FRANCIA

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“T’as voulu voir Vierzon/et on a vu Vierzon/…t’as voulu voir Honfleur/et on a vu Honfleur ».

Così comincia una canzone beffarda, mordace e amarognola, di Jacques Brel, che poi continua con uno svolgimento che non è il mio.

Ma, parlando di Francia, io ho visto anche Vierzon, Vesoul, Honfleur, Digoin, quelli che gli stessi francesi appena un po’ critici definirebbero dei trous perdus, buchi perduti. Mi sono innamorata a tal punto di questo Paese da costringere quasi mio marito a visitare tutte le città, anche quelle provinciali e insignificanti, che lui disprezzava per principio. Il mio turismo in Francia è stato forsennato, non riesco a definirlo altrimenti. Forse perché in Francia non ho fatto turismo. Mi sono sempre come affrettata a raggiungerla e a percorrerla. L’ho ritrovata come casa mia, una casa in cui avrei voluto vivere sempre.

Nonostante i suoi vezzi “sciscì”, come dice un amico. I suoi diminutivi ad eco, Jojo, Riri, Popaul, Kiki, DéDé, Zizou. Con tutte le frasi cantate, alcune al limite dell’acuto, altre perplesse che finiscono con una pernacchietta, un oui affettuoso e confidenziale pronunciato aspirando l’aria invece di emetterla, e in genere tutto il setticlavio di una lingua che, pronunciata bene, ha sedici vocali e tre semivocali. Non bastasse, ci sono le zeppe, le esclamazioni rituali, le parole milleusi, come “merde”. La Francia echeggia continuamente dei suoi “Ah bon!”, “Ça alors!”, “Ça va?”. E c’è la fantasia perversa delle sigle, nate per abbreviare e alleggerire, che invece appesantiscono la pena degli stranieri smarriti nell’ascolto: dalle immortali “petetè” (PPTT, le poste) al più scherzoso “pepeasc” dalle iniziali di passera pas l’hiver, non passerà l’inverno, detto di anziani decrepiti. Alle mille altre nuove sigle che nascono ogni giorno. Addirittura mio marito mi parlava del suo stupore quando, tanti anni fa, sentì parlare della “teessèf”, e non aveva idea di che cosa intendessero. Nientemeno si trattava della TSF, télégraphie sans fil, cioè la radio.

Insomma Brel l’ha detto magistralmente e scherzosamente parlando di Parigi. “… j’ai horreur / de touts les flonflons / de la valse musette / et de l’accordéon » (ho in orrore/ tutti i ritornelli popolari/il valzer musette / e la fisarmonica).

Ma a me tutto questo non importa. Cipria, di cui si può fare a meno. Trascurabile folclore.   

In Francia sono stata una trentina di volte. E tuttavia non ho episodi eclatanti da ricordare e da raccontare, se non una terribile litigata con una “signora” che gestiva un campeggio, a Menton, sulla Costa Azzurra, con tanto di intervento della polizia che, pur avendo noi ragione, non ci dette manforte. Fu un episodio grottesco e drammatico che vide l’irruzione della follia nella vita quotidiana. La storia ebbe poi un epilogo impensato. Anni dopo, le autorità francesi a cui avevamo denunciato la cosa e che avevano dormito tutto il tempo, improvvisamente svegliati dal racconto dell’episodio in una lettera di mio marito che il “Giornale” rese pubblica, si scusarono, invitandoci per tre giorni a Menton, interamente spesati, volo compreso, e ricevuti con tutti gli onori anche dal sindaco.

Indimenticabile un particolare. La dame, che aveva aggredito mio marito avec une pioche, con un piccone, non sapeva come disprezzarci, e cominciò con un dato geografico (“La Sicilia è una merda sotto lo stivale”). Poi definì mio marito un truffatore perché, benché esibisse una carta d’identità italiana, non era un italiano ma un francese, lei era bene in grado di capire quando uno parla la propria lingua o no.

Ma tutto questo non importa. Questa non è “Francia”, è il percorso imprevisto dell’irragionevolezza. Poteva capitare ovunque. Per fortuna non è mai più capitato né in Francia né altrove.    

Non c’è una sola Francia. Ne posso annoverare almeno quattro: Parigi, la Costa Azzurra, l’immensa provincia, la Bretagna.

Non trovo un angolo intimo della mia mente per ricordare Parigi, legata com’è ad immagini troppo stereotipate per potersene liberare: gli innamorati di maniera, i pittori di strada, i bouquiniste, Montmartre, “Il bacio” dinanzi alla Mairie, la famosa foto in bianco e nero che vedo ogni giorno nel mio corridoio. L’indifferenza e la fretta della grande città, un’architettura un po’ magniloquente, “pompier”, espressione di una grandiosità senza meditazione. E nessuno spirito veramente cosmopolita, perché anche la capitale – come tutta la Francia – è un mondo a parte, che accoglie gli altri solo temporaneamente, inclusi i francesi non parigini. Altra cosa è Londra, per esempio.

La Costa Azzurra, bella della bellezza di certa Italia del Sud e della Grecia – indimenticabile la vista dall’alto di Villefranche sur Mer – favorita dal clima e dai profumi, è il regno della mondanità. È vero, è cosmopolita più di altri luoghi in Francia, ma io non vivrei mai a Cannes, perché c’è un semaforo ogni cinquanta metri e perché se non sei ricco ti senti sporco anche se hai appena fatto la doccia. La Costa Azzurra – un lungomare chic – è il mondo dei lini e delle sete, delle borse da 5.000 euro, degli occhiali all’ultima moda, dei ristoranti esclusivi, della bella vita come comunemente la si intende. Nonostante il suo famoso festival, non ho mai sentito Cannes come una città culturalmente raffinata. Non ho niente contro il lusso, ma dev’essere un lusso riservato, elegante, silenzioso oserei dire, meglio se pervaso di buona musica. Le auto che rombano, i giovani leoni – comunque adesso si chiamino – con la camicia bianca aperta sul petto depilato e abbronzato, i corpi deturpati dai tatuaggi, le aspiranti attricette, moltiplicate da una bellezza sempre più a portata di mano, tutto questo fa parte di una superficie che non va oltre sé stessa. E fa pensare alla finzione della gioia, alla desolazione di un sesso distratto e omologato.

Rimangono i due aspetti della Francia che più conosco e più amo. La provincia e la Bretagna.

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Le dimensioni della provincia le conosce solo chi la percorre in automobile. Un’infinità di village composti e ordinati, ciascuno intorno a un paio di istituzioni immancabili: il Municipio, l’Ufficio Postale, l’Ufficio del Turismo a partire da un certo numero di abitanti. La chiesa, spesso chiusa, segno dei tempi, è una presenza vagamente poetica ma residuale. Un’infinità di panifici fragranti dove si celebra ogni mattina il rito del croissant e del pain au chocolat. Un’infinità di voci cantanti all’inizio e alla fine di ogni entrata e uscita da un negozio, “Bonjour, madame, au revoir, madame”. Tutto come nella favola, compresa la baguette sotto l’ascella. Ora i negozianti sono provvisti di pezzi di carta che forniscono a richiesta, con piccole smorfie in cui si vede il tentativo di comprendere la stranezza dei turisti. Gente tranquilla in giro, enormi striscioni all’inizio di ogni piccolo centro che decantano ogni immaginario museo del luogo, compreso quello dei lacci da scarpe se esistesse. Indicazioni che ti dicono come fare giri in canoa, tornei di pétanque, gite in bicicletta, come in nessun posto al mondo se ne fanno.

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Sono meravigliosi venditori di sé stessi, i francesi. Riescono ad essere i primi in Europa, pur non avendo niente, o quasi, dal punto di vista artistico. Abiterei in queste cittadine? Per nulla. Mi mancherebbe l’aria. Ma il bello di questi village è che servono per comprare l’acqua, il pane fresco e (una volta, prima dei grandi supermercati) il pâté nelle immancabili charcuterie. E dopo è subito di nuovo campagna. La campagna francese, efficace come un analgesico, calmante come un antidepressivo.

Strade perfette, nastri di seta grigia su cui le automobili scivolano; assenza di cartelli pubblicitari a salvaguardare il paesaggio; campi sterminati coltivati a mais, a grano, ad ortaggi. Ad altri cereali che non so identificare, avendo vissuto prevalentemente in città. Molti anni fa lì ho visto le prime balle di fieno compattate in enormi cilindri schiacciati mentre quelle italiane erano ammucchiate come nei quadri dell’Ottocento. Ogni volta mio marito ha commentato che, se i francesi non sono i più ricchi d’Europa, devono fare il mea culpa: non sanno lavorare come i tedeschi.

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Campagna franc balla di fieno

Vincent_van_Gogh_- Campo di grano

Lì, più che nella sua terra, ho capito Van Gogh e scorto immaginari corvi neri sui campi gialli. Lì ho pianto all’improvviso perché mia madre morta da poco non poteva più vedere i girasoli che io vedevo.

E la mia anima si è persa e si è ritrovata più volte nell’assenza di tempo dei crepuscoli. La mia parola si è placata nel silenzio delle zone boschive.

Mi sono spesso chiesta dove fossero, alle cinque del pomeriggio, gli abitanti dei paesi attraversati, paesi immobili, assenti. Colori indefinibili nelle facciate delle case. Finestre di legno, con la vernice scrostata, le abrasioni lasciate dalla pioggia e dal sole. Lì è entrata la polvere portata dal vento. Ed è la polvere che racconta la vita. Mi piacciono queste storie, per riposarmi, piuttosto che quelle sgargianti e avventurose degli effetti speciali.

Qualcuno mi dirà che non amo la provincia francese ma gli spazi aperti e il silenzio. È vero, ma qui, se si è stanchi di solitudine, basta uscirne, c’è l’Europa, la lingua che si conosce, una civiltà a cui si può sentire di appartenere. Non è come nelle steppe dell’Asia centrale, da cui pure sono incomprensibilmente attratta.

Se la provincia francese è “il viaggio”, indistinto, uniforme, rassicurante, la Bretagna è l’eccitazione dei sensi, la terra della bellezza insopportabile. Penso in particolare ai tre dipartimenti del Morbihan, del Finistère e delle Côtes d’Armor, cioè alla punta della penisola.

Ne ho parlato troppo, ho scattato centinaia di foto e la mente ripercorre ogni tanto le immagini che non saranno mai perdute. Insenature infinite, barche sbilenche sul mare asciugato dalla marea, relitti che celebrano l’agonia, fiordi che tagliano le rive come ferite malsane. E l’oceano così diverso dal Mediterraneo. Spiagge sconfinate. Fari, felci, grigio, grigio, pioggia sottile, verde, verde, case bianche tutte uguali che emergono dalle brume mattutine come un’apparizione. La nebbia che entra nel cuore, ma una notte (ho letto recentemente in una lettera indirizzata a un amico molti anni fa) il cielo era così terso che, io miope, ho identificato Orione senza occhiali. Il canto della Tortora lì sembra più straziante, sembra soffocare per un amore inappagato. La Bretagna è come un pericolo, ne vuoi stare lontano e in qualche modo ti attrae: ogni anno finivamo col tornarci. Anche a non ripercorrere le note strade, sapevamo che i luoghi erano lì. Quando spunta il sole, la Costa Azzurra non può competere più.

La Francia per me è soprattutto natura ed atmosfera. Lì ho scoperto il bosco. Gli alberi ci sono anche qui sull’Etna, ma sono alberi diversi, querce soprattutto, e poi pini e castagni, in un paesaggio aspro, macchiato di giallo in primavera dai cespugli di ginestra odorosa. Ma non hai il tempo di entrare in un bosco che ne sei subito uscito, talmente sono piccoli. In Francia invece ci sono chilometri e chilometri di bosco in pianura, forse residuo della foresta europea, alberi secolari che in alto congiungono le chiome; larghi viali intersecati da strade più piccole altrettanto alberate col fondo morbido d’erba e di terra. Un mondo primordiale ed incantato. Fantascienza verde nel cielo e nell’aria. A volte abbiamo fatto delle deviazioni durante i viaggi per riattraversare le zone boschive che percorrevamo in silenzio, a bassa velocità, quasi fosse un rito che volevamo durasse a lungo. Dopo venti o trenta chilometri non eravamo ancora sazi.

Quanto all’arte, i francesi non mi perdonerebbero se mi sentissero sottolineare che non c’è granché, a parte il Louvre e il meraviglioso Musée d’Orsay, Chârtres e le Cattedrali gotiche. Un amico romano che fa la guida turistica per clienti stranieri e danarosi, mi racconta che i francesi sono gli unici che, davanti ai tesori d’arte italiana, commentano “sì, bello, mais nous aussi …” (ma anche noi…) come se l’Arc de Triomphe potesse competere col Battistero di Pisa o il Canal Grande. Vorrebbero essere i primi anche nell’arte.

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Gli Impressionisti comunque li incontri in ogni ragazza con una gonna chiara, in ogni chiazza di luce sul terreno, nel cielo grigiazzurro. E la cultura francese è stata la cultura guida dell’Europa, dai grandi dell’Ottocento fino a Camus e Sartre, autori questi ultimi che il tempo ha in parte dimenticato. Ma, ancora oggi, se se dice “L’enfer c’est les autres”, si dice qualcosa che è rimasto nelle menti. E poi il cibo e le canzoni. Grande cucina, anche quando è umile – le crêpe, per esempio – grandi vini, grandissimo cognac (anche il Calvados), grandissime canzoni. E non penso solo a “quei due” (Brel e Brassens), ma anche a Edith Piaf e ad Aznavour. Alla grandissima Patachou, mentore di Brassens. Una parigina all’occasione “canaille”, popolare, ma monumento alla libertà femminile. Ascoltare “La bague à Jules” è un’esperienza che ci dà la misura della distanza tra la cultura francese di quel periodo e l’Italia provinciale e bigotta che cantava a Sanremo “Non ho l’età”. I film di Jacques Tati, capolavori in cui l’umorismo si mescola alla poesia.

Ho incontrato parecchie persone, in Francia, ma con nessuno ho instaurato un rapporto stretto. Molta gente umile, anche anziani che ci dicevano: “Mi piacerebbe se ci vedessimo qui l’anno prossimo”. E adesso a ripensarci mi vengono le lacrime agli occhi perché avrei potuto abbracciarli – come avrei voluto fare allora ricordando di avere avuto una madre – ma non l’ho fatto, per pudore, per discrezione.

Ho vissuto questo Paese dall’interno attraverso mio marito, alle sue amicizie risalenti al suo primo matrimonio e soprattutto alla sua spettacolare conoscenza della letteratura e della lingua fino all’argot e alle saporitissime espressioni idiomatiche.

Ho incontrato solo francesi gentili, a parte la megera di Menton, ma ho  percepito nei più anziani un sottile disprezzo nei confronti degli italiani, forse per i tristi ricordi della Seconda Guerra Mondiale. E in tutti un’ingiustificata, sbrigativa e avvilente adesione agli stereotipi del tipo “mafia”, “pasta” e “pizza”.

Ma tout compte fait della Francia io ricordo solo l’erba e le canzoni.

EDITH PIAF

CHARLES TRENET

JULIETTE GRECO

CHARLES AZNAVOUR

Anna Murabito

alimarbit@yahoo.com 

FRANCIAultima modifica: 2021-01-01T17:30:07+01:00da helvalida
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15 pensieri su “FRANCIA

  1. E’ proprio vero, Gianni, il testo incanta ma non c’era dubbio con Alida che sa adoperare le parole con maestria e magia.

  2. Alida, grazie per raccontarci della Francia che tu ami. Una Francia incantevole, prevalentemente bucolica e georgica, dove ci si aspetterebbe di incontrare Jean de Florette alla ricerca della sorgente. Un panorama di campi e villaggi fermi nel tempo, dove non cambia mai nulla, e in cui si sarebbe lieti di poter passare l’intera esistenza.

    Vedo che non hai molto interesse per la Francia monumentale, le cattedrali gotiche, gli chateaux, gli immensi boulevards di Parigi. A questi preferisci i paesini, i boschi, i prati, il sole sulle spighe a perdita d’occhio.

    E sembra che gli stessi frances oggi la pensino come te. Leggevo ultimamente su una pubblicazione di Bouygues Immobilier:

    “Les villes ne semblent plus avoir le même appétit que jusque dans la seconde moitié du vingtième siècle. La population mondiale semblait jusqu’alors s’être donné le mot : « Allons tous en ville, où le travail se trouve à foison ! ». L’exode rural battait son plein et les campagnes étaient peu à peu désertées de leurs habitants. Mais aujourd’hui et depuis plusieurs décennies, c’est un processus tout à fait inverse qui est observé sur le territoire français. Ce sont en effet les campagnes et les communes rurales qui s’accaparent désormais d’une partie de la population, aux dépens des métropoles qui ont perdu de leur attractivité d’autrefois.”

    Si torna alla campagna, dunque! Il mito della citta’ sta scomparendo. Affascinante.

    Comunque, ho una piccola correzione da fare a proposito della tua descrizione della Costa Azzurra. Quale abitante (stagionale) di Cannes, devo dissentire sulla frase “….a Cannes c’e’ un semaforo ogni cinquanta metri”.
    Su tutta la lunghezza della Croisette, 2 km esatti dal Palais des Festivals alla Pointe Croisette, ci sono solo tre semafori.

  3. Un grande commento, quello di Nicola. Grazie.
    Quanto alle cattedrali gotiche, faccio un piccolo spazio ad altri ricordi.
    “Un’ultima impennata della nostra follia itinerante ci portò a Chârtres, dove ci sentimmo polvere di fronte a una bellezza che ci sovrastava e ci schiacciava. Vinti di fronte alla nostra esistenza di uomini “ingannati”, come diceva Valerio, da un simile splendore per essere poi condannati all’eterno buio dell’insignificanza e del niente. Non riuscivamo ad uscire dalla Cattedrale, facevamo sempre l’ultimo giro, e l’indomani mattina, dopo avere smontato la tenda, ci tornammo prestissimo, con un freddo che entrava nelle ossa, a percorrere le sue navate in silenzio, in un atto di terribile devozione laica alla bellezza, al dolore e alla morte.”

  4. Bellissima descrizione della catterdale di Chartres. Napoleone, nel vederla, commento’ che “Chartres non e’ un posto per un ateo”.

    Avendo tu nominato Charles Trenet, volevo richiedere, a te o a Gianni, una piccola spiegazione. Prova ad ascoltare Douce France:

    https://www.youtube.com/watch?v=6EbBbezVtUQ

    Quello che non capisco e’ la sua pronuncia.
    Invece di cantare (cerco di scriverlo in italiano) “Dus frans”, lui canta “dus fran-se”
    Invece di “scer pei’ d mon anfans”, lui fa “scer pei’ d mon anfan-se “.

    “Ui je t’e-me et je te donn se poe-me”

    Insomma, la “e” finale e’ marcata, invece di essere muta.

    E’ un suo vezzo? O forse il francese 80 anni fa si pronunciava diversamente? Non ci posso credere.

    • Caro Nicola, Trenet non l’ho solo nominato, se ci clicchi sopra, canta (ah,ah). Domani aggiungerò un altro paio di canzoni.
      Le “e” cui tu alludi non sono mute, ma semimute. Muta è, per esempio, la “e” di “une rue”. Ma domani Gianni ti darà notizie più esaurienti: è lui il tecnico della lingua.

  5. Richiamare alla memoria momenti felici, luoghi magici, situazioni fascinose è un nutrimento unico per l’anima. La lontananza nel tempo poi colora tutto di poesia, del senso struggente che hanno le cose tramontate. Questi minuziosi ricordi della Murabito sono pieni di stimoli, ricchi di immagini e di sensazioni. Penso al piacere che le hanno procurato nel richiamarli alla mente e metterli da par suo sulla carta. Trenta volte in Francia, nella Francia di Simenon, dell’immenso Tati e non in quella dei boulevard parigini senza anima. Affresco del piccolo borghese, affettuoso, genuino, caldo. Così come le straordinarie foto a corredo, che sono di una eleganza unica. E perfino le canzoni (grande quella di Aznavour) contribuiscono a riportare alla vita un mondo, un dolce periodo vissuto con l’entusiasmo dell’amante.

    • I ricordi della Francia non sono ricordi esotici o di avventure. Sono vita, vissuta con la consapevolezza di appartenere ad una civiltà comune, colta e rassicurante al tempo stesso. Fanno costantemente parte di me. Comunque è vero che è stato un piacere rievocarli. Grazie a Giuseppe.

  6. Carissima Alida, ho finalmente capito ciò che ha creato in me l’idea di una Parigi languida e melodiosa, ed è stato riascoltando la voce di Juliette Greco.
    I segni del suo canto erano sepolti sotto un miscuglio di oscure sensazioni, ma non erano scomparsi del tutto.
    E’ bastato risentire il gutturale delle sue note e il mesto del suo timbro perché il nascosto, gelosamente nascosto di antichi giorni di estate sia riemerso in una dolcissima sensazione di compiuto.
    Una Parigi dolce, una identificazione di questa Parigi con l’amore e una identificazione dell’amore con la voce di Juliette. Il cerchio si è formato e si è fermato. Perfetto e ordinato, il ricordo è diventato presente e ha creato la gioia. Questa voce sensuale e sfinita ha operato il miracolo: il passato vissuto al presente.
    Questa voce ha cantato un’intesa, ha spezzato la modesta sensazione che tutto il bello della vita fosse delegato ormai ai ricordi, ha affermato la supremazia dei sensi aperti ancora e intensamente a questi nuovi brividi di sicurezza, avvincenti e coinvolgenti.

    E’ stato bello sentire così, quasi un’intensa comunione con quella voce. Un sentirsi abbracciata dalle note, delle braccia intorno al cuore a suscitare un nuovo richiamo alla vita. Stasera ho la vita, la possiedo e la stringo. Non ho più nostalgia del passato.
    Solo attesa e speranza.
    Grazie, Juliette. Grazie, Alida.
    Santuzza

    • Per un mio amico la Francia è solo Parigi, anzi il nome di una strada, anzi il volto e il corpo di una ragazza che abitava in quella strada. Per un’altra amica “il cerchio si chiude” con la voce di Juliette Gréco. Il tempo trascorso rivive attraverso la suggestione della parola e della musica.
      La verità è che le emozioni del passato sono la sostanza della nostra anima e le ritroviamo ripescandole con l’amo di un ricordo improvviso.

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