SVETLANA

Da alcune sere non vedo Svetlana. Non ho mai imparato il suo cognome. È ucraina, ma vive in Italia da trentacinque anni, con suo marito. Uno studioso, credo, misantropo, forse, non esce quasi mai. Ascoltano sempre musica classica, si sente intorno alla loro casa. Non so cosa faccia Svetlana tutto il giorno. Non è più giovane, ma è snella, agile, con i capelli lunghi. Forse soffre il caldo perché mi sembra infelice. Si aggira all’imbrunire sul terrazzo della sua bella casa “mare e monti” come la pizza. Gliel’ho detto una volta e lei mi ha sorriso, come chi avesse trovato una con cui parlare. Ma poi non abbiamo parlato granché in tanti anni.

Adesso so che lei vede la mia sagoma, ma non si sbraccia come farebbe qualunque meridionale, non dice: “Buonasera, signora, come sta? E suo marito?”. Non dice niente. Innaffia il basilico e la menta, ogni sera, e poi alza le tende da sole. Fotografa. Una volta dalla sua casa insieme alle note uscivano profumi, tutte le etnie del mondo sembravano affollarsi colorate e danzanti nella sua cucina. Adesso no.

Che se ne fa di tante immagini? Alle cinque del mattino, col primo colore, all’imbrunire, quando il malva diventa grigio. Fotografa quasi sempre il mare, anche di notte, credo, molto meno la montagna, come da noi si chiama l’Etna.

Una sola volta sono stata a casa sua. Ricordo che la incontrai faccia a faccia nell’androne. Era d’inverno.

– Ho un freddo tremendo, – le dissi, così tanto per dire qualcosa.

– Venga su, ho il camino acceso. Mio marito ci prepara il caffè.

Ero sorpresa da quell’invito.

– Mi aspettavo un the.

Ostentavo una finta disinvoltura per fugare l’imbarazzo, ma lei continuò con semplicità.

– No. È complicato: Ermanno, che è italiano, beve the nero all’inglese, molto forte, col latte. Forse non le piacerebbe. Io, che sono ucraina, bevo caffè americano. Abbiamo pasticciato un poco con le bevande. Me ne sono innamorata a New York, c’era un freddo peggiore di questo, e tutti avevano i loro bicchieroni, sembravano personaggi di Law and Order, sa, la serie. Mi sono detta “anch’io”, e ho imparato che può essere buonissimo o pessimo. Noi lo facciamo buonissimo, meglio degli americani.

  Quando finimmo i caffè lunghi e fragranti che Ermanno gentilmente ci aveva portato, Svetlana mi invitò in soggiorno.

   – Venga di là, le propongo un gioco. Per riscaldare anche la mente, – aggiunse misteriosa. – Non possiamo uscire in terrazza, c’è troppo freddo, ma anche da dietro i vetri va bene. Vede quella lunga fila di automobili? Hanno già acceso i fari. Io so cosa pensano gli uomini e le donne al volante. Giochi anche lei a indovinare.

   – Ma … e come facciamo a controllare?

   – Controllare? Vuole controllare il costume azzurro del principe azzurro? Giochi. Per esempio, il primo è un tecnico di pompe di calore. Sta pensando: “Accidenti, mi chiamano tutti ora che c’è freddo. Non sento più la testa e le orecchie per il vento che ho preso. E le mani, le mani sono escoriate e spaccate. Ruvide. Linda non vuole più che mi avvicini a lei. Dice che le faccio male. Forse ha anche ragione, ma io lavoro dalla mattina alla sera e la faccio vivere bene, i vestiti, il parrucchiere, gli elettrodomestici, meglio di Antonella che ha sposato un insegnante e fanno fatica ad arrivare in fondo al mese. Avrà le mani morbide, lui … Non la voglio perdere. Forse il fatto è che lei non mi ha mai accettato, sono un operaio, ecco quello che sono”.  La seconda, la ragazza dai capelli biondi e lisci, è in preda all’angoscia per il traffico: “Non vedo l’ora di arrivare a casa e fare questo cazzo di test. Ci mancava altro che questo. Salvo mi ha fatto questa mattina il primo servizio fotografico e dice che ci sono buone speranze, non devo ingrassare di un etto, però”. La terza è una donna giovane con la macchina piena di bambini e di pacchi. “Devo solo apparecchiare la tavola e vestire bene i bambini”, pensa. Sul viva voce dell’automobile arriva una telefonata: “Signora, il dottore mi incarica di dirle che non tornerà in tempo per la cena stasera, sarà in riunione fino a tardi”. “Mamma, e la torta?” “La mangeremo noi”.

E il quarto infine, l’ultimo di cui riesco a sentire i pensieri. È un distinto signore, sulla settantina. Elegante. Dev’essere stato un bell’uomo, è bello anche adesso. “Sai, Alberto? Ho pensato che tu sei divorziato, in pensione, e che ti potresti occupare di più dei bambini, così Mario ed io potremmo avere un po’ di libertà.  Almeno ti potresti svagare con loro e dare un senso alla tua vita, non credi?”. “Svagare. Stronza. Potrei farla gridare di piacere una come te, che mi manda ai giardinetti … Ma è imbecille mio figlio, che ha sposato un’imbecille?”

Si fermò, come in trance: – La scandalizzo?

  • No, – risposi – ma cos’è, un campionario dell’umanità?
  • Un campionario? No. C’è chi pesta il miglio, chi dirige le sorti del mondo, chi sa di dover morire entro un mese, chi non ha mai ascoltato il Requiem di Mozart … No, è un piccolo gioco nel cortile di casa.  
  • Perché fa questo gioco?
  • Per amore di un uomo che me l’ha insegnato. Un illusionista.
  • E dov’è adesso quest’uomo?
  • E chi lo sa? È un uomo, no? Appare, scompare, riappare. Ad ogni tappa fa valere le sue ragioni. Un artista della vita. Forse un eroe.
  • E i suoi figli, come stanno? – chiesi per cambiare discorso.
  • Bene, mi hanno detto.

All’improvviso volevo andarmene. Se ne accorse e, senza un gesto in più, mi accompagnò all’ingresso.

  • La prossima volta un the? – chiese sorridendo.

Ma il suo cuore era altrove.

Non sono più andata a trovarla. L’ho incontrata solo per caso, scambiando qualche parola. La sua vita me l’hanno raccontata gli altri, i vicini che sanno sempre tutto.

Mi hanno raccontato che aveva conosciuto Ermanno in Ucraina, lei era sposata con due figli piccoli. Il marito fece di tutto per farla espellere dall’allora onnipotente regime sovietico. I bambini erano rimasti con la madre di lui. Svetlana in Italia aveva avuto solo Ermanno. Aveva vinto il dolore del distacco dai suoi figli, dalla sua terra, attraverso un rapporto d’amore strettissimo, quasi ossessivo, con quest’uomo. Il tempo era passato, i figli erano diventati due violoncellisti dell’Orchestra di Stato di Kiev. Lei aveva visitato l’Europa con Ermanno, in un’infinità di viaggi avventurosi e di note sublimi. Anche Ermanno amava la musica classica come lei, si erano unite due pazzie.

Ma è misteriosa, Svetlana. C’è qualcosa che va al di là di questo dolore antico, di questo amore possente. C’è qualcosa dietro i suoi occhi, nelle sue pause, nei gesti, che vuole venire fuori e non può, la sensazione strana che abbia inghiottito un iceberg che non riesce a sciogliersi, che non può vomitare. Dà sempre l’impressione, quando parla, di aver detto qualcosa in più di quello che voleva dire e lascia nell’ascoltatore il rammarico di aver ascoltato meno di quello che avrebbe voluto ascoltare. Io subisco il suo fascino e insieme mi commuove, non so perché, vorrei aiutarla, non so come.

Non riesco a dimenticare una scena cui vorrei non aver assistito. Qualche  anno fa, all’imbrunire, Svetlana come al solito era intenta ad alzare le tende da sole. Ma si muoveva a rilento, si fermava e ricominciava, come se pensasse ad altro. Poi si sporse a guardare la terrazza sottostante. Mi sembrava che si sporgesse troppo e il cuore cominciò a battere irrefrenabile quando le sue braccia oltrepassarono il corrimano ed abbracciarono la ringhiera dall’esterno. Ma che fai, ma che fai, ricordo di averle chiesto silenziosamente.

“Ma che fai, Svetlana. Non farmi spaventare. Non ti sporgere così, è pericoloso. Cosa vuoi fare, cosa cerchi giù in terrazza?”. Non osavo muovermi. Non potevo gridare per la paura. Le braccia sporgevano oltre la ringhiera, e la testa oscillava, come se Svetlana fosse in trance.

“Via, Svetlana, via, metti la testa indietro, per favore, non c’è niente da guardare giù in quella maledetta terrazza. Sembravi così forte, così felice, un modello”. Le mie mani correvano al viso, piano, non volevo neanche spostare l’aria a distanza, nel timore che mi vedesse, che sentisse un fruscio. “Non stare appesa, le gambe penzoloni sul tuo balcone. Non abbassare la testa, ti prego”.

A poco a poco, con movimenti lenti, aveva raddrizzato la testa esitante, e aveva riportato lungo il corpo le braccia prima a cavallo del corrimano della ringhiera. Seduta sui talloni si era passata una mano tra i capelli lunghi e poi sulla fronte. Mi aveva vista, alzandosi, pietrificata alla mia finestra.

– Si è accorta di quella crepa sulla terrazza del pianoterra? – mi aveva chiesto l’indomani con fare tranquillo, come se parlasse di una inoffensiva macchia di umidità sul pavimento di una casa che non la riguardava.

– No, non l’ho vista. Lei è rimasta a lungo a scrutare di sotto.

– Sembrava una piccola crepa insignificante, ora si è allargata.

– Non è che voleva volare?

– Volare io? Noo! Io sono ucraina, attaccata alla terra. Contadina. Sa, il grano.

Sorrise illuminandosi, gli occhi e il pensiero altrove.

Non so com’è, con questi intellettuali, non sai mai quando parlano sul serio e quando ti prendono in giro. Voleva andarsene, però, si vedeva.             

Ora è di nuovo infelice, ma non così come quella volta del balcone. È stanca, come priva di luce. Sale le scale curva, con i sacchi della spesa, come pensando ad altro.

L’ho incontrata di nuovo, proprio qualche giorno fa.

 – Cosa fotografa?

 – Mi piace la luce che non c’è ancora e l’ultima luce. Il presagio di vita, l’annuncio della morte del giorno. Mi sembra di riuscire a strappare al tempo un sospiro.

 La guardo interdetta:

– Guardi che io sono tra quelli che non hanno mai ascoltato il Requiem, – le dico ironica. – Ricorda l’inverno scorso, ero a casa sua e giocavamo. Sono una persona semplice io, e non capisco questo discorso del tempo, – aggiungo.

– Non importa, – fa un gesto con la mano, – inutili elucubrazioni. Però il Requiem lo conosce, senza saperlo. Chissà quante volte lo ha sentito suonare dalla nostra casa.

C’è un’allusione? Non credo. Ma non la lascio, ho voglia di squarciare un po’ le tenebre. La provoco, sorridendo:

– E allora, cosa penso?  

– Non lo so, – mi dice con semplicità. – Si può giocare solo con gli sconosciuti che non vedono e non sentono. Non con una persona che si guarda negli occhi.

– E non la soccorre il suo amico illusionista?

– No, lui in questo momento è impegnato in altro.

– Cosa?

– Mi sta facendo scomparire, diventare fumo.

Non capisco. E taccio.

All’improvviso lascia cadere i pacchi e si siede su un gradino delle scale, le gambe snelle nei jeans sbiaditi. La camicia di lino bianca con le maniche arrotolate. Disinvolta. Elegante. Si allontana i capelli serici dal viso.

– Sieda con me, – mi dice. E mi sorprende.

– Cosa vuole sapere?

Arrossisco, ma non mi dà tempo di scusarmi.

-Ieri mi ha telefonato uno dei miei figli e io non l’ho riconosciuto. Non ho sentito nessuna voce del sangue, quelle cose che si dicono. Era semplicemente uno sconosciuto, un giovane uomo che parlava una lingua che non è più la mia. Il suono di quella lingua mi ha rimescolato il cuore, quello sì. Ma nient’altro. Poi mi è caduta sulla testa una tristezza dura, senza uscite. E mi sono detta che avevo sempre pensato che avrei rincontrato i miei figli, perché non ho mai smesso di amarli, e avevo immaginato la commozione al ricordo dello strazio della separazione, ero giovane allora, non pensavo che Juri mi facesse questo. Il mio primo ragazzo, subito due figli, vivevo in uno schema chiuso, mi chiamavo anche Svetlana come la figlia di Stalin, i miei genitori erano sovietici ortodossi, i genitori di Juri contadini, io avevo frequentato l’università di Stato. Conobbi Ermanno per caso e subito la sua forza d’attrazione fu enorme, potevo condividere con lui quelle passioni della mente che mi erano state sempre negate, storia, pensiero, politica, musica, libertà. Libertà soprattutto. Io non avrei fatto mai a Juri una cosa del genere e non c’è stato nessuno intorno a lui che lo abbia biasimato.

Queste erano cose semplici, le capivo e lo sguardo vuoto di Svetlana mi turbava più delle sue parole.

– E il suo amico illusionista, che c’entra, in tutto questo?

– Oh, lui! Lui ha tutta l’innocenza di un fanciullo e tutta la spietatezza di un uomo: “Lascia tutto e vieni a vivere con me, l’ultima passione della vita, non ce la togliere”. Non potrei mai farlo, non posso sopravvivere a un’altra lacerazione, a un altro ricatto. Io vivo qui, dove c’è Ermanno. E non per convenzione. Forse perché abbiamo riso e pianto, cantato canzoni e ascoltato mille volte il Requiem. E perché lui non ha preteso che dimenticassi i miei figli. Perché oggi è più importante dei miei figli, che non riconosco al telefono. Il porto. Non bisogna pretendere che ci sia l’acqua limpida, il porto è tale perché accoglie e protegge.

“Il porto, Svetlana, di quale porto parli? Si dev’essere ben intorbidata l’acqua del tuo porto se volevi volare giù dal balcone. Sei tu che proteggi lui, sei tu che ami. Anche il tuo amico illusionista. C’è in te qualcosa che parla continuamente, anzi grida, e fermenta. E quella volta, quella volta …”

-Svetlana, perché quella volta ha buttato tutte le tazze dal balcone?

“Sembrava un rito: fredda, attenta, prima la tazza, poi il piattino, sei andata avanti per mezz’ora e alla fine hai chiuso il balcone. Tutti avevano aperto le finestre e ti guardavano. Hai lasciato i cocci sotto, dovevi essere proprio fuori di te”.

– Ah! Quella volta? – sorride rialzandosi. – Si tratta di un’usanza ucraina, lo facevano anche le nostre nonne.

– E dopo? Come facevano?

– Come facevano loro, non so. Per noi è facile. Si va al supermercato e si ricomprano le tazze. Si continua a vivere: the, caffè, tisane, brodo…

Scherza. Forse. Con questi intellettuali non sai mai se dicono sul serio o che. Però sono quasi sicura che ha voluto scherzare, perché mi è sembrato di vedere un filo di commozione nei suoi occhi. Ha ragione, però, si va al supermercato e la vita continua, the, caffè…

– Svetlana, mi inviterà di nuovo a casa sua davanti alla stufa?

– Sì, devo approntare la legna. Sono contenta se viene.

– E rifaremo il gioco dal balcone, per riscaldare la mente?

– Se vorrà. Io lo faccio sempre.

– E il fumo?

– Quello della stufa, o parla di me?

– Parlo del suo. Io sono una persona semplice: non sarà un po’ imbecille, questo suo amico?

– Noo! Tutt’altro. Esuberante, fantasioso, artista. Uomo.

E ora piange, la fronte appoggiata alla porta di casa.  

Anna Murabito     alimarbit@yahoo.com

 

 

 

 

SVETLANAultima modifica: 2020-09-16T20:16:38+02:00da helvalida
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