MAUPASSANT, VERGA, KUNDERA, BÖLL

di Gianni Pardo

Nella maggior parte degli spettacoli vigono delle convenzioni, anche per quanto riguarda le vicende narrate. Il fatto stesso che ci siano dei generi – commedia, dramma, farsa – indica che lo spettatore sceglie uno spettacolo del quale sa già che cosa deve aspettarsi. Anzi, che cosa ha il diritto di aspettarsi, visto che ha pagato proprio per avere quel risultato.

La conseguenza di questo schema è che, in un certo senso, l’autore bara sempre. Se sa che la sua è una commedia, per quanti rischi e pericoli possano correre i protagonisti simpatici, è chiaro che non avverrà nulla di grave. Questo è talmente vero che gli spettatori, dinanzi alle situazioni più drammatiche, già sorridono in vista della soluzione del problema. Sono sicuri che non solo non ci saranno conseguenze negative, ma la vicenda probabilmente indurrà al sorriso. Avviene anche (ma più raramente, la tristezza non vende bene) che certi autori s’impegnino alla negatività con estremo accanimento e considerino uno spiraglio di luce o un colpo di fortuna non solo del tutto inverosimili ma addirittura poco artistici. Anche questi autori “negativi” sono dei bari, nel senso che mostrano una sola faccia della realtà.

Abbiamo degli esempi famosi. Maupassant sembra pensare che la realtà sia fondamentalmente negativa. E sia tanto naturalmente, tanto innocentemente negativa, che la prevalenza dei personaggi “cattivi” sui personaggi “buoni” deriva da un loro migliore adattamento alla realtà com’è. In un mondo senza Dio, i grandi principi sono pure facciate dietro cui si nascondono i veri intenti degli uomini immorali, quasi sempre vincitori. Coloro che hanno un sincero atteggiamento morale sono viceversa gli ingenui, quelli che non hanno capito come stanno le cose: e dunque i perdenti. In Maupassant non c’è crudeltà, non c’è nemmeno cinismo: c’è disincanto. S’incontrano tante persone miserabili e interessate, vili e avide, prevaricatrici e bugiarde, che alla fine le persone stimabili divengono eccezioni insignificanti, quantités négligeables. Non è un piacere vedere come va il mondo ma, volendolo rappresentare, non si può che mostrarlo com’è. Sicché la società come egli la descrive somiglia ai documentari sui leoni: un mondo in cui il più forte divora vivo il più debole, deruba gli altri predatori e alla fine – lungi dall’avere scrupoli – dorme beato all’ombra, interrompendosi solo per stirarsi e sbadigliare.

Ovviamente, anche per l’autore normanno sono necessari dei punti d’osservazione e cioè dei personaggi che possono essere negativi (Bel Ami) o perfino positivi (Boule de Suif): ma ciò non cambia l’affresco sconsolato della società. Un miserabile, un arrampicatore sociale senza scrupoli incontra e sfrutta persone perbene ed ha successo: e questo è normale. Ma se anche la protagonista, la prostituta Boule de Suif, è positiva, ecco che incontra borghesi negativi ed è alla fine perdente; in ambedue i casi il mondo rappresentato – un mondo einseitig, che ha una sola faccia non cambia.

Verga è anch’egli un grande pessimista, ma il suo mondo è meno naturalistico di quello di Maupassant. Mentre nel francese la prevalenza di certi personaggi si spiega con la loro mancanza di scrupoli, e si potrebbe dire in forza della loro maggiore intelligenza, in Verga si ha quasi l’intervento di una divinità malevola. I suoi protagonisti non sono né più ingenui né più deboli degli altri: è il Fato, che li vince. La barca dei Malavoglia è carica di sfortuna e non per caso, ma per un’ironia feroce, si chiama “La Provvidenza”. È la tempesta, deus ex machina cieco e impersonale, che rovina i Malavoglia. Così come è la sfortuna che perseguita Gesualdo, fino a derubarlo costantemente del sapore della vittoria ampiamente meritata. Gesualdo è nato per vincere. È talmente abile, talmente positivo, che da Mastro diviene Don e, se non trionfa, è perché l’autore lo perseguita: mentre da un lato sorvola sui suoi successi, narra e sottolinea per esteso le sue disgrazie. In queste condizioni anche la storia di Giulio Cesare diverrebbe quella di un vinto. Persino quando è costretto a dar conto delle sconfitte dei suoi nemici, Verga lo fa distrattamente, come non contassero. La sorella di Gesualdo scende in guerra contro di lui ma alla fine non ne ricava nulla e l’autore scrive sobriamente che in quella battaglia lei s’era rovinata. “S’era rovinata”. Fosse capitato al protagonista, non ci sarebbe stato risparmiato nulla del suo dispiacere, delle sue umiliazioni, del suo fallimento.

Maupassant, pure unilaterale, è obiettivo, Verga bara. E tuttavia lo fa con una tale arte, che alla fine col cuore gli crediamo. Per criticarlo bisogna essere usciti dai suoi libri da parecchio tempo, tanto da poterci riflettere a mente fredda. Poi ci sono altre differenze: Maupassant è un superiore maestro di stile, Verga scrive male; e poco importa che ciò avvenga più o meno volontariamente. Maupassant è freddo, Verga è passionale. Maupassant fotografa, Verga dipinge.

Il caso di Kundera è ancora diverso. Il suo mondo non è popolato da personaggi in prevalenza negativi, come in Maupassant. Non esiste neppure un Fato malevolo. È il protagonista che, quasi distrattamente, si mette in guai sempre più grandi. Perché è un debole, uno che non sa prendere in mano il proprio destino. Il romanzo dunque non implica un giudizio sulla società: si limita ad essere la storia di un individuo e del resto del mondo come è visto da lui.

Un protagonista forte e positivo per Kundera è impensabile. Più esattamente, i suoi personaggi principali sono positivi nell’anima e nelle intenzioni ma falliti nella vita reale. Probabilmente i suoi romanzi sono spiritualmente più autobiografici di quelli di Verga. Il catanese infatti il suo bravo successo sociale a Roma l’ha avuto, lo stesso Maupassant è noto, oltre che come romanziere, come sportivo e come grande donnaiolo superdotato. Kundera invece sembra fare arte dell’esperienza della frustrazione. Il suo è un mondo disperato e il suo racconto descrive una parabola in senso balistico: un uomo vola verso la vita ma a poco a poco le cose si mettono in maniera tale che il volo declina verso il basso, fino alla catastrofe. Costituita quanto meno dalla sua rassegnazione. Il protagonista della “Plaisanterie” (“Lo Scherzo”) avrebbe mille ragioni per cercare di vendicarsi di colui che ha rovinato la sua vita ma, quando ne ha l’opportunità, sente che è troppo tardi. Non ne ha più voglia, non ne ha più il diritto. Forse capisce che comunque – a causa di quell’uomo o d’un altro, poco importa – era condannato a subire.

Kundera sembra sostenere che i migliori sono più sensibili, più delicati, più indifesi degli altri e per questo sono destinati alla sconfitta. “Il pensiero ci rende tutti vili”, diceva Amleto. La nobiltà d’animo ci predestina alla morte e all’umiliazione, pensava Vigny. Ma, mentre Amleto alla fine prende in mano il proprio destino, mentre Vigny di questa sconfitta si fa un’aureola e di questo martirio agita la palma, Kundera sembra solo spiegare come mai egli non abbia saputo difendersi, nella vita, e come mai non abbia avuto ciò che meritava. Per questo la sua opera non ha né il vasto respiro sociale e umano di Maupassant, né la poesia di Verga. Kundera potrebbe essere l’autore d’elezione dei disadattati. Di coloro che preferiscono pensare che non loro siano sbagliati, ma il mondo. Di coloro che hanno bisogno di un alibi per la propria debolezza.

A questo terzetto val la pena d’aggiungere Böll. In “Ansichten eines Clowns” (Opinioni di un clown) il protagonista, Hans, è un uomo intelligente, sensibile e con un grande senso estetico. Non è dunque troppo strano che abbia delle difficoltà ad adeguarsi ad una realtà che di senso estetico ne ha ben poco. Non è strano che disprezzi la madre, avara ed interessata soltanto alla mondanità intellettuale. Non è strano che disprezzi il padre, filisteo e insignificante, anche se ha fatto i miliardi. Non è strano neppure che disprezzi tutta una cerchia di amici-nemici, in particolare il gruppo dei cattolici. Ma da questo ad avere un comportamento contraddittorio, occasionalmente ingiusto col prossimo e soprattutto autolesionista, ce ne corre.

Il protagonista può certo subire un calo di consensi nel suo mestiere di clown, può avere un incidente ad un ginocchio che ne mina le possibilità lavorative, ma non si vede perché debba sperperare il poco denaro che ha (l’ultimo marco addirittura lo butta dalla finestra, per poi rimpiangerlo) e ridursi a chiedere l’elemosina, quando la vita gli offriva molte altre soluzioni. Cantare seduto per terra dinanzi alla stazione ferroviaria non è certo il più comodo e redditizio dei mestieri. Ma si direbbe che a questo esito infausto Hans voglia arrivare e per questo Böll gli fa respingere la proposta di cambiamento di repertorio artistico, gli fa rifiutare i duecento marchi mensili proposti dal padre perché possa vivere e infine perfino i trecento marchi a cui il padre aumenta l’offerta. Il lettore si può certo chiedere se duecento o trecento marchi siano un’offerta da prendere sul serio o un’offerta insultate, ma la risposta la dà il romanzo stesso quando poco dopo Hans prega e supplica il fratello Leo, parlando di estrema urgenza, di fargli avere i sei marchi che l’altro possiede. Ed è perché non può ottenerli immediatamente che finisce col darsi alla mendicità.

Questo non ha senso. Solo un bambino piccolo, sotto i dieci anni, può pensare che, rifiutando del denaro, altro ne cadrà dal cielo. Hans non è un bambino e non è un cretino: è solo un personaggio che l’autore condanna pervicacemente al fallimento e alla solitudine. E allora siamo dinanzi ad un altro baro. Un baro come quegli autori hollywoodiani che fanno uscire il James Bond di turno indenne e sorridente dai pericoli più gravi e irrimediabili.

Se si può perdonare al cinema la superficialità di vicende inverosimili, è più difficile tollerare che ciò avvenga nella nobile sede della scrittura. Il lettore non è sottoposto al bombardamento emotivo delle immagini e alla loro convincente evidenza. Chi legge ha il tempo di riflettere e giudicare ed ha difficoltà ad accettare che un personaggio intelligente faccia enormi sciocchezze o che un personaggio sensibile sia occasionalmente duro o crudele. Se ciò avviene ha la fastidiosa percezione dell’intervento dell’autore: questi, dittatore assoluto della vita che racconta, fa compiere ai suoi personaggi anche azioni che essi, pirandellianamente liberi e coerenti, non avrebbero mai compiuto.

Questa è la grandezza di Flaubert. Non solo la sua impersonalità è a tenuta stagna, ma il suo mondo non è squilibrato. Il comportamento sciocco di Emma Bovary è già tutto nelle premesse della sua vita, come nelle premesse della sua vita è la bontà e pazienza di Charles Bovary. Questi è anzi il vero trionfatore morale di una vicenda che vuole anche essere una “triste lezione” di vita: molti di coloro che si credono sensibili e artisticamente superiori escono sconfitti dalla dirittura morale e dall’umanità di un piccolo medico di provincia.

Flaubert convince, Maupassant, Verga, Kundera e Böll no. Sul ménage Bovary è lecito, anzi giusto, versare una lacrima; sui personaggi di quegli altri pur grandi autori, meno. E Böll, dinanzi alla stazione ferroviaria di Bonn, c’induce a non lasciar cadere neppure un pfennig nel berretto di Hans.

 

 

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MAUPASSANT, VERGA, KUNDERA, BÖLLultima modifica: 2020-09-20T14:41:09+02:00da helvalida
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Un pensiero su “MAUPASSANT, VERGA, KUNDERA, BÖLL

  1. Intelligenza allo stato puro, naturale. Un simile scritto non si trova in nessun fascicolo di critica letteraria.
    Penetrazione acuta e inflessibile porta alla luce forme e pensieri di grande pregio con lucidità e fermezza si direbbe chirurgica. Eccellente.

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