QUEL CHE ABBIAMO PERDUTO (‘Unsinniger Donnerstag’)

un racconto di PETER PATTI

QUEL CHE ABBIAMO PERDUTO
(Unsinniger Donnerstag)

I tamburi hanno cominciato a suonare verso le 17: è Unsinniger Donnerstag. Il clou del carnevale sarà domenica, quando le varie associazioni sfileranno, ciascuna sotto un gagliardetto diverso e con gran sfoggio di uniformi di fantasia. Domenica ci sarà il Faschingszug, la sfilata di carnevale appunto, quella che chiude questo periodo di festeggiamenti e di balli in maschera. Ma oggi è qualcosa di diverso, oggi è Giovedì Grasso. Per tutta la giornata, c’è stato il sole, ma l’oscurità è calata abbastanza presto, com’è normale a febbraio; e c’è, vicino a casa mia, questa squadra di suonatori di tamburo, clowns bardati nei colori giallo e blu, che con il loro ritmo frenetico e tonante paiono voler chiamare all’adunata la cittadinanza.
“Usciamo?” propone mia moglie.
“Perché no?”
Spengo il computer (lei la TV), ci rivestiamo (perché nel nostro appartamentino siamo soliti stare in pigiama non soltanto nottetempo) e ci proiettiamo all’esterno.
Nel corso del pomeriggio ci sono state le sfilate dei bambini in maschera, ma ora, con le prime tenebre, sono gli adulti (beh… diciamo gli adolescenti, per primi; c’è circa un terzo o anche meno di adulti) a prendere possesso delle strade del paesotto medievale. Sono vistosi i costumi dei vari gruppi, delle diverse congreghe carnascialesche e-o classi scolastiche, ma l’aggressività cui spinge questa particolare data festiva fa paura. Ecco il perché della tammurriata, della pressante forza acustica al posto di… che so io, al posto di un dolce suono di flauti e trombe: occorre mostrare la propria potenza, scacciare la peste e far sapere al nemico che si è risorti.

Il mio parere sul carnevale rimane immutato, così come tutte le altre cose fin da quando avevo circa 18 anni: per me, il carnevale è una scusa bella e buona per ubriacarsi e fare scherzi atroci stando in (non importa se buona o cattiva) compagnia. Per mesticare il nulla comune facendone un pugno di ferro. Per litigare, per attaccare briga. Domani infatti – ne sono sicuro – leggeremo sul giornale i morti e i feriti. Mi ha sempre fatto paura questa libertà tracotante e invadente. Si sborniano e, anziché piccoli petardi, lanciano sotto i tuoi piedi o sotto le ruote della tua vettura razzi, granate, mine… Lo stare insieme finalmente spensierati e senza doversi assumere responsabilità alcuna nei confronti degli altri, soprattutto nei confronti di chi non vuole camuffarsi, ubriacarsi, festeggiare come e con loro, è dopante, lo capisco bene. Si eccitano, ridono dandosi grandi manate, si scambiano baci sollevando nuvolette di cipria e, con “oooh!” e “aaah!” buffoneschi, paragonano la grandezza dei rispettivi ordigni.
Raramente ho festeggiato il carnevale in vita mia e, quando l’ho fatto, ho puntualmente perduto qualcosa. Non solamente il tempo: una qualche relazione si è interrotta, il mio rapporto con un determinato luogo o città si è deteriorato eccetera.
Noi dovremmo assommare tutte le cose che abbiamo perso.
Perché i danni da noi subiti o gli errori da noi commessi, davvero, si possono quantificare. Cosa che riesce difficile soprattutto ai sensibiloni, a noi idealisti, persone non attaccatissime ai beni materiali in quanto abbiamo, dentro la scatola cranica, un abbecedario anziché un pallottoliere. Eppure è necessario affidarsi alla matematica: per comprendere dove stiamo, dove stavamo ieri e dove sbatteremo la testa domani. O dopodomani, quando ce ne andremo. Un numero invisibile orna ciascuna lapide: quella è la cifra della nostra vita, è il risultato effettivo e concreto (a posteriori tangibile) di 30, 50 o 80 anni di soggiorno sulla Terra.

***

Oggi siamo usciti dopo pranzo, anzi esattamente dopo la siesta, un sonnellino breve ma ricostituente. Fuori, un sole allettante: impossibile rimanere a casa anche stamani. Scendere le scale vuol dire fare il check del sistema, testare la macchina: come stanno le ossa? E i muscoli? Ci sono dolorini infidi che debbono farci titubare? Presentimenti di crollo fisico? Ma no, siamo in formissima. Due giovincelli, proprio.
Il fiume: un’incantevole tavolozza di colori tra le due rive e, nel mezzo, l’acqua inondata da cotanta luce; una varietà niente male, sebbene febbraio non sia proprio generosissimo di verdi e gialli, che sono il pepe della pittura – di quella meglio riuscita. Il verde e il giallo, in tutte le sfumature, sono spumeggianti, corrosivi. Oggi mancano quasi totalmente ma… ci si accontenta.
Il livello dell’Inn è disperatamente basso. “Disperatamente” almeno per me, che borbotto: “Andiamo male!”
Mia moglie mi fa notare che l’acqua risalirà quando si sarà sciolto il ghiaccio sulle montagne.
Davvero? C’è ancora ghiaccio sui monti? “Vedrem.”
Il centro-città oggi è più vivo del solito. Già, è Unsinniger Donnestag! Normale, dunque. Una ricorrenza in cui si lavora regolarmente. Pur tuttavia, questo giorno, non festivo, viene perlomeno considerato festoso. C’è chi festeggia, difatti. Soprattutto le scolaresche. Sul tardi si scateneranno anche i ragazzi più grandicelli.
Nella nostra passeggiata scegliamo l’itinerario che ci riporta lontano dalla confusione, verso le frange di Wasserburg, oltre la periferia; non ancora in aperta campagna ma in paraggi dove la natura la fa già da padrona.
Tra tante varietà di bruno spiccano punti di tintura allegra, scoppiettii di bianco, giallo, violetto. Il fenomeno è dovuto ai bucaneve e ai primi crochi e ranuncoli. Non sono dappertutto: sono minuscole macchie vivaci schizzate qua e là e che bisogna quasi andare a cercare apposta, ma servono già a rifarci gli occhi. L’inverno è stato davvero lungo e pesante… e non è finito, purtroppo.
Ci inerpichiamo su per una delle montagnole che fanno da corona al borgo antico. Quassù c’è una fattoria che da qualche anno si vanta di essere “bio”. Proprio in cima. C’è una tavoletta di legno intagliata che informa il viandante che trattasi del “Burgstall” (“La Stalla sulla Rocca”). Gli animali, che altrimenti in estate sono fuori a brucare, si trovano adesso al riparo nei rispettivi bunker – piccole stalle di legno e cemento. Qui fuori, in un apposito casotto, è presente un distributore di uova fresche. Noi veniamo spesso a comprare le uova del “Burgstall”.
Unsinniger Donnerstag sarebbe, lo ribadisco, il Giovedì Grasso, ove “unsinnig” sta per “insensato”, “pazzo”: il giorno in cui ogni cosa è permessa. O meglio: la sera e la notte in cui ogni cosa è permessa. Anche lo stupro e l’omicidio, se sei abbastanza furbo da travestirti a puntino.
Con la luce naturale, sono i bambini ad avere il potere. Cioè: li abbiamo visti uscire dalla scuola elementare a frotte, accompagnati da poche ma entusiaste maestrine. Loro, si capisce subito, sono quelle che hanno organizzato tutto, le vere garanti della tradizione. “Maestrine” sì; in età postmatrimoniale ad ogni modo, come chiunque può notare; e tutte alquanto bene in carne. Hanno scelto i loro propri costumi in maniera varia e distinta, per farsi riconoscere dai bambini che hanno in custodia. E, precisamente, in questo lungo serpente che striscia per le vie di Wasserburg am Inn bloccando il traffico, ciascuna di queste donne, come si arguisce osservando i vari segmenti del corteo, guida un suo gregge. Noi ce ne stiamo ai lati. Vediamo alcune persone che lanciano dolciumi ai bambini, alcuni lo fanno addirittura dalle finestre dei primi piani. Qualche Pippi Calzelunghe regge in mano un sacco e, insieme alle amichette e agli amichetti, raccoglie le “leccornie” dal selciato per infilarle al sicuro: il bottino verrà spartito più tardi.
Noi non vogliamo avvelenare nessuno. Rifletto che occorrerebbe lanciare ai piccoli qualche mela piuttosto, qualche pera o arancia, per essere sicuri che non diventino succubi dello zucchero industriale, sviluppando una dipendenza dannosa oltre a quelle strane allergie da cui molti, presentemente, sono affetti. Forse l’Unsinniger Donnerstag è sponsorizzato dai dentisti: principalmente, i dolcetti – e le caramelle e la liquirizia e il gelée e i marshmallow e tanto altro – rovinano la dentatura, appunto.

“Ma come sono vestiti questi qua?” mi chiedo, addentrandomi nella bolgia.
Adesso è sera. Siamo usciti per la seconda volta, attratti dai tamburi. Il tempo qui fuori in strada è passato in fretta e allegramente, o meglio grottescamente, e ora le strane figure inidentificabili e i classici poveri pagliacci attorniano la fonte di un “dum-dum-dum! dum-dum…!” che non è più la tammurriata di prima (i suonatori di tamburo di cui più su, vestiti in giallo e con una parrucca azzurra in testa per dare l’idea di essere dalla parte dell’Ucraina, si sono dileguati insieme ai loro ingombranti strumenti) bensì è un pulsare ossessionante che proviene dalla postazione di un DJ. L’impianto infernale è strategicamente piazzato accanto a un banco delle mescite che funge da barattolo di miele scoperchiato: è infatti preso d’assalto da nugoli di mosche.
Due poliziotti passeggiano ai bordi della scena e, guardando i loro volti, si dubita che siano poliziotti veri. Sembrerebbero due tizi con la divisa da polizia recuperata da qualche parte giusto per questo giorno particolare. Ci decidiamo infine di catalogare il binomio ambulante per davvero come rappresentanti delle forze dell’ordine, anche se sono giovani quasi come la maggior parte dei partecipanti al festino.

Oggi, quando ancora splendeva il sole e gli scolaretti sfilavano, ne ho individuato uno di colore (un negretto; non si può dire? eppure io uso l’appellativo in senso simpatico!). Costui si aggirava tra gli altri frugoletti in costume con addosso una maglietta nera su cui spiccavano le lettere, in bianco: ‘POLIZEI’. Quasi una dichiarazione d’amore a un lavoro futuro.

Dispensare dolciumi ai bimbi significa scegliersene uno in particolare e mirare poi verso di lui per regalargli – buttandoglieli ai piedi, si spera, e non sulla testa – questi pensierini zuccherosi, in briosa carta colorata, acquistati al supermercato. Il gesto equivale ad adottare, sia pure idealmente e per qualche minuto, un bambino. Io ne ho adocchiato una…

Ho adocchiato un’infante carina, una principessina, vestita da orsacchiotto ma solo dalla cintola in su; indossava, giù, un tutù. Un mascheramento ibrido. Avrà avuto sette anni, forse meno. Ho adottato lei. Ce n’era un’altra con il musetto sporgente e addobbata e truccata credo da leoncino, ancora più piccola della prima e tenuta per mano dal papà, ma alla fine ho optato per l’orsacchiotta-ballerina. Se avessi avuto con me dei Twix, Mars, Bounty, marshmallow e via golosando, li avrei lanciati a lei. Solo che oggidì bisogna essere assai cauti. La narrazione generale vuole soprattutto noi zietti dall’aria bonacciona nascondere desideri segreti, covare oscuri-ma-non-tanto piani ignobili, abietti. Ai giorni nostri non puoi nemmeno prendere sulle gambe i tuoi nipotini o le tue nipotine: i loro genitori, sebbene siano parenti tuoi, ti guarderebbero con acido sospetto. Così, quando un bimbo ti si butta addosso alla guisa di un vivace e affettuoso cagnolino, devi scrollartelo di dosso, tenerlo a distanza. È triste ma, sia in Italia che in Germania, non posso più asserire a voce alta che io amo i bambini! Prova a farti sentire e si plasmerà, tra l’ascoltatore e te, una corrente di palpabile diffidenza.

Incubo di un uomo dai capelli grigi, ingobbito e dall’abitudine di distribuire canditi ai fanciulli: scorgere la propria faccia dai tratti delinquenziali stampata su un poster sotto la parola ‘WANTED!’ a caratteri cubitali e, in calce al manifesto, i suoi dati anagrafici con l’avviso a stampatello: “Acciuffatelo! È un pedofilo!”

La festa continuava e continua tuttora, scandita dai colpi cupi che escono dai woofer a disposizione del DJ. Per via dell’alcool che ormai scorre a ettolitri, le ultime barriere di timidezza e ritrosia sono cadute. Tra un po’, per le strade ci saranno i cadaveri alcolici. (Corre la diceria che ci siano dei ragazzi stranieri che vanno in giro appunto per raccogliere questi cadaveri, se femminili, per trascinarli verso il proprio loculo; durante la grande e famosa Festa della Birra di Monaco di Baviera, accade ogni notte. Almeno così raccontano. Raccontano che qualche malcapitata in deliquio viene raccattata e dislocata dai vari Alì, Abdul, Rashad o anche Giuseppe, i quali abuseranno di lei…)

Dopo essere rientrato e aver svuotato la vescica, mi è bastato gettare uno sguardo all’orologio per spaurarmi: “Ancora le 21?”
Una volta, questa era l’ora in cui ci preparavamo a uscire. Ora, alle 21 – anzi, alle 20:50 per l’esattezza – mi ritrovo già di nuovo in pigiama e con la papalina, predisposto a ritirarmi dentro il sarcofago. Aggiungerei “e in pantofole”, se non fosse che nel mio appartamento ci si muove come in un ashram o in una moschea, ossia scalzi.
La birra bevuta presso Akin, il turco grasso, sporco e rognoso che conduce una spelonca impresentabile in fondo alla Ledererzeile, che è una delle strade principali del paese, mi ha relativamente sciolto la lingua. Così, per un po’, sorseggiando l’amara bevanda in piedi presso un tavolino e stando entrambi ben attenti a non toccarlo, ho raccontato a mia moglie di vecchi Giovedì Grassi e altri eventi consimili contraddistinti da gazzarre, pagliacciate, baccanali. Alcune cose non si possono spifferare liberamente e perciò le ho reingoiate per tempo, ma ciò che andavo raccontando, che avrebbe dovuto essere una sequenza di avventurette semplici e innocenti, sbigottiva persino me. Così ero? Così eravamo?

Quel che abbiamo perduto…

Io ho fatto i calcoli: personalmente, sono sul 1003. Ben sotto la media. Ci sono esistenze rovinose e rovinate e noi stiamo meglio al confronto. Alcune di queste figure che stanno alquanto in alto nella scala numerica dell’esistenza sciupata, le ho riviste stasera: no, non erano fantasmi, erano relitti reali, carcasse ambulanti che un tempo possedevano un nome e un’identità e intanto sono talmente sfigurati, storpiati, squinternati che si fa fatica a riconoscerli.
Per ciò che mi riguarda: forse è più quanto ho guadagnato che quanto ho perduto. O, meglio: è più quel che sono riuscito a non perdere.
Inoltre – ovvio! – tanto, tantissimo, ho buttato via io stesso, volontariamente. Una sana prassi, quella di liberarsi della zavorra. Come le pulizie di primavera. Una sorta di repulisti.

Aiuta a salvarsi.

Peter Patti

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QUEL CHE ABBIAMO PERDUTO (‘Unsinniger Donnerstag’)ultima modifica: 2023-02-18T11:23:41+01:00da helvalida
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14 pensieri su “QUEL CHE ABBIAMO PERDUTO (‘Unsinniger Donnerstag’)

  1. Lettura molto gradevole. Autoironica, vagamente amara, triste di una tristezza esistenziale, come se Patti potesse vedere anche i bambini trasformati in vecchi, e i vecchi in scheletri, in un mondo divenuto talmente saggio, che ormai tutti sanno che tutto è inutile. E tuttavia un sotterraneo amore per la vita sbuca da questo fango fino a sbocciare con tutti i colori della fantasia.
    Peter soffre acutamente la sua natura di uomo mortale. Ma lo siamo tutti, e forse nessuno di noi si è comportato tanto male da meritare questa pena.
    Gianni

  2. Cammina accanto a me
    una pena scura
    di piombo e di alghe smorte.
    La nascondo
    nel passo disinvolto
    nelle pieghe danzanti della gonna
    negli sguardi franchi
    che rivolgo agli altri.
    Ma tenace affiora
    all’improvviso
    e uccide i colori
    disallinea il mondo
    fa cadere a forza
    dalle mie mani
    l’amore che stringevo
    denso come un sasso.
    Allora poso il bicchiere
    e non sorrido più
    mentre il pensiero annega.
    Questa pena testarda
    ara la mia vita
    offre i miei giorni
    al silenzio.

    Il racconto di Peter Patti mi ha fatto venire alla mente questa bella poesia di Anna. Un saluto a tutti.

  3. Che bello poter tornare a questo salotto letterario! È come un dolce naufragare, dopo le intemperie del web-oceano! “Danke allen”, grazie per chiudere un occhio – e a volte entrambi – davanti ai miei orrendi errori di scrittura e, soprattutto, grazie di esistere.

    • Piuttosto che dover chudere gli occhi davanti agli “orrendi errori” (?) di Peter Patti, li ho spalancati, pieni di meraviglia, davanti alle sue magie linguistiche:
      “Per mesticare il nulla comune facendone un pugno di ferro”.
      “Ecco il perché della tammurriata, della pressante forza acustica al posto di… che so io, al posto di un dolce suono di flauti e trombe: occorre mostrare la propria potenza, scacciare la peste e far sapere al nemico che si è risorti”.
      “…abbiamo, dentro la scatola cranica, un abbecedario anziché un pallottoliere. Eppure è necessario affidarsi alla matematica: per comprendere dove stiamo, dove stavamo ieri e dove sbatteremo la testa domani. O dopodomani, quando ce ne andremo. Un numero invisibile orna ciascuna lapide: quella è la cifra della nostra vita, è il risultato effettivo e concreto (a posteriori tangibile) di 30, 50 o 80 anni di soggiorno sulla Terra”.
      “…sebbene febbraio non sia proprio generosissimo di verdi e gialli, che sono il pepe della pittura – di quella meglio riuscita. Il verde e il giallo, in tutte le sfumature, sono spumeggianti, corrosivi”.
      Potrei continuare con le citazioni tratte da questo magnifico racconto. Invito chi l’ha letto a rileggerlo.
      Caro Peter, non so se questo è un salotto letterario, è comunque un posto sicuro in cui sarai sempre accolto con amicizia e ammirazione.

  4. Il carnevale come occasione di una meditazione sulle cose perdute della vita. Bello.
    Ed e’ bello, come scrive Peter, ritrovarsi ogni tanto in questo salotto. Non sono molte, oggi, le occasioni per rinfrescarsi lo spirito. La buona musica e’ ormai morta o quasi, e lo stesso vale per l’arte, la letteratura, il teatro. Dunque, o ci si rifugia nel passato, o si spera timidamente in qualcosa di nuovo e stimolante. E a volte, se si accende il computer e si clicca su un sito come “Expressioni”, qualcosa puo’ succedere.

    • Caro Nicola, è molto difficile rispondere adeguatamente. Stasera non mi soccorre l’ironia, ci provo con la semplicità.
      Ci sono cose che non mi piacciono: la vacuità; le parole dette per l’effetto che fanno; tutto ciò che è prosaico, superficiale o, peggio, finto artistico. Per quello che sono e per il mondo nel quale intendo vivere, è fondamentale l’onestà intellettuale. Con il mio ristretto numero di amici condivido un commosso sentimento della natura; la passione per l’arte, e per la musica sopra ogni cosa; la visione di un mondo più vero che bello, più vero che consolante.
      Credo che sia questa semplicità e questa autenticità che rende il mio piccolo sito così diverso da tante riviste letterarie professionali: organizzate, fredde, pompose, a volte truffaldine.
      L’altro giorno, quando Peter mi ha inviato il suo racconto, mi è sembrato così bello che sono uscita in terrazza a festeggiare, cosa che faccio quando “mi sento in armonia”. E festeggiare significa guardare il panorama a perdita d’occhio, le luci lontane, il porto, l’Etna. Un sentimento del genere ho provato quando ho corrisposto con Bernard Levinson.
      Spero che il mio sito rimanga un posto comodo in cui un gruppetto di amici possa soffermarsi di tanto in tanto, a leggere, a dialogare, a riposare o ad infiammare la mente, comunque sempre senza dover mentire.

  5. Sono particolarmente affezionato a questo sito anche per un’altra ragione.
    Alida ed io ci conoscemmo (solo epistolarmente purtroppo) circa tre anni fa. Ora, io vivo in Sudafrica da quasi quarant’anni, e in tutto questo periodo il mio italiano era peggiorato notevolmente (tra l’altro, mia moglie e’ russa/ebrea, e i miei figli parlano per lo piu’ inglese). E al lavoro, peggio ancora, si parla solo Afrikaans.
    Quando cominciai la mia corrispondenza con Alida, e conobbi questo sito, non nascondo che il deplorevole stato del mio italiano mi preoccupava non poco. Buona parte di cio’ che le scrivevo veniva febbrilmente controllato sui dizionari prima che avessi il coraggio di spedirla.
    Poi, pian piano mi sono “sch-cafato” (come diceva un mio amico napoletano). Dopo aver risciacquato il panni in… Amenano, ho pian piano perso la mia timidezza ed ho ritrovato la familiarita’ verso la lingua natia. La quale oggi mi sembra bellissima (e lo e’), specie se paragonata ad altri idiomi “barbarici”.
    Grazie.

    • Nicola parla diverse lingue: oltre all’italiano e all’inglese, anche il russo, l’ebraico e l’Afrikaans. Peter addirittura scrive in tre lingue: tedesco, italiano e inglese, e questo ha del miracoloso. Io parlo e scrivo solo in italiano e non mi sento lo stesso al riparo. Si può sempre incorrere in uno scivolone. L’importante, comunque, è sapere che nessuno può conoscere perfettamente una lingua. Si corregge l’errore e si va avanti. Se il mio blog è stato utile a Nicola per rinverdire la sua lingua madre ne sono contenta.

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