LE CASSINE

un racconto di Anna Murabito

Le cassine – non so in che altro modo chiamarle – erano schermi contro il sole, come gli avvolgibili che tutti conosciamo. Erano fatte di listerelle di legno, legate l’una all’altra col fil di ferro in modo da poterle arrotolare e srotolare. A pensarci, mi sembrano eleganti. Eppure non erano considerate eleganti. I ricchi avevano le persiane, tutti gli altri le cassine, indispensabili nell’estate del Sud. Io le ricordo belle e ordinate, tutte uguali, senza l’anarchia e la nudità volgare ed ostentata delle tende da sole. Spesso si mettevano oltre le ringhiere dei balconi, a proteggere le piante che amano l’ombra, come la piccola begonia coltivata nei vasi, con le sue foglie carnose color vinaccia e i fiori rosa.

I balconi erano umili e colorati, le piante erano veramente perenni, non si ammalavano ogni anno attaccate dalla cocciniglia, e i pelargoni splendevano nel mezzogiorno estivo. Non si conoscevano i gerani parigini ed altre piante “esotiche”. Non c’erano vivai, che io ricordi. Passava un uomo col carrettino e distribuiva l’arcobaleno per chi fosse disposto a comprarlo per poche lire. L’ultimo l’ho visto una decina di anni fa e avrei voluto vivere una scena cinematografica: “Me li dia tutti”. Non l’ho detto per una certa timidezza nei confronti dell’eccesso e soprattutto perché le tempeste di vento della mia casa, esposta prevalentemente al maestrale, mi hanno distrutto tutte le piante e rotto tutte le belle giare. Non volevo procurarmi altri dispiaceri.

Ora le piante grasse imponenti che hanno resistito sono tassellate ai muri e i vasi tenuti fermi con fil di ferro che le circonda come un brutale collare. Anche l’armadio di servizio è stato tassellato al muro perché è caduto due volte, come una bomba, con gli stracci e le scope che turbinavano indecorosamente nell’aria.

Non ho particolari ricordi legati alle cassine, se non le piccole gioie delle maniche corte, di una fetta d’anguria più bella a vedersi che a mangiarla, di un bicchiere di granita. E dell’odore del basilico che mi è sempre piaciuto; ma quello anche ora non mi manca. Allora le estati erano abbastanza miti, o così le ricordo. Si poteva combattere il caldo con l’acqua ritenuta fresca perché versata, la sera per l’indomani, dentro recipienti di terracotta che trasudavano umidità. Naturalmente eravamo tutti più poveri: c’era la radio; pubblicazioni come “Il canzoniere” per le parole delle canzoni del Festival di Sanremo; si andava a messa con il velo e comunque c’era un bel fresco nelle chiese. Era un buon motivo per andarci, almeno in estate.

I pregiudizi toglievano il respiro, quindi non c’è nessun motivo per rimpiangere quei tempi. Alcune volte, io e mia sorella, di otto anni più anziana di me, eravamo invitate a casa di una giovane donna – una “ragazza” si direbbe oggi, una “signorina”, si diceva allora – che viveva con la madre in un appartamento dall’altra parte della strada. Al primo piano: uno di quegli appartamenti dei Primi del Novecento dai soffitti alti con i balconi sulla via principale e le cassine ai balconi. Per noi che abitavamo a piano terra era come salire momentaneamente di rango. Era molto carina, la-signorina-non-ricordo-il-nome, Gina le potrebbe star bene, sorridente e con il rossetto rosso, i seni pronunciati messi in evidenza dal reggiseno a punta di allora. Accompagnata nel vicinato da una scia di ammiccamenti e parole a mezza bocca. Non sposata. Carina e non sposata. Vive con la madre. Di che vivono? Certo la madre deve essere stata … Peggio dei servi della gleba, peggio dei mestieri di Diocleziano: se la madre “era stata”, anche lei “era”. Cosa?, mi chiedevo.

Ci sedevamo senza dire niente, come allora ho visto fare spesso. Forse la signorina aveva bisogno di compagnia. Era gentile e mi offriva l’acqua col limone. Oggi nessuno oserebbe offrirla. Mia madre comunque mi aveva raccomandato: “Non accettare niente se la signorina – figuriamoci, signorina – ti offre qualcosa”. E io non capivo cosa c’entrasse il fatto di non essere sposati con l’accettare o rifiutare qualcosa. Dicevo di no all’acqua e limone. E mi sarebbe piaciuto dire di sì.

L’ho incontrata diverse volte, la signorina Gina, anche dopo essermi sposata. Andando a trovare i miei. Sempre gentile, la bellezza appena appannata, il rossetto, il seno meno a punta, le mode cambiano. Non so cosa ne è stato di lei, dopo la morte della madre. Ora nel suo bell’appartamento c’è una pizzeria a due piani. Le cassine sono scomparse in tutta la città: esposte alle intemperie, erano diventate anche brutte, come le zanzariere fatte a brandelli dal vento e dall’incuria. Anche le sue sono state sostituite da una tenda da sole che nasconde in parte una volgare insegna. Le piante sono andate perdute.

Non sapremo mai se dietro le cassine della signorina Gina si svolgesse qualcosa di losco o almeno di misterioso. Ma quale mistero, poi? un po’ d’amore? un po’ di sesso? A volte emergono ricordi così, agrodolci, poveri e morbosi. Sembrano suggerire chissà quali riflessioni pirandelliane ma sono un niente nel confuso galleggiare del tempo. Apparizioni. Come quando le luci psichedeliche immobilizzano per un istante un fotogramma.

Una volta per ringraziarla dell’amabilità le portati un fiore di stagnola. Qualcuno aveva portato un fiore così a mia madre procurandole un sorriso e allora avevo voluto imparare a fabbricali io, per potergliene offrire uno tutte le volte in cui mi sembrava avesse bisogno di sorridere. Sembra un storia lacrimevole, ma fabbricare fiori di stagnola richiedeva soprattutto tecnica e organizzazione mentale. Bisognava procurarsi cavi elettrici, anche spezzoni, e scarnificarli per prelevare i fili di rame. Con questi modellare gambi foglie e corolle, rivestirli con le stagnole colorate e alla fine solidarizzare il tutto. Cominciai ad accantonare ogni tipo di stagnola, a partire da quella dell’uovo di Pasqua e delle occasionali caramelle. Questo nuovo gioco sostituiva il disegno delle case che avevo abbandonato. Era meno impegnativo sul piano psicanalitico, ma questo non lo sapevo. Se veniva a mancare un po’ di stagnola per il gambo o per la giusta sfumatura del fiore, questo rimaneva incompleto e non si poteva esporre o regalare.

Ne facevo sempre di più, non solo per mia madre, ma anche per i vicini: Ne fai uno per mia moglie? Ne ho fatti di bellissimi, semplici e complicati. Ne ho abbandonato alcuni con dolore. “Usa un altro colore, che importanza ha?”, mi invitava mia madre. Ma era impossibile, non si poteva fare un fiore rosso e blu, per esempio. Non conoscevo l’arte moderna, allora. Non conoscevo la trasgressione. O forse non potevo allontanarmi dall’idea di perfezione, per timore delle ricadute negative. Analisi d’accatto su un ricordo minimo. Qualcuno mi chiese, con disprezzo: “Fai le cose che fanno i bambini all’orfanotrofio?”. “Non lo so”, risposi. Avevo capito che me lo diceva per ferirmi, ma non capivo il nesso, come la faccenda della signorina-non signorina da cui non si doveva bere l’acqua e limone.

Lei sorrise, più del solito, quando le portai il mio fiore. E tra i suoi fotogrammi mentali forse c’è stato quello della bambina dal fiore di stagnola. Anche per altri sarà così. Non mi dispiace. Cosa faccio ancora oggi? Le mie parole non si rovinano al vento di nord ovest, non prendono la cocciniglia, ne “faccio” quante ne voglio. E se non vengono bene, le  abbandono, seppure con dolore. Vivono un giorno, come il papavero. Volano nel cloud.

Anna Murabito      annamurabito2@gmail.com

LE CASSINEultima modifica: 2021-08-26T17:06:33+02:00da helvalida
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4 pensieri su “LE CASSINE

  1. Delizioso filmato di una situazione al limite di un acquerello gozzaniano. Fiori di stagnola fioriscono ad ogni riga tra malinconie e stupore. Descrizioni otre il tempo tra tapparelle di legno che si aprono alla all’apparire della “signorina” Gina. Ricordare è ricreare per sé e per gli altri. Eleganza e perfezione, ecco le cassine della Murabito.

    • Grazie a Giuseppe, che non mi fa mancare una parola lusinghiera neanche in estate, quando tutti sono in ferie e al massimo fanno le Parole Crociate 🙂

  2. Cara Alida
    i tuoi ricordi hanno il profumo della gioventù e delicatezza di immagini. Le tue parole hanno lo stesso fascino del canto delle sirene che ammaliò Ulisse ed evocano rimembranze mai sopite.

    • E grazie alla mia amica Ivana, raffinata collezionista ed esperta di antiquariato. A riprova della molteplicità dei suoi interessi, mi ha inviato sei articoli che ha pubblicato qualche anno fa in cui analizza da par suo i meravigliosi foulard di Hermès. Se sapessi come fare tecnicamente, ne posterei un paio nel blog.

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