PAOLO

un racconto di Anna Murabito

Mio fratello faceva volare gli aquiloni. Sempre bianchi. Non che fosse un vezzo, semplicemente si serviva di quello che trovava in casa. E a casa, dove la trovava la carta colorata? C’era invece una piccola scorta di carta da modelli, che si comprava a peso. Mia madre ne aveva sempre un po’ a disposizione per tagliare e cucire qualche indumento a noi figli.
Lo ricordo sempre con la camicia bianca: in questo fuori moda rispetto ai contemporanei che amavano “provocare” con i colori. Erano gli anni ’70, ma lui, tra hippy mal lavati e contestatori totali, avrebbe indossato volentieri una camicia di lino, se ne avesse posseduta una. Simile a quei giovani raffinati che, nel film “Il giardino dei Finzi Contini”, tratto dall’omonimo romanzo, giocano a tennis o vanno in bicicletta mentre la morte già sfiora le loro speranze. Ma non c’era la morte nella giovinezza di mio fratello. Anzi la tenerezza dei suoi tratti e dei suoi modi e i grandi occhi chiari sembrava che lo avessero costruito per l’amore. Eugenia, la sua giovane fidanzata, lo trattava quasi con devozione.
Uscivamo spesso in tre. Io non rappresentavo una seccatura, mi rifugiavo da qualche parte al chiuso per sfuggire all’allergia primaverile, mentre loro due si perdevano in scorribande su e giù per i campi fioriti di sulla violacea. Ci univa l’amore per la natura. Dalla finestra della taverna dove poi mi avrebbero raggiunta per il pranzo guardavo i loro aquiloni e mi sembravano belli. Una bellezza degna di avere il cielo come sfondo. Il mondo ferveva intorno a noi, pareva crepitare, e gli occhi di Paolo si aprivano sulla meraviglia della vita.
Il trattore era molto cordiale, mi definiva “la signorina con l’allergia”, mi accoglieva con un sorriso che andava al di là della gentilezza professionale dovuta agli avventori. Cercava di assegnarmi sempre il tavolo che prediligevo, vicino alla finestra. La moglie, addirittura affettuosa, mi raccomandava di non stare troppo sui libri, ero magra e pallida. In realtà pallida ero, ma perché ho la pelle chiara, dono di mia madre; Paolo addirittura anche i capelli biondo-Tiziano e gli occhi grigi. “Ma da dove è venuto questo ragazzo”: la frase rimaneva lì, lo stupore non osava spingersi fino a supposizioni inadeguate alla ferrea moralità di mia madre. Del resto anche il nonno aveva gli occhi azzurri, cosa non infrequente in Sicilia, retaggio dei Normanni.
Arrivavano con i capelli spinti all’indietro da un vento carico di spore per me maligne, e il tavolo si animava, pur senza eccessi. Paolo si sedeva rapido con Eugenia sorridente al suo fianco, a lei bastava respirare la sua stessa aria. Nessuno avrebbe potuto consideralo un bacchettone, era un ragazzo che ascoltava i cantautori e andava a ballare, come tanti suoi coetanei, ma la sua sola presenza sembrava introdurre note di Respighi e di Mahler in ambienti in cui si stavano ascoltando i Beatles e Bob Dylan, nella migliore delle ipotesi. E non solo nei suoi gusti musicali c’era qualcosa di aristocratico: accanto a Kérouac leggeva Shakespeare, riuscendo a distinguere lo spessore di entrambi. Ma il tutto senza spocchia, gli amici lo adoravano. Con lui potevo parlare di Sofocle, recente scoperta del liceo.
“Cosa avresti fatto nei panni di Antigone?
“Avrei disobbedito a Creonte.
“Non mi stupisce.
Ai miei compagni importava solo l’interrogazione e, se avessi toccato un simile argomento fuori dalla scuola, non avrebbero gradito: “Mi voglio divertire, soffro già abbastanza tutte le mattine”.
Mi alzavo perfino all’alba per seguirlo sull’Etna, in località segrete che non saprei ritrovare. Era autunno. In un’atmosfera grigio perla, col profumo dei pini e della nebbia, raccoglievamo funghi che poi finivamo col buttare, non fidandoci del parere degli esperti di Zafferana Etnea a cui mostravamo il nostro paniere. In ogni caso mia madre non avrebbe mai cucinato quei funghi e neanche noi avremmo osato mangiarli. In realtà eravamo attirati dall’ora insolita – satura di una sorta di misticismo – e dall’avventura, più immaginata che reale. Camminavamo in silenzio come se rispettassimo la meditazione dell’altro. Entrambi eravamo invece portati allo scambio fitto, al dialogo esplicito, approfondito e perfino un po’ tormentoso. I coetanei di Paolo in quel periodo andavano in Tibet, a cercare la loro anima, dicevano. Noi eravamo poveri, ma avevamo il privilegio delle passioni della mente, il piacere della scoperta, le strade infinite della cultura occidentale. La vita davanti.

Paolo se ne andò all’improvviso. Non nel senso che morì (non so tuttora se è vivo o morto), ma partì facendo perdere le sue tracce. “La Sicilia mi sta stretta”, scrisse nell’unico biglietto che mia madre trovò nella sua stanza. E non capì. Si mise ad aspettarlo, con l’infinita pazienza delle madri, pronta ad accoglierlo con gioia, se solo si fosse presentato, anche dopo anni. Ma presto una depressione invincibile l’aggredì togliendole le forze e la capacità di sperare.
La nostra famiglia cominciò a vivere col morto in casa, nel rispetto ossessivo delle sue cose, parlando a voce bassa quando si accennava a lui. Mia madre scuoteva la testa. “Cosa gli mancava qui?”, si chiedeva. “Lo spazio, come a Hitler”, le risposi una volta. Lei avvertì l’insolita durezza delle mie parole e si mise a piangere.
Qualcosa di peggio del pianto tormentò a lungo le mie notti di adolescente. Non era solo la pena per aver perduto il mio adorato fratello, il mio amico, il mio compagno di poetiche avventure: fu la nebbia che invase la mia mente e spazzò via l’innocenza. Si era definitivamente appannata la differenza fra il verosimile e l’inverosimile, forse perfino fra il bene e il male. Ogni moto del cuore era come assediato dall’ambiguità. Dio si allontanò per sempre con la sua ingannevole tunica di luce.
Eugenia lo aspettò incredula per anni, poi la sua vitalità e il suo buon senso ebbero la meglio: “Non voglio competere con Penelope. Lui non è un eroe, è solo uno che se n’è voluto andare.” Conobbe un bravo ragazzo e si sposò. “Ho paura all’idea di mettere al mondo un figlio”, mi disse una volta. “Nessuno ti obbliga”, le risposi.
Ora è passato ancora del tempo. Eugenia mi ha messo in braccio il suo bambino ed io l’ho preso, con un po’ d’imbarazzo. È carino, con un accenno di fossette sulle guance. Gliel’ho restituito abbastanza presto. La guardo, è serena. Qualcuno le ha detto: “Io non ti lascerò. Cresceremo insieme il nostro bambino”. Eugenia ha scelto di vivere, senza tanti “distinguo”, mentre io non ho fatto altro che arrovellarmi. Perché a un figlio puoi spiegare il terremoto, il cancro e la guerra; ma non puoi spiegare l’enigma della mente umana, l’alea dei sentimenti.

Quando Eugenia non era ancora incinta, un giorno siamo tornate nella nostra taverna in montagna. Il trattore ci ha riconosciute subito e si è avvicinato a noi, come attirato da una calamita. Ricordava addirittura i nomi: “Oh, la signorina Eugenia e la signorina Laura. Da quanto tempo! Perché non siete più venute? Non ci avete più fatto l’onore! E dov’è l’avvocato?”. Lui chiamava così mio fratello, anche se non era ancora laureato, gli mancavano due esami.
“Non è con noi”, dice Eugenia, e tace. Rimaniamo in piedi, infreddolite. L’oste è incerto, si vede che non sa cosa pensare. “Sedete, vi prego”, ci invita. “Tenete la giacca ancora per un po’, oggi fa veramente freddo. Più tardi forse nevicherà. Intanto vi porto una tazza di brodo caldo”. Ci sediamo. I ricordi ci hanno aggredito ma quando lui torna con le ciotole fumanti ci siamo già riprese. “Ho pensato a voi l’altro ieri perché ho visto volare degli aquiloni bianchi giù dalla collina: vi ho aspettato tutto il giorno”. Vorrei che tacesse. “Siamo cresciuti, ormai, per gli aquiloni. Già allora era un gioco fuori tempo”. Taglio corto, ma riesco a sorridergli.
Quando usciamo mi accorgo di essere stanca. Eugenia si è messa al volante e si dirige sicura verso la collina brulla e spazzata da un vento irto di chiodi. “Cosa cerchi, Eugenia?” “Una traccia”, mi risponde semplice. Io scuoto la testa. Non voglio saperlo, se è passato da lì di recente. Gli aquiloni erano solo una recita? Mia madre è morta aspettandolo. Fosse solo per questo, non potrei perdonarlo. Sentimenti mescolati mi affollano la mente. Comunque aiuto Eugenia a perlustrare la collina: nessuno straccio di carta bianca né d’altro colore. “Il trattore si è sbagliato”, dice Eugenia, “andiamo a casa”.
Il trattore ci ha riempito di doni. Ci ha dato le castagne col riccio semiaperto, le noci col guscio scuro, non sbiancato come quello delle noci industriali che compriamo. Ci ha dato anche dei frutti verdi con delle protuberanze, mai visti prima. “Staranno bene in cucina. E tornate, vi prego”. Inopinatamente l’ho abbracciato. Ho sentito il suo odore sconosciuto vicino al collo, e mi sono pentita del mio gesto. Poi ho visto i suoi occhi lucidi. Sembrava volerci bene. Sembrava aver capito che non saremmo tornate. Il disagio si è attenuato, ma tutto il mio comportamento mi è sembrato una successione di errori, mi sono sentita fragile e goffa. Quel giorno mi ha dato la misura della mia sconfitta. Forse io non cercavo solo una traccia, in quella taverna.

Eugenia mi ha detto che hanno chiamato il bambino Luigi. “Perché Luigi?”, le ho chiesto, “Il calendario non offriva di meglio?”. “Io non mi metto a discutere per un nome”, mi ha risposto serenamente, “che importanza vuoi che abbia un nome? Mio marito è contento ed anche suo padre che, dal suo punto di vista, si sente ‘rispettato’”.
Eugenia è stata più semplice di me, nella vita. Continuo a pensare a lei con ammirazione. Era carina, la ricordo con la gonna a fiori e gli zoccoli, secondo la moda del tempo, divenuta quasi uno stereotipo, perfino Nanni Moretti ha descritto quel mondo in un suo film famoso. Mi ha insegnato a farmi a casa la messa in piega alla svedese, per lisciare i capelli. Si metteva in cima un grosso bigodino e si avvolgevano i capelli intorno stretti stretti in una direzione, dopo mezz’ora di asciugatura si avvolgevano nell’altra direzione e si asciugavano ancora sotto il casco. Alla fine i capelli erano lisci e lucenti come quelli delle svedesi, appunto, almeno nel nostro immaginario. Un giorno comprai un costosissimo sciampo al ginseng e un balsamo con lo stesso principio attivo e ci lavammo e pettinammo i capelli a casa dei miei. Un profumo mai sentito pervase quelle stanze modeste per un paio di giorni. Quando finimmo di abbigliarci, mio padre ci chiese dove andassimo così profumate ed eleganti. “A ballare”, rispose Eugenia con un sorriso incantevole. Scendendo le scale, mi prese per mano. Ero più giovane di lei, ero la sua sorellina. Anche Paolo sembrava felice: “Mi invidieranno tutti: esco con due ragazze bellissime”.

Anch’io ho vissuto, dopo “l’incidente”. Tra l’altro ero molto giovane e consacrarmi al ricordo di Paolo sarebbe stato tanto patologico quanto la sua defezione. Periodicamente vedo Eugenia. È sempre bella, nonostante gli anni che passano, suo figlio ormai è un adolescente. Tra noi rimane l’antico affetto e anche una sorta di complicità. “Nella disgrazia”, ha aggiunto una volta Eugenia, ironica. Ci siamo messe a ridere, come due amiche un po’ leggere.
“Mi è capitato di rileggere una poesia di Archiloco che amo molto.” Mentre passeggiamo cerco un argomento di conversazione che esuli dal passato e dal chiacchiericcio.
“Ti voglio sbalordire: la conosco. Sentivo mio figlio che la leggeva al telefono con un suo compagno (dovevano tradurla dal greco) e ho ricordato che ti piaceva. Paolo me lo aveva detto allora. È quella dei due amici e uno dice all’altro: vorrei che tu fossi naufrago e che ti facessero questo e quello, ti maltrattassero e ti facessero soffrire. Per poi concludere …” Eugenia si ferma sorniona.
“Tu che mi fosti amico un tempo e poi mi camminasti sopra il cuore”, recitiamo all’unisono.
“Siamo fuori moda?”, mi chiede.
Alzo le spalle: “I sentimenti sono eterni”.
“Ed anche i risentimenti”, chiosa Eugenia.
Scuoto la testa: “Non risentimento, stupore. Parli di Paolo, vero? Lì per lì mi sembrò di essermi svegliata in un altro mondo, senza i normali punti di riferimento, senza regole neanche geografiche, oserei dire. Mi sembrava che non fosse più obbligatorio che i fiumi scorressero verso il mare.
“Eravamo distrutte”, interloquisce Eugenia, con la sua solita, sintetica espressività.
Annuisco. “È vero. Ma non fu solo un trauma affettivo. Si trattava di mettere a punto il mondo, di rimisurare la vita. Insomma si trattava di operare una svolta intellettuale nella percezione della realtà. Scoprivo improvvisamente, senza anestesia, che lui poteva fare facilmente a meno dell’amore che gli davamo; che non sentiva né il bisogno né il dovere di ricambiare me, te, sua madre.
“Sai, non è né il primo né l’ultimo, così dicevano le persone intorno a me, per consolarmi.
“Dicevano bene. Si trattava di tenere conto di questo dato. Dopo il dolore iniziale, ho capito che dovevo abituarmi ad una nuova condizione: quella di vivere il meglio e il peggio dell’esistenza, sentendone la caducità, come quei monaci che venivano periodicamente svegliati, la notte, per sentirsi ripetere ‘memento mori’. Non provo risentimento, per Paolo. Ma neanche ho voglia di perdonarlo o di ringraziarlo: avrei preferito fare a meno dell’esperienza che ci ha elargito. Si può raggiungere l’età adulta anche in maniera meno brutale. Per questo parlare di Paolo non mi piace. Questa storia è chiusa. Nel bene e nel male, ha dato tutto quello che poteva dare.
“Insomma, tutto sommato cosa ti è mancato, ‘dopo’?
“Ridere a crepapelle. Vivere a capofitto. O forse, vivere a crepapelle, ridere a capofitto”. Mi piace vederla sorridere delle mie buffonerie verbali. “Ma può essere che non lo avrei fatto lo stesso”, aggiungo. “Che ne sappiamo?”.
Ci siamo abbracciate sotto casa sua per salutarci. La prossima volta le chiederò di non parlarmi di Paolo. Andando via ho pensato che Eugenia non è così forte come pensavo che fosse. Lei è passata indenne attraverso il fuoco, è come se Paolo fosse stato un brutto sogno, un episodio triste sì ma inserito nel retroterra anomalo degli eventi, da scartare, da mettere nel dimenticatoio. È come se si sentisse al sicuro per avere già sofferto, come se la vita non potesse più riservarle niente di male. E non è così. Va avanti a braccia aperte, innocente come vent’anni fa, anonima e integrata, pensando alla sua famiglia, a suo figlio, al suo gruppo. La semplicità, che mi era sembrata la sua forza, forse oggi è la sua debolezza. Per la prima volta ho voglia di proteggerla.
Il giorno sta finendo ed io sto camminando lungo uno dei viali della mia città verso ovest. Fra poco l’ultima luce scomparirà. I fiumi sono rientrati nel loro alveo e hanno ritrovato la strada. Della poesia di un tempo sono rimasti gli alberi e i campi. Il colore del cielo. È quanto basta. Uno spietato ridimensionamento dell’eroismo rende la vita più credibile.

Anna Murabito     annamurabito2@gmail.com

PAOLOultima modifica: 2023-11-05T11:09:07+01:00da helvalida
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4 pensieri su “PAOLO

  1. Bel racconto, un piacere leggerlo. Temevo che alla fine Paolo si sarebbe fatto vivo, ma per fortuna no, niente happy ending. Al suo posto, invece, l’accettazione delle contrarieta’ nell’ esistenza, insegnata dalla sua sparizione.

    Una nota. Mi ha colpito come in Sicilia i classici greci costituissero argomento di conversazione tra i giovani. Quando ero giovane, in Puglia, non si muovevano dai libri su cui erano scritti. Neanche per sbaglio.

    • In genere i classici non uscivano dai libri neanche in Sicilia. Però al liceo qualche disadattato poteva apprezzare Leopardi (e detestare Manzoni); poteva leggere la letteratura contemporanea, italiana e straniera; soffermarsi con autentico sbalordimento proprio sui greci, soprattutto sui Lirici e sui Tragici. Cioè la scuola, per pochi, poteva rappresentare un’occasione di bellezza e una scoperta.
      Comunque in Sicilia c’è una sorta di dimestichezza con le Tragedie, perché nei siciliani c’è più che altrove un’anima tragica e perché ogni anno nel Teatro Greco di Siracusa si svolgono le rappresentazioni classiche. Tutti, colti e incolti, assistono a queste rappresentazioni. Perfino le scolaresche, accompagnate da insegnati-eroi. 🙂

  2. Un racconto bellissimo che ha lasciato in me tracce di malinconia rispetto al passato e a ciò che si perde, inevitabilmente, nel cammino della vita.
    Lo rileggerò per il piacere di farlo e per cogliere altre sfumature sottili che mi hanno suscitato curiosità sulle motivazioni e sulle scelte dell’essere umano.
    Non so, in realtà, se sia più coraggioso restare o andar via il più lontano possibile da un contesto ristretto.
    Sicuramente, come dice saggiamente la scrittrice, è più facile spiegare ad un figlio una malattia, una guerra o altro, è ben più complicato spiegare ciò che succede nella mente umana.

    • “Ciò che si perde, inevitabilmente, nel cammino della vita”, fa parte dell’esperienza di tutti. Vivendo perdiamo il nostro passato. E alla fine perdiamo noi stessi.
      Il protagonista del racconto fa parte invece di quel novero ristretto di persone che improvvisamente, senza aver fatto intravedere alcuna traccia di crisi, si staccano per sempre dal nucleo cui appartenevano. Paolo lascia un moncone della sua vita destinato a morire. Si accomiata con una frase di maniera e non sente il bisogno di pronunciare una parola d’amore per chi lo ha amato. Peraltro non era un ambiente ristretto, il suo: era piuttosto un ambiente colto e avventuroso. Ma a queste avventure dello spirito il ragazzo sembra preferire la figura ambigua dell’eroe solitario, del lupo che abbaia alla luna. Dico “sembra” perché il gesto di Paolo non si chiarisce. L’argomento del racconto è proprio l’incomprensibilità del comportamento altrui contro cui a volte la vita ci fa sbattere senza che lo abbiamo meritato.
      Grazie ad Anna per il bel commento ricco di spunti.

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