VANNACCI Molte verità e un’ombra

di Anna Murabito

Già se ne parla di meno. Ma alla sua uscita, appena un mese fa, “Il mondo al contrario”, di Roberto Vannacci, ha suscitato un pandemonio. Ha  provocato deplorazioni e anatemi fino ad un provvedimento a suo carico: il Ministro della Difesa Crosetto ha detto che i militari e i magistrati non debbono esprimere idee politiche. Una simile procedura è stupefacente. È la prima volta – che io sappia – che viene applicata ai militari. Per fortuna i magistrati italiani non hanno mai espresso opinioni politiche e mai hanno agito per fini politici.

Ho letto il libro per intero, senza ascoltare gli strilli inconcludenti degli indignati professionisti che non lo avevano nemmeno sfogliato. In televisione si sono succedute trasmissioni spazzatura sulla base di copioni prestabiliti e meno che mediocri. Alla fine, anche se i difensori avanzavano argomentazioni intellettualmente più plausibili di quelle dei detrattori, il clima era tale da far pensare alla rissa e non al dibattito culturale. Il più delle volte ho cambiato canale. Ho esaminato con piacere una sola critica: quella di Luca Ricolfi, il noto sociologo e politologo di sinistra.

Via via che andavo avanti, mi chiedevo che ci fosse da censurare. Forse ci sarà qualcosa che non ci hanno detto, pensavo, e il libro è stato l’occasione per togliersi dai piedi un personaggio scomodo. Perché di idee politiche sanzionabili – la scusa ufficiale dell’anatema – non ce ne sono. Vannacci sarebbe stato da condannare se avesse programmato azioni eversive nei confronti dello Stato; se avesse incitato all’odio e alla ribellione contro le istituzioni e l’ordine costituito: in quale punto mai del libro il generale ha fatto una cosa del genere? E perché non può esprimere il suo pensiero sulla realtà italiana?

Soprattutto quando il suo pensiero è la circostanziata denuncia di un sovvertimento sociale cui assistiamo ammutoliti e attoniti: vediamo una minoranza assordante e agguerrita che diffonde un nuovo verbo non sulla base di un’ideologia, ma di una moda volgare e un sentito dire. Con la pretesa di far parte di un gruppo di sedicenti eletti, in diritto di dar lezioni di morale a tutti, e con la conseguente, facile messa al bando di chi non la pensa come loro. Il reietto infatti è tacciato di arretratezza, misoneismo, pochezza mentale. Soprattutto è apostrofato con l’epiteto che riassume tutti i mali: “fascista”.

Con l’ausilio di dati, grafici e statistiche, o guidato dal semplice buon senso, capitolo dopo capitolo, il generale smonta questo “non–pensiero”. E ne mostra i limiti, anche di attuabilità pratica (come per le auto elettriche). O quelli sociali, come per gli appartenenti alla sigla lgbtq+, divenuti intoccabili. Una sorta di specie protetta, qualunque cosa faccia o proponga. Per esempio, non basta ignorare le indecorose sfilate del gay pride, bisogna approvarle e condividerle entusiasticamente: pena l’accusa di omofobia, razzismo e naturalmente fascismo. Non possono, genitori e insegnanti, opporsi alle proposte “innovative” del Ddl Zan senza incorrere negli strali dei “progressisti”. E si deve sopportare che i nostri figli adolescenti – anche solo sulla base di una fantasia momentanea alimentata dalle chiacchiere che imperversano in questo campo – dichiarino a scuola di voler cambiare nome, secondo il genere cui sentono di appartenere. Senza bisogno di certificati medici, attestati, permessi dei genitori: niente. Oggi mi sento Anita. Domani dirò che mi sono sbagliato, sono di nuovo Andrea. Pochi istituti scolastici hanno aderito a questa innovazione, ma il fatto stesso che si sia potuta concepire e accettare dà la misura dell’attuale marasma.

Il libro è pieno di considerazioni amare, rivolte, per esempio, a chi sembra guardare con simpatia le buone ragioni dei violenti che occupano illegalmente una casa. Nessuno si cura dell’angoscia del legittimo proprietario che dovrà aspettare anni per riavere il suo appartamento reso irriconoscibile dalla devastazione subita, per la quale nessuno lo risarcisce. Cosa vuole costui? Lui è un proprietario, i soldi li ha, c’è chi sta peggio di lui. Che cambi casa.

Ci sono poi le borseggiatrici perennemente incinte e per questo non perseguibili. Non bisogna neanche filmarle, per non disturbare la loro privacy. E c’è il rapinatore, esponente di una gioventù emarginata e sradicata, da non abbandonare, da seguire con attenzione magari ricorrendo alle cure di uno psicologo. Pagato dallo Stato, cioè da tutti noi. Il rapinato, oltre a perdere il suo denaro, finisce in ospedale con un femore rotto e un trauma cranico? Ma è un vecchio, è stato imprudente. Non lo sa che i vecchi sono un bersaglio? Doveva farsi accompagnare.

Se per caso si intravede qualche mossa decisa da parte di una polizia chiamata prevalentemente a difendersi, ecco che si levano gli alti lai di chi proclama l’avanzata del fascismo e la fine della libertà. Libertà di delinquere. Il buon senso è proprio fuori corso: c’è un’Italia impazzita che sembra fare il tifo per irregolari e malviventi. C’è un’Italia che sragiona, anche sulla scia di un’Europa ancora ricca e viziata che antepone i suoi ideali alla concretezza e allo stesso benessere dei cittadini. Ma non è solo l’Europa a delirare. Ovunque, nel mondo, sembra esserci una febbre di distruzione del passato, di ottuso revisionismo, di trionfo del politicamente corretto. Il tutto in nome di un cambiamento di cui non si individuano i contorni e non si vede l’eventuale miglioramento. Anche le favole vengono riscritte per sanare presunte ingiustizie in esse contenute. Gli svantaggiati a qualsivoglia titolo del passato esigono imperiosamente di essere compensati oggi con una sorta di strapotere. I loro nonni hanno sofferto e dunque loro incassano.

Solo in un mondo al contrario si possono seguire profeti improvvisati come una ragazzina che andava male a scuola: nella sua visione distorta delle cose farnetica che le stanno rubando i sogni proprio quegli adulti che le hanno offerto un presente morbido, civile e rassicurante. C’è un’Italia pronta a camminare acriticamente sul solco di tutte le presunte innovazioni e il generale Vannacci oppone il suo “no” schietto ed appassionato a questo nuovo pensiero che assomiglia sempre più all’assenza di pensiero. Dove sono le idee politiche? Il libro ha piuttosto un valore liberatorio per i molti che, intimiditi dal clamore, non se la sentivano di proclamare ad alta voce la loro indignazione.

Si possono fare altri esempi. Le nostre televisioni sono in prima linea nella guerra al buon senso, nella predicazione di un buonismo tanto gratuito quanto stereotipato, nell’adesione sconsiderata ai nuovi modelli di società. Durante un programma popolare di intrattenimento, (in cui, tra l’altro, un concorrente facente parte di una squadra di tre deve indovinare le parole suggerite dagli altri due membri della squadra), è stato chiesto: “Cosa scippi, piccoletta, alla vecchietta” e la risposta era “borsetta”. Apriti cielo! Hanno sovrapposto un fischio alle parole e hanno punito la squadra togliendole il punto per la risposta. In un programma per famiglie, che non annovera mai il termine “morte” o “malattia” tra quelli da indovinare – e mal digerisce anche “amante”-, non si può pronunciare la parola “scippo”, neanche in un contesto giocoso e goliardico di facili rime estemporanee pensate per favorire la risposta. Ma la stessa emittente sopporta senza battere ciglio che un bel ragazzo saluti suo marito o una distinta signora ricordi la sua fidanzata. In orario pomeridiano. Parimenti ogni giorno a tutte le ore siamo bersagliati da una pubblicità che mostra coppie di omosessuali, come se fosse la norma, o come se le percentuali di omosessuali nella società giustificassero questa presenza quasi ossessiva. Ma anche “normalità” è termine da non usare; tanto meno “diversità”. Meglio “pluralità”: un contenitore, un “gurgite vasto” in cui si nuota nell’indeterminatezza della schwa. (Mai avrebbe pensato l’umile “e” semimuta dell’alfabeto fonetico di conquistare un tale livello di visibilità).

Il generale pensa che ci sia chi manovra dietro le quinte per ottenere un risultato del genere. Ma l’ipotesi del complotto sembra poco verosimile, conferisce troppa dignità al non-pensiero. Si tratta di semplice moda. Gli stessi dirigenti adeguerebbero i palinsesti domani che l’omosessualità fosse “un attimino” accantonata, insomma non si usasse più e magari fosse di nuovo tabù.

Dove sono le idee politiche? Se i progressisti si sono impossessati di queste balordaggini demenziali, non per questo le balordaggini divengono politica. Per essere fedeli allo Stato, dobbiamo forse approvare l’abbattimento delle statue di Colombo, bianco, maschio e colonialista? Il generale si è limitato a dire che il re è nudo e che la gente non ne può più di queste imposizioni. Anche perché eravamo abituati a pensare, orgogliosamente, di essere liberi. Vannacci si è ispirato ad Andersen. E a Bertoldo. Due persone malvagie, pericolose. Per questo lo hanno ostracizzato.

Le aberrazioni della nostra società, in conclusione, offrono molteplici spunti alla vibrata denuncia di Vannacci. Ma il libro non è esente da difetti.

Il generale è un conservatore, un vero laudator temporis acti, e qualche volta è portato a strafare. Sono andata avanti per pagine e pagine con mugolii di soddisfazione, finché non mi sono imbattuta nel capitolo riguardante la famiglia. E qui la complicità è divenuta dissenso.

Vannacci porta alle estreme conseguenze il concetto di famiglia tradizionale, attribuendo alla donna l’unico ruolo sociale che secondo lui le compete: quello di mettere al mondo figli e provvedere alla loro educazione. Non sono semplici affermazioni “maschiliste”, le sue, ma posizioni radicali, riconducibili a quel cattolicesimo ortodosso oggi sentito, a torto o a ragione, come desueto. Insomma “Foeminae in ecclesia taceant”, come voleva S.Paolo.

Il generale dice che lui stesso appartiene a questo tipo di famiglia: padre spesso assente per lavoro, madre casalinga, figli educati dalla madre. Dice che lui è stato perfettamente felice e appagato in questo ambiente familiare, e nessuno ne dubita: l’autore dà sempre l’impressione della schiettezza e della buona fede. Ma la sua sincerità non basta a stabilire un modello che appare senza futuro già nella formulazione. Non ci sono schemi prestabiliti da applicare alla famiglia, come se si indossasse una divisa. I ruoli all’interno della coppia nel matrimonio tradizionale (o nella convivenza) sono frutto di scelte individuali; possono cambiare nel tempo col presentarsi di condizioni diverse rispetto a quelle iniziali; si adeguano inevitabilmente ai mores. E meno che mai si può chiedere alla famiglia odierna di aderire a modelli arcaici per risanare una società malata e traballante. Chi mette su famiglia non pensa ai mali della società.

A onor del vero bisogna riconoscere che la famiglia attuale  è identificabile come luogo di conflittualità e di fallimenti: figli sbandati, vecchi abbandonati, crisi del principio di autorità, totale mancanza di punti di riferimento. Padre e madre lavorano, spesso a tempo pieno; la permanenza dei ragazzi a scuola si allunga a dismisura; ci si vede frettolosamente la sera. I genitori sono affetti da sensi di colpa che tendono a compensare con eccessi di “amore”: cedimenti, concessioni, regali, a figli sempre più disorientati. Era normale che i ragazzi studiassero per essere promossi, oggi li si premia se sono promossi senza che abbiano studiato. I genitori prendono le parti dei figli contro gli insegnanti (impreparati e malpagati) colpevoli di non averli capiti e, se un intero consiglio di classe esprime un giudizio negativo su un alunno, si fa ricorso al TAR che rimette le cose in ordine. Il TAR stabilisce che il ragazzo venga promosso e l’intero consiglio è chiamato a riunirsi per confessare, in un’autocritica degna dei processi staliniani, che sono stati seguiti criteri meritocratici (sbagliati, per carità). Secondo i giusti “criteri educativi” l’asino va promosso e ammesso a frequentare la classe successiva. E questi criteri “educano” quelli che ancora facevano qualcosa a disinteressarsi completamente della scuola, in un crescendo kafkiano di illogicità, malafede, demagogia.

Di fatto il problema della famiglia (totalmente in crisi ovunque) non ha soluzione. Quella proposta dal generale (in sintesi, le donne abbandonino le velleità lavorative, se ne stiano a casa ed allevino i figli) è inattuabile sul piano sociale, sul piano morale, sul piano economico, sul piano storico.

Ma non è solo improponibile, è sconcertante. Le pagine dedicate alla famiglia sono le più maldestre dell’intero libro. Il generale parla del lavoro extradomestico come di un male, una conseguenza della “cosiddetta” emancipazione femminile, che tra l’altro non rende le donne più realizzate e più felici. Come se il lavoro dovesse “realizzare” e come se lo spazzino o il magazziniere fossero felici perché svolgono quelle attività. Vannacci sembra ignorare che la felicità appartiene ad un’altra categoria che nulla ha a che vedere con il lavoro.

Non sono le femministe che hanno attuato la “stravaganza” del lavoro femminile. Quel lavoro è nato concretamente dalle necessità della famiglia, cui spesso un solo stipendio non basta. E, teoricamente, dalla consapevolezza che, se vuoi avere voce in capitolo nella stessa famiglia e nella società, devi avere l’indipendenza economica: altrimenti sarai sempre alla mercé di chi ti può semplicemente tagliare i viveri. Vannacci lo dice ironicamente, ma il lavoro ha veramente salvato le donne dai padri padroni e dai mariti violenti: se ti maltrattano, devi poter dire “me ne vado”, altrimenti sei uno schiavo. Non ci vuole il sociologo per capire questi discorsi da due più due. Il lavoro femminile è stato un evento di portata rivoluzionaria perché ha determinato la conquista della libertà per miliardi di esseri umani. Anche se a volte condita dal fardello del doppio lavoro, in casa e fuori. Non è possibile, dunque, fare rientrare il dentifricio in miliardi di tubetti.

Il generale confonde il colore con la sostanza dei fatti e accusa le femministe che hanno gridato “Tremate, tremate, le streghe son tornate” di essere moderne fattucchiere che hanno contribuito a mettere grilli nelle teste delle donne; si avverte che egli le accusa anche di aver contribuito a introdurre in Italia il divorzio e l’aborto, di cui non parla diffusamente ma si indovinano i suoi sentimenti. E non sembra contento neanche della contraccezione. Insomma il movimento femminista (cui non si sogna di attribuire qualche validità nemmeno agli esordi con le lotte delle Suffragette, per l’ottenimento del voto alle donne), è visto come l’origine dei mali che affliggono la famiglia.

È certo lecito manifestare qualsiasi idea, ma dispiace vedere problemi così importanti affrontati in maniera confusa e parziale. Se si conviene con Vannacci sull’avversione delle detestabili quote rosa (e quote di ogni altro colore), non si può liquidare l’universo femminile in quattro folcloristiche sfilate del femminismo italiano degli esordi, attribuibili peraltro ad un’élite.    

Ma ammettiamo per assurdo che le donne lavoratrici rinuncino al lavoro e rientrino a casa per allevare i figli, badare ai genitori anziani, pulire gli ambienti domestici e preparare i pasti per tutta la famiglia. Un lavoro tremendo a tempo pieno, sia detto en passant. Dal punto di vista economico, a quanto dovrebbe ammontare lo stipendio del marito per soddisfare i bisogni di tutta la famiglia? Perché il generale pare non capire che i tempi non sono più quelli in cui un cappotto durava vent’anni e i ragazzi se lo passavano a mano a mano che crescevano. Oggi si vogliono gli abiti firmati ed anche lo zainetto del bambino firmato, i cibi esotici, il water splendente e la lavatrice disinfettata. E almeno un viaggio l’anno. Perché no, anche l’asciugatrice e la friggitrice ad aria. Infine, è ovvio, il pediatra da prima che il bambino nasca, l’apparecchio per i denti, cellulari per tutti … Potrebbe bastare uno stipendio di 4.000 euro al mese? E i più, che arrivano a 1.500? Lo Stato, dice il generale, potrebbe dare uno stipendio a chi alleva i figli, piuttosto che pagare asili nido e compagnia. Ma, a parte il fatto che lo Stato non è tanto ricco, il genitore che si occupa dei figli (leggi: la madre) come si verrebbe a trovare se i coniugi si separassero?

E poi, qualche troglodita potrebbe ipotizzare che, se le donne sono addette alla cura dei figli e della casa, non gli serve poi tanto frequentare il liceo e l’università. Vannacci non ha detto niente del genere, ma trova che la più alta realizzazione di una donna sia la maternità: non cita mai una scienziata, una scrittrice, un’imprenditrice. E il pensiero talebano è un fantasma che si aggira nell’Italia arretrata.

Il generale commette almeno due errori fondamentali. 1) Con un salto logico passa dal particolare all’universale e fa del suo modello fortunato e conforme ai suoi principi un modello valido per tutti. 2) Identifica la famiglia con la famiglia patriarcale, dimenticando che quel progetto non è più presente in Occidente, perché il benessere stesso della società si basa sul lavoro extradomestico dei due coniugi.

Il ritorno al passato non è ipotizzabile e la società dovrà trovare altre forme di equilibrio. In questo campo Vannacci non si rivela tanto misogino quanto disorientato. Infatti, se gli si chiedesse se disprezza le donne, risponderebbe risentito che adora sua moglie e le sue figlie. Per lui l’immagine simbolo della donna (una madre che allatta il suo bambino) è la più bella immagine che l’umanità abbia prodotto. Un’immagine sacra. E nessuno nega che sia bella. Ma ognuno ha diritto di sceglierne un’altra.

Il capitolo sulle donne in famiglia rappresenta uno svarione, un grande neo che macchia il libro, senza riuscire tuttavia a sminuirne la forza.

Anna Murabito      annamurabito2@gmail.com

VANNACCI Molte verità e un’ombraultima modifica: 2023-09-29T14:22:05+02:00da helvalida
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2 pensieri su “VANNACCI Molte verità e un’ombra

  1. Cara Alida, ottimo articolo. Sono perfettamente d’accordo con te nel considerare il capitolo sulla Famiglia piuttosto retrogrado e maschilista. E concordo con te che cio’ non inficia la grandezza di questo libro, che in generale dice finalmente cio’ che molti avrebbero voluto dire da tempo.
    Personalmente sono in parziale disaccordo con alcuni concetti sviluppati in altri capitoli, quali quello sulla Patria o quello sull’Animalismo. Non siamo tutti uguali, e le convinzioni della Destra, che Vannacci tutto sommato personifica, mi stanno bene fino a un certo punto. Ma concordo con lui sull’odiosita’ dell’imposizione delle proprie idee da parte della Sinistra, e sul fatto che la gente normale, come scrive Ricolfi, sogna “un mondo più aderente al senso comune, più tradizionalista, meno ostaggio delle minoranze organizzate”.
    Resta comunque da spiegare il comportamento di Crosetto, piuttosto interessante.

    P.S. Mi hai insegnato una nuova parola, “misoneista”. 😀

    • In effetti il comportamento del Ministro Crosetto resta un enigma. Le spiegazioni che lui stesso ha dato alla stampa mi sono sembrate complicate e vagamente fumose. Ha detto al Corriere che, dato l’avanzare della polemica, ha voluto proteggere lo stesso generale, la Folgore, le Forze Armate e le Istituzioni dello Stato. Così dicendo ha dato l’impressione di avere agito basandosi sul clamore suscitato dal libro e non sui suoi contenuti. Forse, nel tentativo di evitare una seccatura al Governo, ha dato alla Sinistra un’indebita soddisfazione.

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