L’INNOCENTE FRENESIA DELLE ANATRE

un racconto di Anna Murabito

Si allungò sul lettino, composta, un po’ rigida, come chi recitasse il riposo o la riflessione. O come chi si apprestasse ad eseguire un esercizio fisico impegnativo, quelli per cui bisogna “svuotare la mente”.

Sono contenta di essere sdraiata, pensava. In quella posizione le rughe intorno alla bocca si distendono e poteva essere ragionevolmente sicura, se non della sua avvenenza, almeno della gradevolezza del suo aspetto. Glielo devo dire? pensò. Lui l’aveva invitata a parlare liberamente di tutto quello che le attraversava la mente, senza curarsi dell’attinenza al motivo della sua visita.

Glielo disse. E poi aggiunse: Mi scusi, forse sto scambiano il suo lettino con quello dell’estetista. Si pentì subito dopo. Voleva dimostrare di essere consapevole e autoironica. Ma questo non glielo disse.

Vede, dottore, – la devo chiamare dottore? – forse è il Covid che mi ha rovinato la bocca. Quando, dopo due anni, abbiamo tolto le mascherine, mi sono ritrovata con queste labbra asciutte, serrate, i piccoli muscoli contratti in una smorfia sconosciuta. Forse ci eravamo abituati ad esprimerci solo con gli occhi e la bocca si è quasi autoesclusa, per mancanza d’uso. Si è in parte atrofizzata. O forse voglio solo dirle che mi dispiace di non avere più la bocca di quando avevo trent’anni. Come quando un’attrice muore sulla scena, tutti i lineamenti distesi, il respiro regolare, l’espressione solo un po’ più triste: bella come sempre. Chiude gli occhi e muore. La bellezza aiuta anche a morire bene. Senza gli spasimi e i tormenti di una morte comune. Ma questo è un paradosso, una critica non del tutto meritata: oggi il cinema è più realistico. Però è vero che la bellezza rende tutto più facile, anche la solidarietà, la vicinanza. Una persona bella che piange induce gli altri a pensare: Poverina, come soffre. Una così bella donna! Cosa le sarà successo? Cosa potrei fare per lei? Una persona brutta forse fa pensare: Non solo è brutta, è anche infelice, forse è infelice perché è brutta.

La colpa è sua, dottore, lei mi ha invitata e io sto dicendo sciocchezze. Sembra che sia venuta da lei perché rimpiango la giovinezza, perché non posso contare sulla seduzione. Il che non è vero per entrambi i casi: non ho niente da rimpiangere nella giovinezza e non ho mai contato sulla seduzione fisica. Tra un po’ sarò costretta a tacere per inghiottire l’imbarazzo che le mie parole mi susciterannno: sto per dirle che ho sempre avuto altri valori su cui contare, che sembra il messaggio autoconsolatorio delle zitelle, sa, quelle che non si sono sposate ma avrebbero potuto, se solo avessero voluto. Non sono una zitella, sono sposatissima e ho indossato disinvoltamente la minigonna quando ero ragazza. Solo che la rete non l’ho mai usata né per le volgari calze né per catturare gli uomini. Anche se adesso, proprio adesso che sono sul suo lettino, in posizione di dipendenza nei suoi confronti – lei è seduto dietro di me impettito e consapevole della sua importanza mentre io sono una specie di cane che si è arreso – ecco proprio ora mi sarebbe piaciuto poter contare su uno di quei sorrisi a trentadue denti, non i sorrisi dell’anima a cui sono abituata, uno di quei sorrisi incantevoli che bastano a sé stessi, anzi sono di supporto all’intelligenza: che cose intelligenti dice, quella donna così bella! Sto facendo una vera seduta, credo, perché sto pronunciando parole che non hanno niente a che vedere con i motivi della mia visita.

Almeno è quello che credo io. Poi, lei mi parlerà, più in là e se parlerà, di inconscio e resistenze e transfert, tutte quelle “cose” che mutano un pochino a seconda della corrente a cui appartiene e della libera interpretazione di quella corrente e delle sue varianti personali e alla fine mi vorrà convincere che voglio venire a letto con lei – non so come farò a dirle che non è vero – e, quel che è peggio, che volevo andare a letto con mio padre, poveretto! E altre amenità del genere. Non tenga conto delle mie parole, dottore. Non è vero che stiamo facendo una vera seduta, sto recitando, le sto dicendo cose controllatissime da parte della mia coscienza, solo quello che le voglio dire. E, se banalizzo e perfino tento di ridicolizzare il suo mestiere, è solo per vendicarmi della mia posizione di cane che mostra i genitali. O solo dell’immagine mentale di quello che io chiamo la resa nei suoi confronti: non ho mostrato un bel niente finora; figuriamoci i genitali. Poco fa mi sono scusata per avere scambiato il suo lettino per quello dell’estetista, ora lo sto scambiando per quello del ginecologo.

La verità è che soffro. Il mio mondo interiore è come murato e questo mentre vivo una vita del tutto normale. Scrivo. Ho intravisto il suo cenno d’approvazione. Non mi sono spiegata, dottore. Non scrivo note sul diario, come una piccola eroina dell’Ottocento, come una “casalinga disperata”. No, scrivo, come intende scrivere una scrittrice. E anche qui mi prende un disagio tremendo, perché scrivere oggi è diventato un vezzo, una civetteria in più, quella intellettuale. Scrivono il parrucchiere, il calciatore e la massaia di cui sopra, più o meno disperata. Scrivono gli analfabeti che commettono un paio di errori d’ortografia in un messaggino; scrivono gli “artisti” dopo un “concerto” da un milione di spettatori per “condividere” le loro “emozioni”. Già mi viene da vomitare pensando a questo linguaggio rituale, sì rituale, per riti da quattro soldi. Perché ben altre emozioni hanno scosso la mia esistenza: penso al lamento di Prometeo incatenato, al grido “nero” di Medea (uso volutamente un aggettivo di Quasimodo in un altro contesto), al dramma di Antigone. E non sono “ricordi di scuola”. Sono i pilastri dell’esistenza, queste cose. Come lo è la musica di Mozart. E penso anche ai sorrisini di compatimento. Penso al disorientamento culturale e storico della comunicazione mediale: l’altro giorno una conduttrice sui quaranta e passa ha detto di voler dedicare una famosa canzone (“Sapore di sale”) “ai nostri vecchi, in questo giorno di festa”. “Sapore di sale” come citasse “Parlami d’amore, Mariù”. La cantava mia madre. Dice che sto facendo sfoggio? Che ho un complesso di superiorità? Dice che mi contorco come un verme pur di non essere considerata “vecchia”? Pensi quello che vuole. Mi sento sinceramente indignata, sinceramente accorata, sinceramente schiacciata dalla stupidità. Questo non è un motivo per venire dallo psicoanalista, lei sta pensando: il mondo è pieno di scrittori falliti e la società si evolve. Si evolve?

Troppo cervello, vero? Ho smarrito di nuovo il senso della mia visita. La palude, per esempio. La palude mi ha tormentata in questi giorni. Andiamo meglio? Oppure pensa che abbia sbagliato studio? Non del lettino ho bisogno, ma dell’elettroshock. Non è vero, non è vero che lei pensa questo. Non lo penso neanche io. Mi compiaccio stupidamente di queste allusioni cretine, stucchevoli. Recito. Mi scuso. Mi scuso.

Cos’è la palude? È un luogo geograficamente e fisicamente identificabile: c’è lo stagno, ci sono le canne et similia, ci sono gli uccelli palustri. Ma è anche un luogo emotivamente significativo: ci sono le acque ferme, il silenzio e la morte del Tempo. Non è vero? Il termine viene usato come metafora dell’impantanamento, appunto, della stasi, dell’impasse: tutto ciò che è diverso dal movimento e quindi dalla vita. La palude è la fine della ricerca, si contrappone all’avventura, a quell’alto mare che ha ispirato naviganti e poeti.

Fin qui possiamo essere d’accordo. Solo che io in questi giorni ho cominciato a vedere la palude come aspirazione, come rifugio. Sono entrata in conflitto con me stessa perché, se uno appende la vita al chiodo, poi non è che deve dire che la morte è bella. Invece io ho cominciato a cercare nella mia mente i meriti della palude: c’è la lentezza e i colori sfumati, la contemplazione, la malinconia che accarezza i sensi, piuttosto che ferire, e via bla bla sempre più vaghi. E mi sono sentita come quegli ipocriti che designano un cieco come “diversamente abile”: abile nell’“immaginare” il Giudizio Universale, suppongo. Dal momento che l’alto mare è troppo arduo, anch’io sono “diversamente abile”, adatta a navigare nella palude? E me la godo, anche? Mi sono sentita come Brassens che – con sublime ironia, lui – parla di battaglie “nella grande pozzanghera delle papere”. Proprio io che ho fatto della passione il mio totem; io, marchiata dal Mediterraneo, ho cominciato a dire che rinunciavo ai sentimenti forti e volevo passare il resto della vita a guardare l’innocente frenesia delle anatre, la danza fredda e ipnotizzante dei cigni, che niente ha a che vedere con l’amore, e altre cose così letterarie, false. Ho pensato anche al silenzio, interrotto dal rumore delle doppiette dei cacciatori. Ora, vede, io detesto la caccia, ma non per motivi moralistici, quasi che gli animali debbano essere i soli padroni della terra e noi uomini degli intrusi (trovo delizioso il prosciutto crudo e vari arrosti e spezzatini). La detesto perché è da vigliacchi tendere un agguato e può capitare che un incompetente lasci un povero uccello con un’ala ferita, e soprattutto perché mi pare un’attività discutibile passare il tempo ad aspettare un essere vivente da ammazzare solo perché sei più forte, (già sfogliare una margherita per gioco non mi piace). Eppure nello scenario immaginato c’era anche il rumore dei fucili da caccia e non mi disturbava.

Troppo controllo, vero? Nessuna espressione fuggita per caso, solo un po’ di voluta trasandatezza espressiva, per rendere più naturale l’eloquio. Mi dispiace essere un osso duro, e lo dico senza nessun vanto, sarà più doloroso essere masticata. Ma lei riuscirà a masticarmi?

Lo so cosa pensa. Pensa che fanno tutti così, per non darsi per vinti subito. Ma poi ritornano. Dipende dal loro livello di sofferenza. La psicoanalisi, anche ora che non è più molto di moda, è l’ultima spiaggia. Dopo ci sono i viaggi a Lourdes, diceva Woody Allen, ricorda? Come vede, mi sono documentata. Scherzo, ma fino a un certo punto. A parte le battute buffonesche di poco fa, so poco di questa pratica che procede per schemi e tentativi. Ho pregiudizi, come vede. Come chi avesse orecchiato una lingua straniera in una forma dialettale che distorce i suoni e su quelle basi dovrebbe innestarsi la lezione del competente. E il competente si mette le mani tra i capelli: meglio spazzare via tutto.

Vede, se lei fosse un amico e non lo psicoanalista, le parlerei di “Sapore di sale”. Ero una ragazzina quando questa canzone imperversava. Una sera passeggiavo con i miei genitori in un famoso posto di mare, vicino la mia città, e da una casa fuoriuscivano le note proprio di questa canzone e voci di ragazzi e ragazze che ridevano. Mi si stringeva il cuore (osservi come sono leopardiana e spudorata nell’autocompianto), mi si stringeva il cuore perché non c’ero anch’io a quella festa. In seguito, mentre gli altri erano invitati naturalmente, io avevo l’impressione di doverle strappare con i denti, “le feste”. Ma ne ho avute, non mi posso lamentare, non di quelle in cui si ride a squarciagola, però. E mi sentivo sempre una straniera. Adesso, mentre le dico queste cose, mi si forma come un groppo in gola, non so se è autentica commozione o disagio, ancora una volta maledetto disagio per aver raccontato un episodio tanto stupido ad uno sconosciuto. Voglio bruciare le tappe, ecco cos’è; sovvertire le regole, decidere io, con i miei ritmi, con le mie necessità, quello che mi pare importante. Mi pare un rito, quello di aspettare l’errore, mi pare di essere imprigionata in uno schema, altro che liberata.

Il sentimento di esclusione e il merito, questi sono due binari da percorrere se vogliamo ottenere qualche risultato nella mia analisi. Se non temessi di esagerare nelle provocazioni, le darei queste “dritte”, come si dice oggi nel solito linguaggio corale e vomitevole. Ma lei potrebbe anche aversene a male e dirmi di non venire più. E la musica. Non dimentichi la musica. E anche altre cose che non riesco a dirle, la prima volta, perché si accavallano e poi mi vengono in mente episodi insignificanti che lei vorrebbe che io le raccontassi (“lasci giudicare me se sono importanti o no”). Ecco l’altro giorno mia figlia mi ha detto che i bambini dell’asilo e delle elementari non ricevono più voti né giudizi. Ricevono cuori e fiori. I cuori esprimono la massima positività. Poi ci sono i fiori. In che misura? Tendente all’infinito, immagino, come i punti esclamativi e i puntini di sospensione, malvezzi che i ragazzini apprendono anche a scuola oltre che dagli immancabili cellulari. Il figlio di un’amica di mia figlia è bravo e abituato a ricevere cuori in quantità. Un giorno, avendo fatto meno bene del solito, immagino, ricevette due fiori. E allora non si perse d’animo: cancellò i fiori e li sostituì con due grandi cuori, il minimo che gli potesse toccare. I genitori, abbastanza moderni da dialogare con lui, lo convinsero a cancellare di nuovo i cuori riparatori e a scusarsi con la maestra. Fossero stati un po’ più “moderni” sarebbero andati a picchiarla. Mia figlia rideva, nel raccontarmi questo episodio; io avevo voglia, se non di piangere, di chiudermi sempre più nel silenzio.

Sa, dottore, ho molto parlato con lei, in questi giorni, prima di venire, e il pensiero scorreva fluido, disperdendosi in mille rivoli significativi, ora sono da lei e mi sembra di recitare una lezione imparaticcia, mi vengono in mente brandelli di memoria, ma non per questo sono parole sfuggite al controllo, sono convinta di non avere detto niente di importante nel senso che dice lei. Un sacco di chiacchiere, come andare per strada e guardare la gente che passa con i frammenti di vita che si porta dietro. Non le ho detto ancora perché sono venuta da lei. Appena un mese fa ho scoperto che mio marito ha una figlia che oggi ha una trentina d’anni, avuta con un’altra donna, che ha continuato a frequentare. Ecco, l’ho detto. E questo fantasma, che ha messo a ferro e fuoco le mie notti, adesso, mentre usciva da me, si è immiserito, si è rivelato uguale a milioni di altri fantasmi che hanno popolato le notti delle donne – più raramente degli uomini – di tutti i tempi.

Ho percepito un movimento d’interesse, dottore. Allora, per essere un vero rivoluzionario, bisogna attentare alla vita del re? Certo ora le ho servito un piatto forte; non più la scaloppina al limone, leggera leggera, ma una bella fiorentina di settecento grammi, osso escluso. Più facile da tastare nel piatto anche ad occhi chiusi. Schemi: la moglie tradita, la morte del coniuge, la perdita del bambino cui si teneva. Schemi, mosse contenute e studiate nei paradigmi dei manuali di pronto intervento. Ecco un caso facile. Però anche la palude di cui sopra non è una pura e semplice elucubrazione da intellettuale sfaccendata (se avesse dei nipotini a cui badare non si occuperebbe di questo) è un caso semplice di razionalizzazione. “Nondum matura est”, dice la volpe. “La resa ha la sua bellezza”, dice chi non ce la fa più. E loda i vantaggi della palude. Certo il Paradiso deve essere migliore, la visione beatifica di Dio deve offrire qualche vantaggio in più rispetto alla vista delle anatre, ma “limbo è bello”.

Dottore, e se non fosse vero? Se le avessi raccontato della figlia di mio marito per suscitare la sua attenzione? Già io non ho figli, le ho detto una bugia, però la storia del bambino e dei cuori è vera. I voti erano meglio. Ma se si vuole introdurre un altro sistema valutativo, oltre ai fiori e ai cuori, si dovrebbero introdurre anche le picche. Dei quadri non saprei che fare, al momento. Ma le picche rappresentano il sistema valutativo più usato nella vita, non si possono disorientare i bambini offrendo due valutazioni entrambe positive, due regali, uno più bello, l’altro meno bello. Il bambino tende a scegliere il più bello, no? indipendente da quello che merita, perché non ha chiaro cosa merita. La frustrazione, questo bisognerebbe insegnare al bambino, perché poi la vita ti risponde picche continuamente, anche quando non lo meriti, l’ho già detto, lo so, ma sono ammesse le ripetizioni, parlando.

Anche qui, su questo lettino, il paziente (il paziente?) deve imparare la frustrazione. Così mi hanno detto. Ma non capisco perché. Qui l’uomo arriva già frustrato, bastonato, sanguinante: gli offrite un paio di schiaffi per guarirlo? Cos’è, il principio del vaccino? o allevate masochisti? Chissà che non mi piaccia. Tento di scherzare, dottore, perché mi sento a pezzi, non sono mai stata così a disagio. Non so più esattamente perché sono venuta da lei, la mia mente si confonde, saranno state le dosi del vaccino Moderna, ma io sono stata una convinta assertrice del vaccino, lo rifarei, lo rifarò in autunno. Certo, la figlia di mio marito sarebbe una buona ragione di infelicità, ma anche la resa è un bel concetto, non le pare, dottore? Glielo suggerisco. La bellezza della resa. O no?

E, a proposito di sado-masochismo, lei fra poco mi dirà che la seduta è finita proprio mentre stavo per raccontarle una cosa che mi pareva importante. Lei è l’unico arbitro e decide di fischiare anche nell’attimo che precede la battuta del rigore salvifico. Lei è esattamente come appare nei cento film che la rappresentano. Lei non è un medico, dottore, lei è uno stereotipo. Dovrò andare da uno psicanalista serio per guarire da lei, ecco cosa mi toccherà fare.

Adesso all’improvviso mi sento stanchissima, la mia voce è diventata roca. Ed ho freddo. Lo so che il riscaldamento è acceso, ma stare distesa e immobile mi ha irrigidito le membra. Me ne posso andare? Ho voglia di un the bollente e magari di una doccia calda. La doccia. Un altro luogo comune dei film. L’assassino efferato si aggira nei paraggi del motel in cui è arrivata la protagonista. E cosa fa questa incosciente? Apre le finestre (a piano terra) si scioglie la coda di cavallo e s’infila sotto la doccia. Poi esce, con tutti i capelli bagnati si sdraia sul lurido copriletto, e aspetta proprio l’assassino che ci libererà di tanta stupidità. Ho sentito un “hum”?
-Sì, lei mi diverte. L’ora passata con lei è stata una vera delizia.
-Lei mi sorprende, invece. L’ho appena definita uno stereotipo. Uno stereotipo non può sorprendere.
-Non voglio cominciare una schermaglia, con lei. Conosco il meccanismo, ma non è quello che desidero. Se vuole andare via, non la trattengo, però può rimanere. L’ho messa per ultima in modo da essere libero di spendere un po’ più di tempo con lei, essendo la prima volta. Le preparo un the, so farlo. Con la bustina, però. Ho il bollitore, come gli inglesi. Loro lo considerano un elemento indispensabile. Quando affittano un appartamento, magari non ci sarà il letto, ma il bollitore sì.
-Non mi piace bere the fuori casa. Perché non mi piace adoperare un bagno che non sia il mio.
-Oh, ecco finalmente una piccola traccia di nevrosi. Ma insignificante, direi, e molto comune.
-Ecco finalmente!?
-Sì. Non sia meravigliata. Dire “non mi piace” non significa “non posso”. E lei sicuramente avrà viaggiato e adoperato bagni diversi dal suo. Dunque avrà scelto tra il piacere di viaggiare e il piacere di adoperare il suo water. Il vero nevrotico non può scegliere. Comunque, nell’appartamento attiguo, che è la mia abitazione, c’è un bagno che non viene usato da mesi e tuttavia viene pulito regolarmente. Era il bagno di mia moglie. Potrà andare bene per lei, se vorrà. E le posso dare anche una sciarpa di cachemire, sempre di mia moglie. Se n’è andata. No, non è morta. Avrei detto “è morta” e, facendo il mestiere che faccio, non le offrirei la sua sciarpa se fosse morta: procurerei clienti ai miei colleghi.

Vorrei che lei bevesse il suo the, o un drink, se preferisce, insomma che facesse qualcosa che le piace, lasciandosi vivere, come se guardasse le sue anatre, come le ha definite? “innocenti”. Anch’io sono stanco, e mi verso da bere.

Facciamo il punto, vuole? Non ho niente di cui guarirla, ammesso che per la psicoanalisi si possa usare un simile verbo. Le rilascio la fattura per l’ora appena passata, il nostro rapporto si conclude qui. Le rilascerei anche una patente di infelicità, se fossi abilitato a farlo. Per quale altro motivo è venuta qui se non per dirmi “soffro”? “Percepisco il dolore del mondo in maniera intollerabile e non ho nessuno a cui dirlo”? Lei si accorge della crudeltà che c’è nello sfogliare una margherita e questo dice tutto.

Vede, qui, ogni sera mi ritrovo come il pescatore che con la rete a strascico ha catturato una gran quantità di pesci, solo che non sa che farsene: non sono buoni da mangiare, sono pieni di lische, in parte sono stati morsicati da altri pesci più grandi, insomma li deve ributtare in mare perché gli appesantiscono la barca inutilmente. La barca deve essere sgombra per ricevere l’indomani un altro carico. Ecco, oggi nella rete è rimasto impigliato in mezzo agli altri un bel pesce integro e colorato e non mi sento di buttarlo. Nonostante si sia schermita, certo non si sorprenderebbe se qualcuno parlasse della sua bellezza. Ma sono sicuro che nessuno l’aveva definita un bel pesce.

Mi piacerebbe che lei tornasse. Lavoro ogni giorno fino alle 19:00, escluso il sabato. Venga dopo le 19:00. Non le offro niente, se non un the caldo e un bagno pulito. Ho visto che sorride. È la prima volta, stasera. Non si aspetti una conversazione brillante né altro: mi pare di aver sentito che non sono il suo tipo. Chiunque, anche la cliente del suo parrucchiere, le potrà confermare che non si programma la vita. Ma lei queste cose le sa.

L’accompagno, adesso. L’innocenza delle anatre. Bello. Vedo che scuote il capo: non sono queste le sue parole? “Innocente frenesia delle anatre”, ah, ecco, ricordavo male. Significa che si affrettano senza sapere dove vanno: ho capito bene? Perché, noi lo sappiamo forse? Ma noi abbiamo coscienza dell’inutilità della nostra corsa, ecco dov’è la differenza.

Non vorrei essere stato maldestro poco fa quando le ho detto: non si aspetti questo, non si aspetti quell’altro. Credo di conoscere quanto basta il mestiere di psicoanalista, ma il mestiere di uomo non so bene quale sia. E non so se sono all’altezza. Già dirle “torni perché mi piacciono i suoi colori” non è gratificante per lei. È come dire: la metterò nel mio acquario personale. E a che titolo? Questo potrebbe chiedermi, quando ritrovasse la voce. Mi rammarico veramente di non saperle offrire di più per indurla a tornare.

Tenga la sciarpa, me la riporterà quando vuole. Prima di programmare il viaggio a Lourdes, provi a condividere con me il dolore del mondo. E ora vada, la prego. Il suo taxi la sta aspettando già da qualche minuto.

Anna Murabito      annamurabito2@gmail.com

L’INNOCENTE FRENESIA DELLE ANATREultima modifica: 2023-08-22T14:43:54+02:00da helvalida
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5 pensieri su “L’INNOCENTE FRENESIA DELLE ANATRE

  1. “ Significa che si affrettano senza sapere dove vanno: ho capito bene? Perché, noi lo sappiamo forse? Ma noi abbiamo coscienza dell’inutilità della nostra corsa, ecco dov’è la differenza.”
    Sappiamo che viviamo per morire, cioè di “ essere per la morte” come direbbe Heiddegger. Da questa consapevolezza nasce il sentimento dell’angoscia, il sentimento “ della mancanza di alternative “. Tuttavia, se a nulla vale fare progetti, ancora più vano sarebbe farli sotto influenza altrui o per assecondare le aspettative di chi ci circonda. Se ogni scelta porta comunque ad un solo destino, tanto vale scegliere di vivere liberamente, valorizzando ciò che siamo. In altri termini “ l’angoscia come comprensione esistenziale rende possibile all’uomo far di necessità virtù: accettare come un atto di scelta quella situazione di fatto, che è il suo destino e che senza l’angoscia cercherebbe di trascendere. La coincidenza di necessità e libertà sembra così il significato dell’angoscia heideggeriana. In questo senso Heiddegger asserisce che l’angoscia “ libera l’uomo dalle possibilità nulle e lo fa libero per quelle autentiche”. ( Nicola Abbagnano )

    • Solo il poeta (e in generale l’artista) sa vedere il male di vivere e trasformarlo in bellezza.

      Spesso il male di vivere ho incontrato:
      era il rivo strozzato che gorgoglia,
      era l’incartocciarsi della foglia
      riarsa, era il cavallo stramazzato.
      Bene non seppi, fuori del prodigio
      che schiude la divina indifferenza:
      era la statua nella sonnolenza
      del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
      (Eugenio Montale)

  2. “La crudelta’ di sfogliare una margherita”. Soffre la margherita, nell’essere sfogliata? Oppure e’ soltanto una crudelta’ estetica, quella di distruggere una cosa bella?
    No, qui c’e’ la sensibilita’ al dolore, al dolore del mondo, al dolore personale. E’ piu’ giusto soffrire dei mali del mondo, o distendersi nell’insensibilita’ dello stagno? La bellezza della resa?
    Amleto, nel suo monologo, si dibatteva tra la possibilita’ di soffrire il male, oppure rivoltarsi contro di esso. Qui non c’e’ possibilita’ di rivolta. L’alternativa e’ tra soffrire, o adagiarsi nell’indifferenza.
    Lo psicanalista, sorprendentemente, si diverte. Come se per lui il dolore del mondo fosse naturale, scontato. Chi e’ lo psicanalista, Dio? La natura?
    Il racconto mi sembra alquanto autobiografico. O per lo meno, credo che la scrittrice sia scesa nella mente della paziente. I dubbi della paziente sono quelli di Anna. E di tutti noi.

    • Il racconto è “alquanto autobiografico”?
      La risposta è “no” e sì”. No, perché le vicende narrate non sono reali. Sì, perché i pensieri della protagonista sono anche i pensieri dell’autrice.
      Traendo lo spunto da un’immaginaria seduta psicoanalitica, una donna contemporanea dà libero corso alle sue amare riflessioni su alcuni aspetti della società, ricavandone un sentimento di incomprensione e disadattamento.
      In questa realtà tumultuante di fuffa e di imbrogli, il dolore, vecchia conoscenza dell’essere umano, continua ad aggirarsi e ad affermarsi. Corposo e inossidabile. Insensibile alle mode. La protagonista ne ha un’acuta percezione, ma si sente un’aliena tra gli alieni. Potrebbe solo ottenere una patente di infelicità che non le serve a niente.

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