CODICILLO

di Anna Murabito

Con “Ossa di morto” non era mia intenzione commentare il brano di Camilleri. Se questo avessi voluto fare, lo avrei riportato per intero. La lettura di quel breve scritto è stata solo un pretesto per allargare il discorso sul valore e il significato delle tradizioni. Avevo addirittura l’intenzione di intitolare il mio post: “Tradizioni e disadattamento”. Poi mi è sembrato un titolo pomposo ed esagerato, adatto a un libro piuttosto che ad un breve articolo e ho ripiegato su un più allusivo e disimpegnato “Ossa di morto”.

Concordo dunque perfettamente con Giuseppe Alù sul fatto che, facendo una recensione, l’io del recensore non si deve intromettere e soprattutto non deve contrapporre la sua visione del mondo a quella dello scrittore. Cosa che, infatti, non è avvenuta. Solo che il recensore non può mai essere come il giudice dei tribunali ed assumere una posizione terza. Il giudice del tribunale non si deve chiedere cosa avrebbe fatto al posto del reo, come giustamente dice ancora il magistrato Giuseppe Alù, ma deve solo decidere sul comportamento del reo in rapporto alla violazione della legge.

La posizione del critico è diversa. Non ci sono argini precisi e invalicabili entro i quali la sua azione si può esplicare, se non quelli dell’onestà intellettuale e della competenza.

Il testo di Camilleri: “È coerente”? Direi di no. Il brano oscilla infatti tra la cronaca e la favola senza trovare una composizione. Slittando continuamente tra questi due poli, crea un vago sentimento di sfocatura. Se è una cronaca, è infiorettata da elementi inverosimili e barocchi. Fino alle inopportune considerazioni serie e nostalgiche: “Poi nel 1943 con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale, e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spasimo, i figli o i figli dei figli. Peccato. Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra vita personale a quella che ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati”.

Se è una favola, è appesantita dalle stesse considerazioni appena citate. Oltre alla pericolosa contiguità con la superstizione. Una favola deve essere libera in tutti i sensi e questa è imbrigliata nel percorso obbligato del racconto della tradizione.

Per le stesse ragioni il testo è poco “plausibile”.

È efficace”? Per me è efficace nella rappresentazione di un mondo povero e credulone, chiuso e un po’ tetro. Un mondo che non fa volare il pensiero, ma propone l’immagine di cappotti rivoltati su cui si sovrappone l’altra immagine, falsa e sgargiante, dei frutti di marzapane, che molti dovevano accontentarsi di vedere nelle vetrine. Ma non è quello che voleva dire lo scrittore, di questo sono convinta. Lui vorrebbe descrivere, con amore e nostalgia, una tradizione del passato.

È artisticamente valido?”. Nella scrittura la forma non può essere separata dal contenuto. Io non amo la lingua di Camilleri, e non mi posso mettere in una posizione terza. È una lingua colta, sicuramente, ma gli inciampi dialettali la appesantiscono e ne oscurano la limpidezza. Questo è un limite perfino in Verga, un artista immensamente più grande di Camilleri. Inoltre trovo nei suoi testi un procedere pesante e professorale, prevedibile, senza mai lo slancio della fantasia e il trillo dell’inventiva. Il suo racconto soffre sempre di un orizzonte angusto. Mentre Pirandello mi porta nel mondo, Camilleri mi porta nel cortile.

Aver detto “Non ci sono tradizioni regionali che io possa rimpiangere e con cui mi possa identificare”, non c’entra niente con Camilleri. Non stavo commentando il suo scritto, stavo parlando solo di me.

La mia incompatibilità con Camilleri nasce dal mistero che determina in ciascuno di noi il concetto di “bello” e rende o non rende emozionante quello che leggiamo. Come diceva Croce, dopo aver letto un’opera, si può dire “è poesia”, “non è poesia”. Senza dover poi scrivere la motivazione, come si fa dopo un processo penale. Qui nulla è seriamente dimostrabile.

Anna Murabito     annamurabito2@gmail.com

CODICILLOultima modifica: 2021-11-05T14:28:03+01:00da helvalida
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4 pensieri su “CODICILLO

  1. Cara Anna, il tuo Codicillo è una conferma del quanto hai sostenuto in precedenza. Come io ti ammiro per i tuoi scritti in prosa e in versi, qui non riesco a comprendere la tua visione del mondo come la ritrai i n queste righe: “ “…una rappresentazione di un mondo povero e credulone, chiuso e un po’ tetro. Un mondo che non fa volare il pensiero, ma propone l’immagine di cappotti rivoltati su cui si sovrappone l’altra immagine, falsa e sgargiante, dei frutti di marzapane, che molti dovevano accontentarsi di vedere nelle vetrine.”
    Certo qui nulla è sublime o aulico o altro che faccia “volare il pensiero”, ma guarda ad una umanità non “credulona” ma “fiduciosa” in illusioni dolci e innocue che, in questo caso, legano i presenti ai cari passati. C’è un sentimento profondo di saggezze tramandate da generazioni. La povertà materiale (non quella morale!) può essere oggetto di poesia, malinconica, forte , struggente, la poesia della verità qualunque essa sia. (Non vorrei sostenere cose scontate). Non è inferiore a quella spremuta dalle menti dei poeti torturati da infelicità psicologiche lontane dalla realtà quotidiana. Ci sono sonetti del Belli – uno dei quattro grandi poeti italiani dell’800, per me – che ritraggono certi interni pietosi della plebe della Roma papalina, certe tristezza profonde dense di umori e di lacrime che urlano poesia fino alle stelle. Almeno io lo sento. A tali personaggi sembra che tu riferisca immagini un po’ ingenerose di un “mondo povero e credulone, chiuso e un po’ tetro” o anche “immagine di cappotti rivoltati”. E non è pietà per chi sta peggio. Anzi, può essere che nel ritrarre artisticamente il mondo “basso” si raggiunga meglio il “bello” non distorto da sovrastrutture curiali. Voglio dire di un mondo piccolo, risorgimentale, provinciale (sì!), che non è necessariamente inferiore a quello delle avanguardie intellettuali di Vienna, di Parigi o di Londra. Il bello è dovunque si riesca a scovarlo: “le buone cose di pessimo gusto” di Nonna Speranza, i muri bianchi e i cavalli dei Macchiaioli, gli intermezzi della Traviata, i canachi di Patti…L’importante è riuscire a toccare il cuore dell’altro (fine) attraverso la generalizzazione, universalizzazione dell’arte (mezzo). Sulla lingua usata dal Camilleri, il discorso si fa più ampio e lo rinvio ad altra data. Chiudo con una mia ferma convinzione: i dibattiti servono solo a far confermare ciascuno nella propria idea, mai a convincerlo del contrario. Un saluto carissimo.

    • Concordo con Giuseppe sul fatto che i dibattiti non servono a farci cambiare idea. Però ci presentano altri punti di vista e per ciò stesso ci arricchiscono.
      “Il bello è ovunque si riesca a trovarlo” . Purtroppo non possiamo determinare il bello in maniera oggettiva e Camilleri, per me, non riesce a trovarlo. E poi di questo autore abbiamo parlato a lungo, cosa che non era nelle mie intenzioni.
      Grazie per il commento ricco di riferimenti. Un carissimo saluto anche da parte mia.

  2. Cara Alida, cosi io vedo la Festa dei Morti.

    Non era più tempo di bagni, la vigna era spoglia di uva e di canti, nei tini il mosto bolliva, le foglie ingiallite cadevano e sapori di sorbe e castagne arrostite, insieme a mostarda e cotogne, prendevano il posto dei frutti d’estate.

    L’autunno incombeva, la pioggia e la nebbia portavano voglia di casa, un invito a dei giochi tranquilli, a letture di fiabe, a ricami di mani inesperte.

    Poi l’odore d’inchiostro, dei quaderni, dei libri e la voglia di essere bravi, bravi come i maestri, richiamava alla scuola.

    C’era tutto un fermento di nuove esperienze:
    il grembiule non più bianco d’asilo, ora nero, con colletto e gran fiocco davanti, una nuova compagna di banco, con le trecce e una bella cartella di cuoio, un ragazzo appena più grande ma già triste per i tanti disagi che aveva in famiglia e per questo più amato.

    Un sottile rimpianto per l’estate finita trovava conforto nell’attesa di una festa d’autunno, pensata dai grandi, per ridare ai bambini l’illusione di nonni che pensavano a loro, anche oltre la vita; e ridare a se stessi l’illusione di padri e di madri che potevano ancora abitare nel mondo.

    Una lettera ai nonni, preparata con cura, per avere il triciclo, il trenino, soldatini, una bambola grande quasi come un bambino, già rendeva felici. Si sapeva per certo che si avrebbero avuti esauditi desideri qui espressi su consiglio dei grandi. Bisognava però stare buoni, altrimenti arrivava soltanto il carbone.

    Bisognava dormire tranquilli, altrimenti non venivano i Morti a portare quei doni. Il silenzio vagava nell’aria, gli occhi aperti sbirciavano al buio.

    E arrivava la festa dei Morti. La mattina, prestissimo svegli, si cercava nei posti fissati, si trovavano tutte le cose volute, e nei cuori scoppiava la gioia.

    Quella bambola, grande quasi fosse un bambino, era stata sognata per mesi, era qui, tutta trine e merletti, una bambola ricca, con quegli occhi nerissimi e i biondi capelli.

    Poi si andava dai nonni, a portare dei fiori, in quei luoghi di culto tutti pieni di tombe, nuove case dei Morti,camposanti fioriti che sembravano giardini.

    “Et Iux perpetua luceat eis”. Le preghiere in latino lasciavano spazio ai pensieri felici. “La chiamerà Nonnina, questa bambola bella, e per l’anno venturo chiederò un marito per lei, e verranno altre bambole piccole, per colmare quei vuoti lasciati dai nonni”.

    “Cosa ti hanno lasciato, i tuoi nonni?”
    “Un meccano, potrò fare automobili e guidarle per strada. E a te?”

    “Questa bambola. È mia figlia, si chiama Nonnina.”
    I bambini, una volta, godevano di piccole cose.

    • Grazie molte, carissima Santuzza, per il tuo contributo così garbato e poetico. Certo più coerente di quello di Camilleri. C’è infatti nel tuo ricordo una piena adesione del cuore e uno sguardo nostalgico e quasi innocente ad una infanzia che immagino felice. Senza quegli intenti predicatori e un po’ ruffiani che si possono riscontrare negli autori di successo. Solo una domanda: sei sicura che il meccano, il triciclo, la bambola, fossero piccole cose?
      Ciascuno può caricare i suoi personali ricordi di tutta la storia collettiva e la simbologia che ritiene in linea con il suo sentire e con il suo equilibrio, ma un’esperienza individuale non può assumere valore generale. Inoltre dovremmo ricordare che la tradizione “tradit” un quid che vale per il suo contenuto, non perché è tradizione. Altrimenti, rispettando e sacralizzando le tradizioni di tutto il mondo, dovremmo approvare i criminali comportamenti dei Talebani.

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