UNA NOTTE FUORI CASA

un racconto di Anna Murabito

Stamani mi sono svegliato indolenzito e con la bocca impastata. Come il “duro” investigatore privato dei Gialli anni ’60. Quello che la sera prima le ha prese, ci ha bevuto sopra e ora avrebbe bisogno di un caffè bollente, lungo e nero. Io il caffè lo berrei volentieri ma non sono Philip Marlowe, sono un medico qualunque, nessuno mi ha picchiato e certo non mi sono ubriacato. Mi sono soltanto fermato in aperta campagna perché avevo sonno.

Ieri notte non ho vissuto il tormento di altre volte, in macchina: senti le palpebre pesanti, ti fermi, e subito sei sveglissimo; riaccendi il motore e gli occhi ti si chiudono. Morfeo, lo stesso dio cui il nocchiero Palinuro non poté resistere, ha dettato la sua legge nell’abitacolo stretto della mia utilitaria. Così ho portato indietro il sedile, e la serata, la coscienza, la vita, tutto è svanito. Ogni volta che un sonno invincibile mi coglie, penso alla potenza di quel mito e alla debolezza degli esseri umani. Pericolosa sosta. Avrebbero potuto farmi a pezzi, e il romanzo giallo avrebbe potuto scriverlo uno scrittorello qualunque. O più probabilmente di quel che restava di me si sarebbe occupato il cronista locale.

Ieri mi sono allontanato da casa, come un ragazzo in cerca di avventure: una bravata fuori moda, fuori ruolo, fuori tempo. Ho detto stupidamente a mia moglie: ho bisogno di cambiare aria. Ho vagato per ore, l’intero pomeriggio. Mi sono ritrovato esausto. La notte mi ha colto impreparato.

Per giorni ero stato male: l’incomprensione del reale stava diventando angoscia. E allora ho annaspato. Mi ha assalito un’inquietudine, vana e selvaggia insieme, primitiva, priva di pensiero. Il bisogno di chilometri sotto le ruote, come se una prospettiva geografica diversa mi potesse soccorrere.
Dalla mia casa sulla collina vedo un albero di oleandro ridondante di rosa e in lontananza il mare, immutabile, disegnato sulla costa. Anche il porto è sempre lo stesso: le luci la sera, la foschia il mattino.

A un tratto mi sono accorto che guardare il “mio” porto, significava guardare tutti i porti. E i giorni e le notti, le stagioni che cominciano e finiscono, in una cieca successione: cosa c’è da imparare? cosa c’è da aspettare? Anche ad immaginare Natale a Ferragosto, grondanti sudore – come avviene nell’emisfero australe – cosa cambia? So tutto. Le parole d’amore, la passione che fa la voce roca, lo scontento con i suoi fasci di gramigna. Mi è venuta in mente quest’ultima strana immagine. Però, al di là della metafora, è vero che la pena di vivere è una sorta di erba infestante nell’esistenza. Con il mio stesso lavoro di endocrinologo ho conosciuto molti squilibri fisici e per conseguenza molta infelicità. Ho operato in stretta connessione con psicologi e psicoanalisti che mi hanno fatto misurare la diffusione delle malattie mentali, la depressione in primis. “Tutto è collegato”, pare che sia così, lo dicono dall’antichità.

Ma sto divagando, non è di questo che volevo parlare. Non è perché gli esseri umani soffrono che sono scappato. Il fatto è che credo di sapere tutto: è questo il cuore del problema. E sapere non significa capire. Finché ho pensato che c’era ancora qualcosa da scoprire, ho sperato che la realtà avesse un senso, adesso improvvisamente è diventata un foglio bianco, senza indicazioni. Anche una sera d’estate – blu e serena – è un enigma.

Vorrei scoprire un fiume. E andare a trovarlo ogni giorno, come un amico da amare o come un bambino che si vuole seguire nella crescita. Ho avuto amici. Ma ora nessuno mi cerca e io non vado da nessuno: siamo tutti stanchi, ammutoliti dalla vita, inventiamo impegni pur di non muoverci. Viene a trovarmi qualcuno dei ragazzi del laboratorio, che si dicono miei figli per l’influenza che ho avuto su di loro ma figli veri non ne ho mai voluti. Sarebbe bello divenire il padre di un giovane fiume e seguirne il destino. Vederlo correre felice come un puledrino dentro gli argini erbosi, in primavera; vederlo trascinare le pietre, impetuoso nelle impennate di cattivo carattere invernale. A regime torrentizio: così sono spesso i corsi d’acqua da noi, al Sud.

Divago ancora: la mia realtà è torbida, il sogno insufficiente. Anche l’ultima follia, quella di cercare fiumi, è fumosa. Il “richiamo della foresta”, così maschile e stereotipato, si esaurisce in una risibile fuga da film. Il fatto è che non ho più niente da dire. Non ho certo l’età della demenza senile, ma il mio pensiero è divenuto opaco. Una volta nel tempo libero amavo scrivere opere teatrali: dialoghi e parole fiorivano naturalmente nella mia testa ed era come vivere una ricca realtà parallela. Mi è capitato di avere meravigliose intuizioni, momenti di esaltazione intellettuale, giorni dorati di armonia. Ma ora scrivo raramente. Le sinapsi mi stanno tradendo: rimangono penzoloni nella mia mente come il trapezista che con le braccia infarinate aspetta il compagno da afferrare al volo. Sinapsi pericolanti. Guardo il porto e non penso niente. Guardo gli alberi del giardino come se li avessi perduti mentre sono in pieno rigoglio. E davanti allo schermo televisivo, quasi dormendo, mi chiedo: come si chiama quell’attrice che mi faceva impazzire? Non mi sforzo neanche di cercare il suo nome. Troverò il suo nome, ne perderò un altro. E mi dirò che non è questo che conta.

Laura è rimasta a casa. Laura conta. Sarò morto quando la dimenticherò. La mia inquietudine è fuori contesto, nella nostra vita. Lei non mi ha mai lasciato neanche col pensiero, lei è la mia cotta di maglia, il mio giubbotto antiproiettile, la mia difesa. Il mio salvacondotto per il regno del bene.

Ha l’aria stanca quando mi apre, ma appare sollevata.
– Sei tornato – dice quietamente. “Vive con un cacciatore di fiumi, non con un pensionato dei giardinetti”, penso. L’autoironia non mi salva. Anche perché è a suo carico.
– L’ho trovato, poi, il fiume.
Lei sa che mento.
– Ah, sì?
Per un po’ sta al gioco. Protervamente le descrivo il posto e lei mi dice che non ci sono corsi d’acqua lì.
– Non è certo il Nilo – ribatto – è un fiumicello, magari si allargherà andando avanti. Tutti i fiumi nascono piccoli. Ma l’ho lasciato subito: avevo voglia di tornare a casa.
Lei mi guarda in silenzio. Forse pensa ai numerosi congressi del passato, al mio bisogno di “solitudine”. Tornavo a casa anche allora, con la faccia serena: hai fatto bene a non venire, ti saresti annoiata. Tu stessa dici che i medici non sono granché, culturalmente parlando.
Lei continua a tacere, ed è strano, lei mi racconta tutto.
– E tu? – le chiedo.
Fa un gesto vago, come a dire che non vale la pena di riferire cose inutili. Poi invece parla, dopo essersi passata una mano sui capelli.
– C’è stata una grande nave nel porto in questi giorni, una di quelle navi bianche da crociera. Ieri pomeriggio dalla terrazza ho visto l’ultimo sole toccare lo scafo, mentre tutto intorno l’aria si faceva meno nitida. Verrò più tardi a vederla illuminata, ho pensato. Invece, quando sono tornata sulla terrazza, la nave era sparita. Deve essere veramente veloce un’imbarcazione di quel genere: non ce n’era più traccia, neanche all’orizzonte. Ho pensato che quel raggio di sole ne aveva fatto un’immagine onirica, eroica. La tristezza di una nave che si allontana dal porto è inenarrabile. Almeno per una come me. Magari invece è il momento in cui i passeggeri si preparano alla cena, in abito da sera. Magari si predispongono ad un sesso accomodante e disimpegnato. Da vacanza, insomma.

Sorride. È affascinante, nel suo vestito estivo largo e lungo fino ai piedi.
– Ne arriveranno altre, di navi.
– Se è per questo ora ce ne sono tre nel porto: due piccole e una grande e piatta, con lo scafo bianco e nero. Ma quella è partita per sempre, quand’anche tornasse non la saprei riconoscere.

Neanche Laura è riuscita a dipanare la matassa. Noi siamo uguali. Per questo mi capisce così bene. Ma lei è appagata dal microcosmo: vive il dramma delle foglie cadute, viaggia con le volute di fumo. Vede i colori nascosti delle cose. Forse riesce a trovare poetico anche il cigolio delle porte.
– Ti ricordi di Ernesto?
– Certo.
– Ieri sera è venuto con una novità impensabile. Claudia lo ha lasciato. C’è come una moria di coppie di sessantenni.
– Qui? È venuto qui?
– Sì, qui. Dove, se no? – Ha l’espressione divertita.
– E che voleva? – le chiedo, senza alcuna voglia di sorridere.
– Parlare. Trovare comprensione.
– Doveva aspettare che io non ci fossi, per venire?
– Non lo sapeva. Forse non lo sapevi neanche tu che non ci saresti stato.
“Mi vuole colpire?”
– Comunque ha telefonato prima. Gliel’ho detto, che tu non c’eri.
“Mi sta confondendo.”
– Si è fermato a lungo?
– Sì, fino a notte. Non aveva dove andare.
Con la bocca asciutta le chiedo:
– Ha dormito qui?
– No.
Ora taccio.
– Non è più tempo di sesso, gliel’ho detto.
– E poi?
– E poi che mi sarebbe sembrato di cattivo gusto, approfittare della tua assenza.
– E poi?
– Che non mi piace il ruolo di angelo consolatore e sono anche amica di Claudia.
– Nient’altro? Io non sono mai stato geloso, mi sono sempre fidato di te.
– Anche io -. La risposta è rapida come uno sparo.
– Vorrei mangiare qualcosa, sono digiuno da ieri.
Lei non mi risponde e io mi sento querulo ed infantile. Mamma, ho fame! Ho giocato a fare l’esploratore, sono affaticato e ora ho fame.

Laura ha l’aria assente quando riprende a parlare:
– Ieri è morto “il filosofo”.
Stento a contenere la rabbia:
– Ma quante cose sono successe ieri? E tu hai l’aria di raccontarmele con un sottinteso rimprovero, come se fosse colpa mia, perché mi sono allontanato da casa.
– Come potrebbe essere colpa tua? – Laura mi guarda sbalordita. – Aveva novantasette anni e stava male, quasi non parlava più. Da tempo non usciva. La settimana scorsa l’ho visto al balcone, mentre ascoltavo un Adagio di Vivaldi e lui mi ha fatto un cenno di saluto ed ha assentito leggermente, come a dire: mi piace, questa musica. Volevo almeno sorridergli in risposta, ma si è girato subito ed è rientrato. Nell’aria è rimasta l’ombra di una passione. Mi sono sorpresa ad avere gli occhi pieni di lacrime, come se quel vecchio fosse andato a morire. È morto dopo qualche giorno, infatti. Ieri. Tu non c’eri. Tu non c’entri. Ha sempre spiegato le cose a tutti. Ora i ragazzi di strada lo irridevano.

Sono sfinito. Mi sento come se fossi stato in guerra. Ma non è vero. Non è successo niente. Ho una bella moglie, con l’anima limpida, capace di vincere la banalità del quotidiano. Lei è come Mahler, glielo devo dire: trova una radura assolata nel bosco cupo, un canto d’amore nel funerale. Lei è incrollabile. Io ho bisogno di lei. Lei mi ha amato subito. Forse ha pagato un prezzo per questo amore. In qualche momento deve aver sentito il sapore della resa perché io non l’ho capita all’inizio. Ma ce l’ha fatta. Lei resiste a tutto. Ed ora sono trent’anni che stiamo insieme, non c’è coppia più vera e più solida della nostra. Gli altri si lasciano, noi siamo felici. Quando oggi mi è sembrato che mi attaccasse, mi è crollato il mondo addosso. Lei non può attaccarmi. Lei è la mia fede nel bello, glielo devo dire. Se mi dovesse mancare non ci sarebbe più spazio per le divagazioni del pensiero, pur così tenui in questo momento. Non ci sarebbe spazio nemmeno per la pietà.

La guardo. Ora lei è sdraiata sul letto accanto a me. Con gli occhi chiusi, forse dorme, supina. Devo accendermi una sigaretta. Mi alzo piano. Esco sul balcone. Il cielo sopra di me mostra una gran confusione di stelle. La sigaretta non mi dà piacere. Lei lo sa che ho smesso da tanto tempo. Sentirà l’odore e si preoccuperà per me, mi chiederà cosa mi rende infelice.
– Massimo, devo farti una domanda. Tu, che sei medico ed anche un po’ filosofo, come il vecchio, sai dirmi un modo non doloroso di morire?
Non è vero che non è successo niente. Non sento neanche il mio cuore tumultuare, mentre le lacrime mi scendono mute lungo le guance.

Anna Murabito      annamurabito2@gmail.com

 

 

 

UNA NOTTE FUORI CASAultima modifica: 2023-07-17T21:22:31+02:00da helvalida
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9 pensieri su “UNA NOTTE FUORI CASA

  1. “ A curiosidade matou o gato “ ( la curiosità ha ucciso il gatto ) è un detto popolare usato per avvertire una persona a non essere troppo curiosa perché potrebbe farsi male. Come quei gatti che, spinti dalla curiosità, finiscono per infilare la testa dove non dovrebbero.

    • L’Ulisse di Dante sarebbe lungi dall’essere d’accordo con te. Il rischio di farsi male c’è, ma un essere umano degno di questo nome non può rinunciare alla “curiosità”.

  2. Lui ha desideri di evasione, e’ il cacciatore di fiumi, passa la notte in macchina. Ma e’ stanco della vita, annoiato, non ha piu’ voglia di vivere. La sua ancora di salvezza e’ la bella mogliettina che lo ama, che “lo aspetta a casa”. Ma in realta’ e’ Laura, la moglie, che vorrebbe evadere. Guardando le navi che lasciano il porto. Per lei e’ subentrata l’indifferenza. E forse pensa di suicidarsi, possibilmente in “un modo non doloroso”. Precarieta’ della vita, banalita’ dell’esistenza. Esistenzialismo puro.

  3. Mi sono letteralmente innamorata di questo racconto, delle metafore che sottolineano in modo delicato ma potente lo stato d’animo di chi conosce le sfumature e l’immensità reale della vita, di cui sa ormai tutto, ma non ne capisce tanti aspetti deludenti.
    Man mano che leggevo, mi sentivo pervasa da forti emozioni che mi hanno fatto rivivere con l’immaginazione gli scenari del racconto e le sue diverse chiavi di lettura.
    Il talento della scrittrice sta anche nel fatto che riesce a far entrare profondamente nel contesto delle emozioni, ne fa rivivere persino le sottigliezze più impercettibili.
    Se da una parte emerge l’inquietudine dell’essere umano che non comprende del tutto la realtà in cui vive, da un’altra parte riaffiora sempre con grande forza l’amore infinito e potente dei due personaggi che, alla fine delle lore debolezze umane, riesce sempre ad essere il grande porto sicuro della vita.

    • Laura ama ancora Massimo? Quando una domanda del genere non corrisponde ad un pettegolezzo ma si riferisce al personaggio di un racconto, allora vale la pena di occuparsene.
      Posto che l’interpretazione del lettore è valida quanto quella dell’autore a mio parere protagonista della narrazione è l’assenza di salvezza. Non serve la ricerca metafisica, non i giochi della mente (scoprire un fiume), non il rifugio nella poesia o in un quieto lasciarsi vivere. La musica lascia appena “un’ombra di passione”; il tempo divora immagini e sensazioni (la nave, quella nave, scompare per sempre) e l’amore, autentico, vivo, maturo non basta a dare un senso alla vita.
      L’intero racconto vuole essere la storia di una sconfitta. E non solo per i due protagonisti.
      Grazie agli amici che hanno commentato. La diversità di interpretazioni dimostra che il lettore è coautore.

      • Cara Anna, nell’attività fisica facciamo attenzione a non fare il passo più lungo della gamba perché siamo consapevoli che potremmo farci male.
        La stessa consapevolezza dovremmo averla per l’attività intellettuale. Ma qui mi fermo perché il discorso ci porterebbe troppo lontano.

        • Non sono sicura di aver capito il senso delle osservazioni di Carlo. Se si tratta, come nel primo commento, di ottenere la pace intellettuale al prezzo di rinunciare a pensare, non sono d’accordo.
          L’uomo ha sempre cercato di rubare il fuoco agli dei e di andare oltre le Colonne d’Ercole. È questo che ha determinato la civiltà e il progresso. Imbrigliare la mente è un delitto, quello che hanno commesso e commettono i regimi assoluti e le religioni.
          Porre a sé stessi dei divieti intellettuali è la dimostrazione che di pensare non si aveva bisogno. E comunque il vietarsi di pensare al problema dell’esistenza non ci pone al riparo dall’angoscia, se angoscia quel problema ci provoca. E il dolore ci aggredisce senza bisogno di pretesti.
          Una sofferenza consapevole può condurre alla saggezza, un conformismo felice alla delusione.

  4. Il racconto di Anna è coinvolgente perché ha descritto le caratteristiche dell’uomo del mondo di ogni epoca e nelle quali tutti possono riconoscersi. Come l’egoismo, la gelosia, la solitudine, la fatica di vivere, la depressione dilagante, il desiderio di conoscere, di evadere,di essere amato e compreso.

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