LA MADDALENA

Non esistono i luoghi, esistono i ricordi.

Che ne sa Gesù Bambino della miseria della grotta? Lui sente il fiato del bue e dell’asinello e la presenza trepida della madre.

Mi hanno detto che La Maddalena non è più l’isola di una volta. È diventata un posto frequentato da brutta gente, nuovi ricchi e politici grossolani. Successo, denaro, mignotte. Non ho potuto credere che parlassimo degli stessi luoghi. Le mie diapositive erano diverse.

Il passato ha cominciato a camminarmi accanto, così vicino da sentirne il respiro.

Tre ragazze intorno ai ventiquattro anni. Alla Maddalena non abbiamo incontrato magnati né industriali, ma sentieri, spiagge di granito rosa, sabbia fine come cipria. Il nostro punto d’appoggio era Rosalinda. Anche lei siciliana, trasferita in Sardegna per lavoro. Bionda come una svedese e ardita come un guerriero, conosceva un sacco di percorsi inaccessibili ai normali turisti, aperti come ferite in una natura smagliante e schiva, con l’approdo finale in calette miracolose. Ricordo la sua figura snella. Le gambe elastiche di gazzella sicura. Il punto vita segnato. La seguivo da presso. Le altre due si attardavano un poco ma lei era pronta a porgere una mano, a indicare le insidie dell’Eden. 

I sentieri a volte si aprivano su dune con gigli bianchi. Ci accompagnavano profumi mai sentiti, anche di mirto, un cespuglio della macchia mediterranea originaria. Ne fanno un mediocre liquore.

Appena arrivate, Rosalinda si toglieva il top del duepezzi, e in acqua anche il resto. 

I panfili non li abbiamo visti. Io, l’unica con la patente, ero l’autista. “Guidavo bene”, dicevano, perché sapevo fare la “doppietta”. Così ho avuto in prestito da Rosalinda la sua Fiat 500 nera, scassatissima, e per alcuni giorni ho scarrozzato le mie amiche in giro per la Sardegna. Non senza qualche timore, perché la 500 tirava a sinistra quando dovevo girare a destra e viceversa.

Mignotte? Non ne abbiamo incontrate. Quanto a noi ragazze, delle tre solo una aveva fatto l’amore. Giuliana si dannava per il suo uomo lontano e con un’ingenua lussuria, che aveva il sapore di una mafaldina con la mortadella, era capace di confidarmi: “Mi piace quando mi prende così…”. Aspettava che non ci fosse la sorella più giovane per raccontare. Valeria, anzi “Valaria”, con le vocali pesantemente aperte, così si chiamava la sorellina. Comunque per Giuliana erano più lacrime che fuochi d’artificio sessuali. L’innamorato dal nome snob, Adalberto, era sposato e, da vero gentiluomo, finite le vacanze la mise incinta. Giuliana, con l’intervento dei genitori, andò ad abortire a Londra.

Un mese alla Maddalena. Un appartamento di due stanzette e un bagno piccolo borghese, angolo cottura da carcerati, la testa piena di sciocchezze. La mia anche di Sofocle. Un mese. Una vita. Amori sognati, amori vissuti. Visi pallidi sotto l’abbronzatura della giovinezza. “Adalberto non viene, voglio morire”. Ci aveva creduto. “Dai, Giuliana, lo vedrai dopo, un mese passa presto”. “Non capisci, vorrei morire”. Capivo invece, Sofocle mi era servito anche a questo.

“Andiamo a vedere le luci delle navi che arrivano” diceva Rosalinda, con una sorta di aspettativa gioiosa e ingenua, come un bambino a cui avessero detto: “Andiamo a vedere le stelle”.

Le imbarcazioni che andavamo a vedere non erano navi da crociera, ma prosaici traghetti che ogni sera portavano dall’isola grande, la Sardegna, i pendolari e anche i turisti che arrivavano con le loro intenzioni semplici di mare blu e di abbronzatura. I ragazzi e le ragazze venivano prevalentemente dalla Liguria, con moto enormi e il sacco a pelo. Certo anche con qualche progetto di evasione sessuale. Ci sta, dicono oggi, con il brutto italiano omologato.

Ho parlato più con loro che con la gente del posto. Ho conosciuto un solo sardo, in quel mese, un ragazzo cupo e bello, forse faceva un po’ di scena. Ricordo un abbraccio infinito la sera prima della partenza e le lacrime di entrambi. Parole che fanno presa su una giovane donna che ha letto Sofocle, con qualche contaminazione romantica: “Ho qualcosa dentro che mi sconvolge”. Capivo la tensione, l’anelito, il bisogno d’amore. Il distacco di chi si perde già all’inizio di una storia.

Abbiamo mangiato l’uva sulla spiaggia, molte volte, con un po’ di pane che, fragrante la mattina, il pomeriggio era diventato elastico. Abbiamo guardato in silenzio Rosalinda mentre piangeva, calma. Un anno prima era morto Luigi, il suo amico d’infanzia. Dei giovani avevano fatto una catena tenendosi per mano mentre andavano incontro alle onde. Ma il maestrale soffiava forte. La catena si era spezzata. 

Abbiamo assaporato totani in umido di cui non dimenticherò mai il profumo (eccolo, il maledetto Proust). Qualche volta ci siamo un po’ ubriacate con qualche bicchiere di vino bianco, la mia amica Giuliana una volta anche volutamente, per amore del suo Adalberto. Poi vomitò. E una sera in una discoteca, a mia insaputa, mi fecero bere una porcheria. Così per tutta la notte ebbi la prima crisi di tachicardia parossistica della mia vita. Il letto si muoveva come se ci fosse il terremoto. “Per favore, puoi stare ferma?”. “Non posso”. Il mio odio per le droghe di ogni genere parte anche da lì.

Un giorno, mentre passeggiavamo, vedemmo avvicinarsi una figura nera. Come il seminatore dei quadri oleografici, sembrava spargere fascino intorno a sé. Un corvo dalle penne lucide, un Dracula elegante, gli inquietanti occhi chiari pronti a divorare. Avanzava con il corteggio delle “sue” donne, Emma, Adelaide, e di alcuni giovani uomini insipidamente colorati nell’abbigliamento. Marco Pannella. Altissimo. Bellissimo. Ci è passato accanto. Ci siamo sentite piccole di statura. Provinciali.

E un’altra volta vedemmo arrivare in una piazzetta un gruppo di giovani. Artisti di strada? Saltimbanchi? Si disposero in più file uno dietro l’altro, a formare un quadrato, srotolarono ai loro piedi una piccola stuoia, e cominciarono a precipitare giù per poi rialzarsi e ricominciare. Sotto il sole. La tortura auto inflitta durò molto a lungo. Se ne andarono infine, dopo aver arrotolato le stuoie, e una chiazza di sudore rimase sotto ciascuna di esse sui mattoni rossi della piazza. “Ma, il cilicio non sarebbe meglio?” azzardai. “Almeno noi non ne sapremmo niente”.

Quando li vidi ricominciare in uno slargo vicino, distolsi lo sguardo. La sera, davanti a un fritto di gamberi rubato al menu di Dio, Rosalinda ci disse che si trattava di artisti del Living Theatre fondato da Julian Beck e Judith Malina. Quei nomi non li ho mai dimenticati, anche se non mi è più capitato di assistere a un loro spettacolo. Forse perché non amo lo spettacolo del dolore. Tentai un’interpretazione. Volevano rappresentare l’insensata fatica del vivere che lascia una traccia labile. Ma già montava la collera di Valeria: “Non eravamo venute qua per divertirci?” E tracannò il suo bicchiere di bianco con un gesto “da grande”.       

Le mie amiche di allora. Tre ragazze bionde con gli occhi chiari, retaggio dei Normanni. Ci cercavamo le pagliuzze dorate. “Però anche tu le hai” dicevano dei miei occhi castani con sfumature verdi, che non riesco più a trovare. Tutte e quattro con una pelle chiara che diventava ambrata. Il sole mi sembrava un grande amante.

Ho visto gli occhi di Giuliana divenire tristi, ma anche splendere di ardore per il suo Adalberto. Mai più come allora. Sposò un maestro di scuola, ebbe figli, si impelagò in plumbee riunioni di partito. Tutte cose che non hanno niente a che vedere con l’amore.

E Valeria. Ancora un po’ goffa nel corpo, esponeva la sua anima acerba a tempeste immaginarie e si adombrava per niente. Ma poi, quando la forte Rosalinda aveva pianto ricordando Luigi, spudoratamente aveva pianto anche lei e l’aveva stretta in un abbraccio irrefrenabile.

Rosalinda. Fiera. Piantata nella vita come una ginestra selvaggia. L’ho rivista in Sicilia. Abbiamo fatto il bagno in un elegante stabilimento, senza magia.

Non m’importa quanto cambiata oggi sia quell’isola. La Maddalena mi ricorda teste piene di vento, sentieri perduti nella natura, e il mare che finalmente appare, conquistato e appagante. Il silenzio lungo, scandito dal respiro. Anche il maestrale che ruba le vite. I seni di Rosalinda e di “Valaria”, che la seguiva nella sua emancipazione di fanciulla, seni leggiadri, come solo le giovani donne e le ballerine del Moulin Rouge hanno, con il capezzolo che svirgola leggermente all’insù. Giuliana ed io non ci toglievamo il costume, ma i nostri corpi erano altrettanto nudi. Mi ricorda anche un giovane bello e inquieto con cui, Sofocle o non Sofocle, avrei potuto fare l’amore. Piccole nostalgie, souvenir e rimpianti che, dice un poeta francese, si raccolgono con la pala. Insieme alle foglie morte.   

Anna Murabito   alimarbit@yahoo.com

 

 

 

 

 

 

LA MADDALENAultima modifica: 2020-07-10T13:46:34+02:00da helvalida
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2 pensieri su “LA MADDALENA

  1. la tua prosa è più bella della Maddalena.Mi ha solo turbato il pensiero che la Maddalena è stato un luogo triste per i carcerati.Come hanno vissuto quell’esperienza i dannati della terra?Certamente non come te.

    • Grazie a Lina Arena.
      I ricordi, felici o infelici, vivono e muoiono con gli uomini. La bellezza della Maddalena ci trascende tutti e continua ad esistere per chi sa vederla.
      A.M.

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