UN MERCOLEDÌ

                        di peter patti

Pensieri grigi a quest’ora del giorno. D’altronde, sto ascoltando “When Skies Are Grey”, dei Dakota Suite.

(https://www.youtube.com/watch?v=-bR_hxLgYBc)

Sì lo so, quelle che amo non sono neppure canzoni: sono canzoncine. Che non conosce quasi nessuno. Piccole melodie malinconiche, con qualche abbozzo di verso mormorocantato. Amo immaginare le camerette adolescenziali in cui molte di esse vengono composte…

Anch’io scrivevo canzoni, poesie. Con un po’ più di attenzioni e gentilezze da parte dei miei genitori, probabilmente sarei potuto essere felice in quella sorta di nursery. Con i miei libri eccetera. Senza essere costretto a mettere mai il naso fuori.

Bellissima congettura.

E invece…

Mah. È una giornata strana, con la gente in strada che sembra ubriaca e pare voglia farsi mettere sotto da me. Peraltro ci ho messo un quarto d’ora per poter parcheggiare (abbiamo il garage in una viuzza laterale, oggi assurdamente frequentata). C’era mia moglie in bici che mi aspettava per salutarmi prima del suo “giro”; sono passato davanti a lei almeno tre volte, prima – finalmente! – di riuscire ad azzeccare un minuto in cui non c’erano auto. Solo una signora lenta, vecchia e sbilenca che procedeva sul marciapiede e che ho voluto far passare, prima di sterzare in direzione garage. Lei era lentissima, davvero. Con una manovra veloce, avrei potuto entrare nel box… Ma sarei sembrato troppo scortese. A un osservatore neutro sarebbe sembrato che io mi fossi innervosito per la lentezza di questa passante e che le tagliassi improvvisamente la strada, rischiando di investirla. Così ho atteso, con il lampeggiatore che sembrava scoppiettare come una galassia di nove impazzite. Mia moglie era ancora lì appoggiata alla sua bici che osservava il tutto. Avrei preferito che se ne fosse andata già ben prima… almeno la seconda volta che ero entrato nella stradina senza essere riuscito a infilarmi nel buco nero. Ora è la terza volta. Infine, la vecchia signora è passata e, manovrando, ho potuto mettere la macchina nel box (intanto, dietro di me si era di nuovo formata una piccola fila di auto in attesa: sembrano voler prendere tutti questa stradina, per raggiungere il centro città). Un attimo: c’era ancora un uomo in bicicletta, a velocità sostenuta. Vuoi vedere – mi son detto – che non si ferma e mi taglia la strada? Infatti! Meno male che ho frenato, preveggente, sennò lo avrei investito… Mia moglie continuava ad aspettare e io non scendevo ancora dall’automobile, ora ferma in garage con il motore spento. Quando finalmente l’ho fatto, andandole incontro le ho mostrato un’unghia sanguinante. “C’è questo piccolo scomparto dove infilo sempre il telecomando del garage… sai? Ebbene: è costruito male…” le ho spiegato. “Mi ferisco sempre.” È vero: in alto, sul tettuccio del miniscomparto, hanno installato, non so perché, una piccola bocca dell’aria, e lì va a sbattere spesso il mio dito medio – o anche l’indice – quando faccio per prendere il telecomando; accade che l’orlo di quest’ogiva (di plastica, come il resto della macchina; ma plastica dura) si infila sotto l’unghia, ed ecco il perché del sangue. Mia moglie dice che non è possibile. E, dopo che l’ho convinta che davvero in quel posticino speciale della nostra quattroruote appena sotto il cruscotto, un po’ a destra, c’è un trabocchetto ideato probabilmente apposta per far arrabbiare ‘me’, aggiunge che potrei lasciare il telecomando sul sedile accanto, non debbo metterlo per forza nel miniscomparto. Non comprendo il motivo per cui mi contraddice, per cui cerca di avversare le mie ragioni. Io mi sono alzato alle 3,30, ho dovuto guidare prima dell’alba con una nebbia fittissima, poi ho lavorato otto ore insieme a gente che ha la nebbia nel cervello, in un posto di lavoro assolutamente inutile, con capi psicopatici e personale ignorantissimo, e dopo, al ritorno cioè, mi è toccato fare la gimkana per le vie di Wasserburg perché, come detto, passanti e automobilisti sembravano aver contratto un virus mentale. Tutto ciò, con un sole splendente e le terrazze strapiene di gente che si sollazza, e con me sporco di lavoro. E lei… lei discute! “Potresti mettere il telecomando là.”

“E allora perché hanno costruito questo scomparto? E come mai lo hanno costruito con una tagliola all’interno?”

Beninteso: non è lei che sto accusando. Sto accusando i progettisti della Nissan. Così come quando, nel criticare il comportamento dei wasserburghesi lungo, su e per le vie riservate al traffico, non la sto mica accusando di avermi portato in questa cittadina insignificante e piena di forsennati strappandomi dalle ampiezze, dagli spazi verdeggianti e dagli eventi culturali superintelligenti di Monaco di Baviera, dove stavo prima, bensì sto semplicemente obiettando contro la disattenzione dei suoi concittadini nel muoversi sulle strette strisce d’asfalto di questo posto sperduto e tuttavia – per motivi a me arcani – sovraffollato.

La prima volta che volevo imboccare la stradina, c’era un camion che andava in retromarcia. È il camion delle bevande: una volta alla settimana, consegna casse di birra e limonata a un locale poco distante. Troppo ingombrante per questa stradina, non so perché i due bestioni che vedo dentro la cabina di guida non parcheggino nella strada parallela per scaricare la loro merce… o, meglio ancora, perché non facciano le loro consegne ad altro orario, anziché a quello di punta. Io, che avevo inserito il lampeggiatore e mi ero già rallegrato vedendo mia moglie ad aspettarmi all’angolo, mi sono totalmente rabbuiato dovendo proseguire dietro agli altri veicoli e fare il giro per il centro intasato, prima di tornare allo stesso luogo.

Chiedo che diavolo ci faccia un camion sempre lì, a bloccare la nostra stradina… Dico che non è giusto, che non è logico; e lei mi contraddice.

La mia seconda volta sono stato tallonato da un’altra auto, davvero questi qui si erano attaccati al parafango: ho perciò azionato la porta del garage con il mio telecomando ma non ho potuto voltare verso il box per poi fare le manovre d’entrata. Dunque: di nuovo un giro (intanto imprecando contro tutto e tutti… stanco e uggioso), di nuovo un’avventura a schivare ciclisti che si credono al Tour du Monde e passanti con o senza cani che si gettano giù dai marciapiedi sfidando la sorte.

Terzo tentativo, con mia moglie ancora là che mi osserva impassibile come una cinese. E qui c’è la passante anziana lèeeenta, che io faccio gentilmente passare, bloccando il traffico; lei comunque tenendomi d’occhio impaurita, perché deve aver notato qualcosa di strano nella mia faccia arrossata dalla tensione. E finalmente (dopo aver evitato anche di ammazzare un ciclista, spuntato come in un videogioco) sono dentro e… mi spezzo l’unghia.

Davanti a questi garage in fila che appartengono al nostro condominio si trova una piazzetta con un locale turco – ‘Metin’ – ove ogni tanto compriamo del cibo da portar via. Metin in questo momento siede con tutta la famiglia in terrazza, a desinare o anche solo discutere (tanto, di clienti da lui ce ne vanno pochi: giusto, quindi, che l’oste e i suoi – la moglie con il fazzoletto hijab in testa, la figlia e il figlio che sono il ritratto preciso dei loro genitori – consumino ciò che non vendono). Li vedo volgersi verso di noi. Mentre la mia dolce metà rintuzza tutte le mie critiche all’universo mondo usando un tono dolce, come sua abitudine, io ho alzato la voce, accorgendomene perfettamente ma non facendo nulla per controllarmi. Chi non ci conosce, potrebbe pensare che stiamo litigando, che io le stia facendo una ramanzina… chissà perché. Magari perché lei, l’infedele, è di nuovo a cavallo della bici, e chissà in quanti altri posti è andata a divertirsi stamani mentre il sottoscritto faticava letteralmente in manicomio… Ma no. Tranquillo, Metin. Io e “mogliema” non stiamo affatto bisticciando. Pur se oggi non mi congedo da lei con il solito bacio e i soliti abbracci e il solito “Buon giro in bici!” o “Buona passeggiata!”, come invece faccio in altre occasioni. È solo un giorno così. Un mercoledì… no, non da leoni, ma da co… oni. E magari ha davvero ragione lei che la bocca d’aria non è stata costruita lì apposta per spezzarmi l’unghia e che la gente e i ciclisti sono normali; sono soltanto io che devo stare più attento, attento a ogni cosa… attento a non ammazzarli…

Mai sia! Prima di dover ammazzare qualcuno, mi ammazzo io.

p.

 

UN MERCOLEDÌultima modifica: 2020-09-10T18:30:06+02:00da helvalida
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2 pensieri su “UN MERCOLEDÌ

  1. I contrattempi ansiogeni e le sottili agonie della quotidianità si mescolano alla malinconia lontana di un ricordo e a quella attuale di una canzone che nessuno conosce. Coinvolgente celebrazione di un piccolo “male di vivere” nella descrizione di una giornata qualunque. La prosa di Peter Patti è molto efficace nel suo consapevole minimalismo.

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