deserta avanza una donna anziana. La sua ombra lunga, le spalle curve, i passi che si indovinano piccoli nel silenzio rigoroso ci parlano di solitudine: è una fotografia semplice, incisiva, inequivocabile come un ideogramma ad inchiostro di china.

Il maestro sa anche uscire dai vicoli. Gli basta vedere una fila di risciò in riva al mare, con le imbarcazioni indistinte in lontananza, e una tristezza tenue rimane sospesa tra realtà e sogno: Fellini avrebbe amato questa immagine.

Proprio il mare è una delle più riuscite realizzazioni di Fan. Di  un grigio prezioso e lucido, ricorda Monet nelle piccole onde piatte, parallele, quasi pennellate. Sulle barche c’è sempre una presenza umana. Uomini e donne inquadrati spesso di spalle o in controluce vivono la loro quotidianità lavorativa su quel tappeto di riflessi che li accoglie come ignaro della propria bellezza. In una sintesi rara, vita e arte coincidono.

Anna Murabito     annamurabito2@gmail.com

FAN HOultima modifica: 2023-02-05T15:15:05+01:00da
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