TRE GIORNI IN RIVA AL FIUME

 — Sei stanco? — chiese la donna.
— Un poco — rispose il ragazzo togliendosi lo zaino. Era in posizione elevata rispetto alla donna, seduta su una pietra piatta in riva al fiume.
— Vuoi la granita di limone?
— E dove l’hai presa? Non ci sono bar qui vicino.
— Non l’ho “presa”, l’ho “fatta”.
— L’hai fatta? — chiese lui incredulo.
— Sì — disse la donna. — Siediti, hai l’aria stanca. L’ho fatta con questo.
Gli mostrò un recipiente di alluminio largo e basso.
— Ma ora il ghiaccio si è sciolto — aggiunse.
— Hai messo il ghiaccio dentro la granita? Hai fatto quella porcheria che fanno a Roma? La chiamano “Grattachecca”.
— Vedo che hai viaggiato — commentò con dolce ironia la donna. — No, non ho fatto “quella porcheria”. Ho portato il giaccio da casa, con una pietra l’ho frantumato e l’ho versato in questo recipiente, col sale grosso. Poi, in un altro recipiente, cilindrico e più piccolo, ho messo acqua, limone fresco e zucchero, l’ho chiuso col suo coperchio e ho cominciato a farlo girare. È bello. È come guardare la trottola e perdersi in tutti quei giri. Come guardare l’orlo della gonna del derviscio.
— Cosa?
— Niente — disse la donna. — La vuoi, allora? Ho avvolto il recipiente in una coperta.
Il ragazzo annuì.
— Accidenti, è buona, migliore di quella che fanno al bar — disse dopo averla gustata. Poi guardò bene la donna: — Che fai qui?
— Guardo il fiume.
— Tutto il giorno?
La donna alzò le spalle.
— Dov’è tuo marito?
— A casa.
— Cosa fa?
— Scrive.
— E tu rimani qui da sola tutto il giorno?
La donna alzò di nuovo le spalle.
— Ma che fai, oltre a guardare il fiume?
— Intreccio ventagli di luce. Coloro le insignificanze. Lucido le trasparenze dell’ombra. Accendo semafori viola. Disegno pieghe di vento. Conto semi di cristallo.
— Hai bisogno di un medico. — Il ragazzo guardò preoccupato il recipiente della granita, ormai vuoto, e si alzò.
La donna notò il suo gesto.
— Stai tranquillo, sto bene — disse. — E non sono la maga Circe.
— Cosa?
— Niente — disse lei. Ripiegò la coperta e sedette a guardare il fiume.
— Sei fatta?
— No.
Anche il ragazzo si sedette e rimase a lungo in silenzio.
— Fai cose inutili — disse alla fine.
— Sono belle.
— Dove sono i tuoi figli?
— Non ho figli. Perché mi fai tutte queste domande? Io ti offro cose, tu mi fai domande. Accetta o rifiuta, e stai zitto. Le vuoi, le irragionevolezze dolci? Li vuoi, i nastri di nebbia? Li ho appena fabbricati.
— Ma che merce è?
— Non è una merce, non si vende. Li vuoi, i riflessi stanchi?
— Appena esco da qui e c’è campo, chiamo un medico.
— Mi hai seccato. Vattene — disse lei.
Poi lo richiamò.
— Stai attento — gli disse. — Non conosci la strada. Prendi i sentieri nascosti, sono i più sicuri. Se ti tenta qualche avventuroso scantonamento, farò brillare per te le inconsistenze di luce spargendo viole di luna e renderò più cedevoli i margini del tuo percorso con il velluto dell’oboe.
Il ragazzo la guardava.
— Cos’è l’oboe?
— Uno strumento musicale.
— Parli come nelle favole, ma meglio. Davvero puoi fare tutto questo?
— No, ma è bello dirlo. Hai una ragazza?
Lui annuì.
— Stasera portala in riva al mare e dille: “Il cielo pone in capo ai minareti ghirlande di lumini”. L’ha scritto un poeta.
— Non avresti qualcosa di più facile?
— Com’è la tua ragazza? Bionda o bruna?
— Bionda. Tinta.
— Fai l’amore con lei?
— Certo, scopiamo in macchina o a casa sua quando la madre non c’è. Ora sei tu che fai domande.
— Stasera, prima di fare l’amore, dille: “La luna accende gardenie nei tuoi capelli”.
— La luna accende gardenie nei tuoi capelli. La luna accende … e poi le dico: “Togliti questi jeans che sono un casino stretti, perché …”
— Dille quello che vuoi.
— Ma stavo scherzando! La tua frase è troppo bella!
— Dille quello che vuoi.

— Perché sei tornato?
— Mi ha lasciato. Le ho detto: “La luna accende gardenie nei tuoi capelli” e lei mi ha detto: “Io con quelli fatti non ci sto”. Era sdraiata sul lettino e lo Zingaro le stava facendo un tatuaggio. A me è sembrata bella, era quasi nuda, e allora mi è venuta voglia e le ho detto la tua frase.
— Tu non sei fatto, sei scemo.
— Perché non mi insegni? Perché non mi insegni a dire le tue parole strane?
— Vuoi il latte di mandorla?
— Perché cambi discorso? Dove hai comprato i panetti?
— Nessun panetto. Sono partita dalle mandorle e le ho schiacciate, pietra sotto e pietra sopra.
— Sei tu, all’età della pietra.
La donna alzò le spalle.
— Ti sei offesa?
— No.
— Sei anche tu una poeta?
— No. Io gioco con le parole.
— Posso provare anch’io a giocare con le parole?
— Prova quello che vuoi.
— Le lontananze misteriose.
— Banale.
— Le concordanze precipitose.
— Non significa molto.
— Le inclinazioni liquide.
— Sembra una cascata.
— Le insensatezze volute.
— Basta, non sei portato.
— L’ultima: le curiosità golose.
— Queste potrebbero andare bene, se sapessi quello che dici.
— L’ultima, l’ultima: le temperanze mansuete.
— Carino, ma chi le vuole? Sono noiose. E poi perché sempre femminile plurale con l’aggettivo?
— Come?
— Niente. Il prossimo esempio al maschile.
— Gli incontri graffiati.
— Poesia involontaria. Forse non sei dotato.
— Come, non sono dotato? Con la mia ragazza scopavo sempre.
— Senza jeans, immagino.
— Mi stai sfottendo?
— Scusami. Un esempio al singolare.
— Ho capito: la corsa alternata.
— No, no. Sembra un motore.
— Dimmela tu, allora, una cosa sensata.
La donna tacque per qualche istante, poi disse:
— Le illusioni adunche.
La sera e la tristezza erano scese insieme.
— Me ne devo andare, vero? — chiese il ragazzo.
La donna assentì.
— Tuo marito che dice se scopiamo?
— Lascia stare mio marito.
— Tu, vuoi scopare?
— No.
— Sei frigida?
— No.
— Sei lesbica?
— No.
— E allora?
— E allora, io non scopo, io faccio l’amore.
— Me ne vado, sei troppo complicata. E non ti capisco bene. Sei una specie di matta e poi giochi con me come il gatto col topo.

— Perché sei tornato?
— Me lo hai già chiesto ieri.
— Dov’è la tua ragazza bionda?
— Si è messa con lo Zingaro.
— Cosa vuoi da me?
— Ho pensato a te tutta la notte. Non voglio scopare con te, voglio fare l’amore con te. Non scuotere la testa.
— Sei troppo primitivo per me, ragazzo, e io sono troppo vecchia. Non posso sostituire la tua biondina tatuata.
— Ho pensato alle parole. Ho pensato a una frase intera da dire a te.
— Cosa vuoi dirmi?
— I tuoi occhi cantano marce funebri.
La donna si volse a guardare il fiume e non disse niente.
— Perché stai zitta? è sbagliato?
La donna scosse la testa.
— E allora? Perché non mi parli, perché non mi guardi? Com’è la mia frase?
La donna si volse a guardare il ragazzo.
— Bella — disse. E le lacrime cominciarono a scenderle lungo il viso.
— Non piangere. Mi insegnerai le parole?
— Vedremo.
— Mi insegnerai a fare l’amore?
— Prima devi imparare a fare il latte di mandorla. Prendi quel sacchetto.
— Che ci vuole, qui c’è il tuo sacchetto. Mi insegnerai a fare l’amore?
— Vedremo.
— E cosa mi dirai prima di fare l’amore?
— Prendi due pietre, una piatta, una appuntita.
— Cosa mi dirai prima di fare l’amore?
— Comincia a schiacciare le mandorle, ti prego.
— Cosa mi dirai prima di fare l’amore?
— “Voglio accarezzare il tuo respiro con l’onda dei miei capelli”.

Anna Murabito  alimarbit@yahoo.com

TRE GIORNI IN RIVA AL FIUMEultima modifica: 2020-07-04T14:40:19+02:00da helvalida
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