Musica di Gustav Mahler: “Poco Adagio” dalla Sinfonia n.4
Musica di Eric Satie: “Gnossiennes n.1”
IMMAGINI DI MAURICE UTRILLO
Parlando di Maurice Utrillo (1883 – 1955) non si può non pensare all’altro grande “insano” della pittura, così noto che molti lo chiamano solo Vincent, indossano le magliette con il suo nome, conoscono episodi drammatici della sua vita.
Però Van Gogh ci porta a forza nel ferro e nel fuoco della sua mente; Utrillo invece dipinge “per intervalla insaniae”, e i suoi quadri sono parentesi, stazioni, bolle di tregua e di silenzio nel suo stridente divenire.
Alcolizzato fin dall’infanzia, figlio di un’alcolizzata, epilettico, bipolare, paranoico, conobbe ancora ragazzo i manicomi. Pare che la nonna lo avesse reso avvezzo all’alcol fin da bambino. Successivamente la madre, Suzanne Valadon, modella e pittrice di successo, gli insegnò a dipingere nel tentativo di fornirgli un’alternativa al vino. Di fatto la pittura divenne la sua unica alternativa, la sua intermittente terapia, la sua droga benefica. E l’espressione di una poesia intima, in cui il dolore si intravede appena, senza essere mai gridato.
Quanto a gridare, Maurice faceva anche di più: quando non dipingeva e non beveva, nei suoi accessi di furia scaraventava in strada ogni oggetto che trovava. Nella sua stanza la finestra conserva una rete metallica a maglie strette, per salvaguardare gli accidentali passanti, e solide sbarre per impedire che Maurice scaraventasse giù anche sé stesso.
Parigi è la sua casa, il rifugio della sua anima in pena. Vi si muove con sicurezza ripercorrendo sempre gli stessi luoghi, come chi ritrovi i ricordi vagheggiati di un’infanzia felice: Montmartre, il Moulin de la Galette, la casa di Mimi Pinson. Il suo respiro si placa nelle strade deserte, nelle piazze quiete, nella consonanza con gli alberi scheletrici o stilizzati. Le facciate delle case sono statiche, fondali di scena di uno spettacolo che non ci sarà.
Mai quadretti, mai idillio, mai kitsch. I suoi dipinti non sono neanche sogno: sono soprattutto fiato sospeso. La lentezza sembra materializzarsi e salire dal terreno come nebbia, nell’assenza di vento, nell’assenza di conflitti; gli altri non ci sono, o sono ridotti a sagome, figurine di carta senza volto né spessore, spesso inquadrate di spalle, in una solitudine composta e simbolica. Possono essere spazzate via con un soffio o con un gesto della mano, come quando si allontanano dal foglio i residui della gomma da cancellare. Piccoli, inoffensivi abbozzi di umanità, lontana dalle dissonanze del delirio.
Solitudine, silenzio, immobilità, interpretati ed esaltati dalle tinte mai violente: tutte le sfumature del bianco e dell’ambra, grigio, violetto, verde salvia, qualche tocco di rosso bruno. Nella pittura Utrillo abbandona i colori primari del suo tormento. Riesce a creare un lirismo sommesso e disperato in cui si coniugano la sua anima di fanciullo in cerca di protezione e la pena di un uomo che sa di usare i pennelli come morfina.
Anna Murabito alimarbit@yahoo.com
Giancarlo Alù espone il suo punto di vista in una lettera che pubblico molto volentieri. A.M.
So solamente che le fil rouge che separa l’artista persona dalla persona matta che fa l’artista è molto esile. I matti non possono essere artisti perché non posseggono tutte quelle facoltà morali, di esperienza umana, razionale appunto, che permette loro di esprimersi come vorrebbero, forse.
Il fatto che Utrillo trovava la pace dipingendo solo paesaggi silenziosi, senza persone ecc, era un suo personalissimo problema.
Avrebbe potuto fare dei circoletti e si sarebbe sentito in pace. Allora parliamo di terapia non di espressione artistica.
Lo stesso Kandinsky con i suoi ghirigori e tele di ragno intendeva dare un messaggio non avere un orgasmo solitario.
L’artista deve, ripeto “deve” creare, spinto da un bisogno di condividere la sua energia che è un riflesso del suo essere esistenziale.
Quando stai al telefono e parli con qualcuno, se hai una penna e un pezzo di carta fai dei ghirigori, o meglio scarabocchi. Quella non è arte, è una sollecitazione di una parte del cervello che automaticamente ti fa agire in quel modo.
Io lo faccio spesso, al telefono. A distanza di tempo io rivedo quei disegni, immediatamente e lucidamente ricordo con chi parlavo, quando ho fatto quello scarabocchio e di che cosa abbiamo parlato.
Perché non sentivo nessun bisogno di condividere emozioni o quant’altro con nessuno. Non facevo l’artista e quelle non erano opere d’arte ma prodotto di una parte del cervello che mi guidava a fare disegnetti senza che io ne fossi stato …avvisato.
Un matto totale drogatissimo a 20 anni fu schiavizzato da un gallerista che aveva intuito il fatto che i suoi disegni totalmente alieni erano interessanti dal punto di vista estetico secondo una moda alternativa e trasgressiva del momento. Lo teneva chiuso in una stanza e lo faceva dipingere pagandolo con coca, eroina, crack ecc. Non creava arte, ma era una macchina che industrialmente procurava opere che si vendevano a suon di milioni di dollari. Parlo di Jean Michel Basquiat, morto a 28 anni, ricchissimo, drogatissimo, pazzo totale. Ma quella non è arte, è qualcosa che qualcuno che gridava più forte degli altri aveva deciso che fosse arte. E qui subentra l’abilità di convincimento tramite una capacità di espressione, la maniera di porsi, il linguaggio del corpo … E questo matto vendeva da matti. Il terribile rischio è che il nome dell’artista deve essere ricordato costantemente altrimenti cade nel dimenticatoio e uno che aveva pagato milioni per un suo quadro, si ritrova con tanti stracci.
Questa è la problematica dell’arte contemporanea: un quadro di Picasso, in vendita in un mercatino di periferia insieme a tanta paccottiglia, nessuno te lo compra, anche se fosse firmato. Ma lo stesso esposto in una importante galleria con battage pubblicitario notevole, mass media giusti e guidati, allora si vende subito a milioni di euro, e i clienti sono banche, miliardari che devono essere a la page ecc. E qui l’arte diventa un oggetto commerciale e di scambio, quello che si dice un assegno circolare. Ed è quello la vera arte.
La pittura può rappresentare una forma di terapia per chi se ne vuole servire, ma questa terapia non è determinante dal punto di vista artistico né in positivo né in negativo.
Un artista si giudica dai risultati e non importa come è arrivato a conseguirli.
Per quanto riguarda Utrillo, la critica è unanime nel giudicarlo un grande pittore. Non importa che fosse “matto” o sano di mente, la sua opera è coerente ed espressiva sul piano artistico ed è ciò che conta.
Giancarlo sostiene che l’arte deve essere consapevole, altrimenti non è arte. Questo mi pare indubbio per la letteratura. Ma per la pittura? C’è addirittura un naïf “eccellente”, Henri Rousseau.
La Murabito, straordinaria poetessa, ci presenta una sua visione del pittore Utrillo, francese dal nome spagnolo per accidenti di vita e, come Van Gogh, cliente di manicomi. E lo fa usando la sua prosa perfetta, cristallina che svela significati ed emozioni ovunque si trovino. Ed ha trovato molto nelle pitture del povero Utrillo. Chi non lo conosce per altre vie, con questa presentazione lo conoscerà intimamente, conoscerà il suo diffuso “lirismo sommesso e disperato”. Le pitture collegate, frutto poetico espresso “per intervalla insaniae”, confermano le intuizioni rigorose della Murabito: “ i suoi quadri sono parentesi, stazioni, bolle di tregua e di silenzio nel suo stridente divenire”, sono raffigurazioni come “fiato sospeso” e “fondali di scena di uno spettacolo che non ci sarà”. Si può scoprire meglio che con la prosa poetica della Murabito l’anima dell’infelice, la “sua anima di fanciullo in cerca di protezione e la pena di un uomo che sa di usare i pennelli come morfina”?. Attraverso la sua lente i quadri ci parlano con suoni comprensibili e definitivi.
Non riesco mai a ringraziare Giuseppe adeguatamente.
Il commento di oggi è approfondito, sensibile ed esteticamente pregevole. Oltre che lusinghiero.
Il massimo cui si possa aspirare.
C’è molto della vita di Utrillo nei suoi quadri, c’è la solitudine, l’abbandono, il vuoto e aver sposato i suoi quadri con il Poco adagio di Mahler è stato un connubio perfetto. Nelle note, emozionanti e passionali, si avvertono ricordi amari, disagio interiore.
Ivana rivela come al solito sensibilità, capacità di penetrazione e di sintonia. Tra le mie amiche è l’ultima in ordine di tempo, non per importanza.
Le note sublimi della musica penetrano nell’anima e sono in perfetta sintonia con i dipinti di Utrillo. Essi invitano alla tranquillità e alla pace.Infatti rappresentano paesi quasi disabitati e la solitudine regna sovrana. Gli uomini sembrano un accessorio. Il video, di notevole pregio e bellezza , risulta completo anche per le notizie sulla vita del pittore.
Cara Alida,
finalmente, in mezzo ai miei numerosi “imbarazzi” ho trovato (ho “voluto” trovare) il tempo per gustarmi il tuo Utrillo e dintorni, come musicali, commenti, suggerimenti et coetera. Sono rimasto (nuovamente) colpito dalla tua poliedricità, che ti permette di avventurarti in “campagne” culturali davvero estremamente complesse e dalle quali esci vittoriosa, no no, trionfante! Brava, accidenti, brava davvero! Adesso capisco come Gianni abbia una alimentazione non da poco nella tua vicinanza.
Ora dico la mia su Utrillo e quanto è stato espresso dai vari commentatori del tuo blog. Per me i giudizi relativi alle operare d’arte tipiche (pittura, scultura e, perché no (un pò di) architettura vanno valutate soltanto con il mio metro, e non ho paura della mia perentorietà: quello storico. Per qualsiasi opera attuale io immagino di essere non più nel 2021, ma nel 3021, nel 4021, e via, avanzando
senza posa,…
Perché faccio questo? Perché delle grandi realizzazioni artistiche arrivate fino a me dal passato non mi interessa nulla conoscere il nome dell’artista, la sua storia, le sue tendenze. In una parola, il suo contesto: o la sua opera “parla” ( e nient’altro mi interessa) oppure NON parla, e tutto il resto è frastuono, ridondanza, chiacchiera, che mi arrivano dal passato, e non mi dicono nulla.
Mi fermo perché non riesco a capire se scrivo oppure no…mi dispiace, ma la pagina web mi sta tradendo, e mi fermo.
Caro Tamà, sono perfettamente d’accordo con te.
Tutto ciò cui tu accenni è qualcosa che chiamerei “filologia dell’arte”, ma che ben poco dice o dimostra riguardo al valore estetico dell’opera stessa. Può rispondere a qualche curiosità, fornire qualche spiegazione, ma l’essenziale rimane, puramente e semplicemente, “mi piace”, “non mi piace”; “è arte”, “non è arte” o, come avrebbe detto Benedetto Croce, che non amo, “è poesia”, “non è poesia”.
Grazie. Sono toccata dalle parole gentili che mi hai rivolto.