GRECIA

GRECIA

di Anna Murabito

4978790536_882114b1cc_b

La Grecia appartiene al passato. Anche al mio, oltre che a quello storico.

È stata il mio primo amore a scuola. Il mio primo contatto con l’estero. La meta di due viaggi da adulta. Sono sicura che non ci tornerò più, anche perché non lo desidero.

Il primo assaggio di Grecia fu un’avventura giovanile. Un viaggio immaturo e sghembo, disagiato, disorganizzato nonostante il nome. Concluso con un rientro drammatico sul traghetto di linea che vorticava sulle onde di un mare nove. Il vomito ovunque, i passeggeri che uscivano dalle cabine come topi spaventati in cerca di una via di fuga. Anch’io vomitai tutta la notte. Dopo quel rientro mia madre mi guardò perplessa: ero pallida e dimagrita di tre chili in dieci giorni. Ma l’odore del grasso di montone mi aveva inseguita ovunque, disgustandomi. Non mangio formaggio e non avevo nessuna delle malizie del turista capace di difendersi. Tanto meno un po’ di denaro. Insomma la Grecia, come la conobbi allora, mi sembrò un posto infrequentabile.

La primitiva capanna del villaggio turistico, altezzosamente chiamata “bungalow”, era un posto da Cayenna, piccola e soffocante, i lettini minuscoli, con 47°all’ombra ci ospitava in tre. Una notte che io e le mie due amiche rischiavamo l’asfissia ci recammo in spiaggia. Alle due del mattino facemmo il bagno e pensammo che il caldo ci avesse stravolto la mente: nuotavamo nelle stelle e allora non conoscevo Chagall. Questo non l’ho dimenticato. È stato il più bel bagno della mia vita. L’unico episodio in cui la scienza mi ha dato la misura della bellezza: so esattamente cosa significa la parola “plancton”.

Pensavo che non sarei più tornata in Grecia. Invece ci sono tornata altre due volte: il numero magico. Due viaggi entrambi in automobile, entrambi con Marzio. Abbiamo ritardato il primo, perché lui non si sentiva abbastanza preparato per andare in Grecia. Così abbiamo fatto con il Giappone: aspettando la sua “preparazione”, alla fine non ci siamo andati.

La Grecia oggi mi appare come un coacervo di sentimenti, non tutti positivi. Tra quelli negativi, di superficie, le  insopportabili nenie che accompagnano l’incolpevole turista per tutto il tragitto sul traghetto, nei supermercati e nei negozi d’altro genere, diffuse dalle radio nazionali e locali. Gli stucchevoli dolci pesanti e scivolosi, appiccicati di un miele che naviga nel vassoio e rischia di trasudare. Un vino ignobile, la Retsina, spacciato per specialità. Una parlata sgradevole, puntuta, irta di consonanti. Indecifrabile.

Si pensa di essere avvantaggiati per avere studiato il greco antico e ci si ritrova a non riuscire a leggere, se non sillabando, parole che al liceo leggevamo in versi. Gli accenti spostati rispetto alla pronuncia che pensavamo di conoscere.

Scheletri di edifici incompiuti si ergono come mostruosi totem a due passi dal mare di Omero. Le città del mito, Sparta, Argo, Tebe, non più che villaggi, un cumulo di edifici addossati l’uno all’altro in stile palazzine abusive e periferiche anni ‘60. Con le facciate lasciate grezze per risparmiare. Ce ne sono anche nell’Italia del Sud ma lì, in Grecia, senza un centro storico, senza un polmone di nobiltà, quelle cittadine dal nome sacro appaiono profanate dal tempo, dall’incuria, dalla bruttezza.

In compenso la sorpresa di Tessalonica bianca e bellissima, ariosa e marina, con le sue magnifiche piazze a terrazze degradanti. E poi la chiarezza che, viaggiando in automobile, comincia a farsi sulla natura del territorio: i frutteti dell’Arcadia e i monti dell’Epiro non sono più pura astrazione, dimenticati com’erano in un’unica piattezza da cartina, quando c’era. E così anche l’Attica, la Beozia, la Tessaglia, la Messenia, l’Argolide …  Ma, nonostante le sorprese positive e ancor prima di parlare d’arte, ci si accorge di essersi sbagliati sulla Grecia: ci si aspettava un Paese come l’Italia, come la Francia, e invece ci viene proposto un Paese più povero, periferico e in una qualche misura “straniero”.

Del primo viaggio in automobile ricordo la frutta, rubata al Paradiso Terrestre, e i piccoli negozi alimentari: ci si fermava ovunque, per strada, si mangiava con niente. Una semplicità che aveva il sapore dell’ambiente familiare. Del secondo, già con l’euro, l’abbassamento spietato del livello della merce, cattiva e omologata, e i prezzi alle stelle ovunque: venivano chiesti esosi pedaggi anche sulle autostrade in costruzione, interrompendo il traffico continuamente. La gente era divenuta meno gentile. “Si sono montati la testa, questi Greci!”, pensavamo. Le Olimpiadi erano imminenti e le sovvenzioni statali ed europee avevano incoraggiato le spese e i guadagni. 

Comunque la commozione di respirare l’aria degli eroi ci ha sempre compensato dell’indifferenza degli abitanti locali. Qualche parola con un negoziante o un vecchio seduto davanti la porta di casa è stato tutto il dialogo ipotizzabile. Il massimo della cordialità in un’espressione: “Italiani, stessa faccia, stessa razza”. Una piccola recita obbligata e senza voli di alcun genere, meno che mai pindarici.

In Grecia, come in Bretagna, ho conosciuto la Sindrome di Stendhal. Il disorientamento e la nausea quasi fisica che dà il non potere inghiottire tanta emozione estetica. Il cervello dice basta: se sei in automobile si inverte la direzione di marcia e al ritorno si cerca di parlare d’altro costringendosi a non guardare il paesaggio. Un dolce veleno s’insinua nelle vene e conferisce una sorta di tristezza e di gravità, come in qualcuno che avesse affrontato una prova troppo dura e avesse fallito alla fine. Le tre dita della Penisola Calcidica artigliano la mente in un ricordo di insopportabile bellezza, anche ad anni di distanza.

halkidiki_exotic_beaches

Erimitis bay, Paxos, Greece

Chilometri di costa disegnano il mare: spiagge sabbiose, rocciose, nude, alberate. Istmi, promontori, nascondigli ritagliati in uno splendore mai visto di acquamarina. Le molte foto risultano inadeguate. E se il mare dà la sindrome di Stendhal, la vera scoperta è rappresentata dai boschi. Sì, certo, si legge che la natura montuosa del territorio determinava l’isolamento dei centri abitati tanto da favorire il sorgere delle Città Stato e altri bla bla; sappiamo quanto vite sono costate le montagne ardue e innevate dell’Ellade ai soldati della Seconda Guerra Mondiale: ma una cosa sono le notizie lette sui libri, una cosa sono nove, dieci ore di tornanti,  in direzione est ovest, in Tessaglia, senza autostrade. Forse solo la forza economica di Paesi come gli Stati Uniti – comparabile a quella di Ercole – saprebbe costruire autostrade in quei territori.

I boschi regnano su quei monti. Pini, abeti, felci, cespugli di ginestra odorosa. Ovunque freddo e bruma e profumi. Ogni tanto, scendendo un po’ di quota, s’incontrava qualche paesino scontroso, si passava con l’automobile a trenta centimetri da abitanti seduti su sedie di legno e paglia davanti le abitazioni a un piano. Sembravano stare lì da sempre e potevano appartenere a qualunque etnia: mongoli? cileni? peruviani? con i volti asciugati dal vento.

Spesso si aprivano verso l’interno piccoli cortili e non mancava la pergola, carica d’uva. Ma questo ci ricordava che eravamo proprio in Grecia. La pergola si vede anche in città, in spazi esigui ed aridi, insieme ai più prosaici pannelli solari e fotovoltaici.

Duravano poco i villaggi. Presto il deserto dei monti, che inquieta al tramonto, prendeva di nuovo il sopravvento. È su quei monti coperti di nebbia e di profumo, con i pini succosi, densi di resina, che oggi piango, pensando ai roghi infelici che devastano la vita. Sul paesaggio che, anche se non tornerò più in Grecia, non sarà più come prima.

Un giorno, morti di freddo pur con il pullover e la giacca a vento, raggiungemmo un uomo col corpo magro e il coraggio da ciclista che andava in bicicletta nella nostra stessa direzione. Noi eravamo stanchi di salite fatte in macchina e lui pedalava. Diretto dove? Pensai che fosse lo sportivo che si allena in un tratto impervio e poi torna indietro. Invece ad ogni tornante lo vedevamo sotto di noi. Decidemmo di aspettarlo per chiedergli se avesse bisogno di qualcosa. “Gli do uno dei tuoi maglioni, magari il più vecchio”, dissi a Marzio, convinta che se avessimo abbandonato il ciclista non lo avremmo più rivisto. Gli chiesi dove era diretto e quando ce lo disse pensai che fosse pazzo e che sarebbe morto durante il tragitto. Andava al nostro campeggio, che però distava duecento chilometri. Rifiutò il pullover. Disse che lo avrebbe fatto sudare. Cercai di dimenticarlo durante il viaggio.

Arrivò verso sera, parecchie ore dopo di noi, incredibilmente. “The hardest day of cycling I ever had”, “la più dura giornata in bicicletta che abbia mai vissuto”. Era partito dalla Tailandia, ma l’Epiro era il peggio del peggio. Indossava la stessa maglietta grigia e stinta che non gli copriva l’ombelico. Pensavo che sarebbe stata il suo sudario.

Si lavò rapidamente alle docce e indossò una maglietta quasi identica alla prima. Tirò fuori una gavetta che sembrava di stagno e la riempì a metà di cereali. Bevve un paio di sorsi di aranciata e fu tutto. Era un inglese, e faceva il giro del mondo in bicicletta. Per un certo tempo la moglie lo aveva seguito (in bicicletta). Poi, a Istanbul, lo aveva abbandonato ed era tornata in Inghilterra. Il buon senso delle donne. Lui stava continuando da solo. “E le è piaciuta Istanbul?” gli chiesi. Non l’aveva vista. Per lui era stato importante arrivarci. Pensai che solo un inglese poteva fare una cosa del genere. Capaci di conquistare un Impero, ma anche di imprevedibili bizzarrie. Imprese tanto eroiche quanto futili.

Parlare d’arte è inevitabile. Se non lo facessi, mi sentirei come quegli svizzeri che una volta abbiamo incontrato a Paestum. Era un pomeriggio estivo e loro, all’ombra dei grandi alberi del campeggio, prendevano il fresco. “E avete visto i Templi?”, gli chiesi. Una di quelle domandi seriali che si fanno quando si vogliono fare quattro chiacchiere disimpegnate. Ma fu indimenticabile la risposta: “Templi? Cosa sono? Noi abbiamo visto la spiaggia, laggiù. Siamo qui per il mare. Bei bagni”.

Della Grecia non posso limitarmi a dire: bei bagni. Rischierei di contraddirmi avendo riferito che Marzio aveva voluto prepararsi prima di vedere un simile Paese. Guardare il mare e sentire il profumo dei boschi non basta.

Le rovine di Micene mi hanno colpita con una valanga di ricordi,  come se avessi ritrovato la casa dell’infanzia e i miei fratelli tutti eroi, buoni e cattivi. Ho rivissuto la Guerra di Troia e il mio amore per Ettore, perdente nonostante il suo valore, perché così avevano voluto gli dei. La mattina, svegliandomi all’alba in tenda, il canto di mille uccelli e il verso di animali sconosciuti mi inquietarono e mi spaesarono. Sembrava di essere nella giungla e il Ventesimo Secolo era lontano.

Atene non è la più bella capitale del mondo però, dopo il tramonto, quando le vampate di calore si fanno più rade, vista dal monte Imetto ha una sua solennità di città pietrosa e bianca, orientale. Il crepuscolo stenta a morire con tutto quel chiarore. Le prime luci si accendono lentamente, quando l’ombra ha già guadagnato terreno. Allora le cascate di buganvillee rosse e viola diventano masse scure, indistinte, che pure conservano un cuore di fiamma.

Una sera nel quartiere della Plaka invaso dai turisti, vestita anch’io da estate a maggio, mi chiedevo perché fossi venuta in Grecia. L’ambiente era quello solito: odori di cibo si mescolavano con i profumi delle signore, un sirtaki di maniera si lamentava nell’aria, splendore di luci e di denti, uomini tutti in camicia bianca, confusa uniformità d’intenti. A parte la caratterizzazione locale, posti così ce ne sono ovunque nel mondo. Marzio era silenzioso e un po’ annoiato, non gli piace “flâner”, gli sembra tempo perduto. Invece a me piace sentire il mondo scorrermi vicino, respirare la superficie della vita, pensare a tutte le facce che non vedrò mai più e che non ho visto neanche guardandole un istante, pensare al mio viso che sarà in chissà quante foto in ogni parte del mondo, nella sua giusta dimensione di totale insignificanza.

“Questi sono turisti”, pensavo. “Non ho incontrato per strada nessun uomo, nessuna donna che abbia catturato la mia attenzione”.

Me lo chiedo ancora, come siano i Greci. Quelli di Omero erano piccoli e nodosi, con la barba e un bel temperamento litigioso. La loro vita era governata dai principi sacri, dai ruoli sociali, non avevano dubbi esistenziali. Degli schiavi e dei servi era lodata la fedeltà, e conosciamo il nome di un cane solo perché era il cane di Ulisse.

E tuttavia le loro vicende continuano a vivere nella storia del pensiero, della scienza, della letteratura. E come sono oggi? Cosa pensano?  L’ultimo greco di cui ho avuto notizia è Alekos Panagulis, perché ne ha parlato Oriana Fallaci. E prima ho conosciuto Costa-Gavras, un grande regista, ma è poco. Se non ci fossero stati Paride, Antigone, Edipo, Aristotile, sarei stata forse attirata dalla terra di un altro Aristotile, un magnate che ci ha regalato amori da rotocalco e annosi pettegolezzi?

trasferimento (1)

Nelle bancarelle si vendono poveri crateri e anforelle che sembrano quelle della casa di Barbie, la solita paccottiglia per turisti, è vero, anche a Roma prosperano i “gladiatori”. Ma in Grecia dispiace: si ha la netta impressione che l’uomo odierno non si senta all’altezza del suo passato e cerchi copie, inevitabilmente volgari, di un’arte immensa, misteriosa e non riproducibile. Il passato è una gloria ma anche un peso. Frustra le ambizioni del presente, se ce ne sono. Ma forse non ce ne sono. Pare che la bellezza sia scomparsa dall’orizzonte intellettuale e sensoriale di tutti, sostituita da moduli incerti, moltiplicati e disgregati. Fino alla brutale omologazione del cellulare.

Avevo compiuto il  mio pellegrinaggio in Grecia: in un certo senso una Via Crucis con stazioni dolorose e obbligate. Non si può non andare sull’Acropoli, per esempio. Ci si va magari alle sette del mattino, per non rischiare uno svenimento da caldo e, quando si è finito, intorno alle nove, si dice: “Bene, è fatta, ho tutta la giornata per riposarmi”. Una sensazione di dovere compiuto, non una grandissima emozione, perché il Tempio di Atena è bianco e freddo, mentre quelli di Agrigento, di Segesta, di Paestum sono di pietra color ocra. Al tramonto il colore s’intensifica e sembra accendersi.

Solo al Olimpia l’emozione era stata grande in ogni metro dello Stadio, e a Delfi la fatica del cammino a piedi, comparabile a quello degli antichi pellegrini, sembrava dovesse avere un compenso nell’oracolo del dio, di cui si indovinava la temibile presenza. Veniva voglia di abbassare la voce. I piedi dell’Auriga erano una vecchia conoscenza, appartenevano a un compagno con cui avevi giocato e sognato.

Ma quella sera, passeggiando con il mio abito lungo e disimpegnato di turista estiva, mi sentivo confusa e schiacciata da una Grecia che avevo conosciuto soprattutto sui libri. Una terra ardua, disarticolata e contorta. Sconfinata, perché attraversa tutte le strade della mente e del cuore. Se visiti il Teatro di Epidauro senti che la voce dalla platea arriva nitida fino alle più alte gradinate. Se hai capito la grandezza della Grecia, sei capace di sentire la voce più cupa e potente dell’Ananche regolare il destino degli uomini. L’Ananche, cui anche gli dei devono sottostare.

Ecco perché non ho più niente da cercare in Grecia e non ho desiderio di tornarci.

In un mondo che rifiuta la bellezza, mi piace ricordare le parole sacre di Alcmane, insuperabile poesia:

Dormono le cime dei monti
e le gole
i picchi e i dirupi
e le famiglie di animali, quanti
nutre la nera terra
e le fiere abitatrici di monti e la stirpe
delle api
e i mostri negli abissi
del mare purpureo
dormono le schiere degli uccelli
dalle larghe ali.

Anna Murabito       annamurabito2@gmail.com

GRECIAultima modifica: 2021-08-18T12:00:10+02:00da helvalida
Reposta per primo quest’articolo

3 pensieri su “GRECIA

  1. Conosco Alida Pardo, alias Anna Murabito (alias Saffo !), da un tempo (purtroppo) relativamente breve, poco piu’ di un anno, durante il quale ho avuto modo di ammirare le sue eccezionali qualita’ di poetessa e in genere di scrittrice.
    Adoro i suoi racconti di viaggi, o meglio, le sue impressioni di viaggiatrice. Ha il potere di trasportarti completamente in quel luogo da lei descritto, e alla fine ti sembra di esserci stato. E’ capace di farti partecipe, con le sue parole, della poesia di un bagno notturno in Grecia, della potenza della marea bretone, della miseria di un borscht annacquato in un ristorante russo per turisti.
    E la poesia, l’allegoria sono sempre presenti, pronti a ghermirti e renderti partecipe della sua sensazione del momento. I cieli nordici odorano di ferro bagnato, la musica di Mahler aleggia sui minareti di Istanbul.
    Non e’ un viaggio qualunque, quello in cui ti porta Alida. Qui non si tratta di visitare quello che “va visitato”, le chiese, i musei, i monumenti. Non ci sono le innumerevoli fotografie, i selfie da mandare agli amici. Qui si entra nell’anima del luogo, e si cerca di assaporarla, di sviscerarla, di assorbire cio’ che c’e’ di bello o di brutto in quel luogo.
    Sono sensazioni impagabili. O meglio, pressoche’ introvabili in qualsiasi altro resoconto di viaggi. Sono le sensazioni per le quali amiamo Alida.

    • Nicola, se fossi la scrittrice di cui parli, troverei le parole per rispondere al tuo commento. Invece lo leggo e lo rileggo, e rimango in silenzio, piena di gioia.

I commenti sono chiusi.