UN VIAGGIO AL CENTRO DEL CUORE

UN VIAGGIO AL CENTRO DEL CUORE (1)

Recensione di Gwen Podbrey

Traduzione di Nicola De Veredicis

Fu William Butler Yeats a scrivere, in Per Amica Silentia Lunae: “Del litigio con gli altri, facciamo retorica – ma del litigio con noi stessi, poesia”.

Le controversie interne di Bernard Levinson, allora, sono la nostra grande fortuna, perché ci hanno regalato – nell’arco di circa 46 anni – poesie che ci hanno sistematicamente stupito con la loro tagliente veridicità.

Questa antologia delle sue opere riunite traccia la sua progressione come psichiatra, figlio, padre, marito, poeta, scultore, amante e guaritore – ma, soprattutto, come artista, poiché tale è il suo approccio a tutte le sfaccettature dell’esperienza umana. Alcune delle righe piu’ rivelatrici si trovano nelle poesie che descrivono il suo rapporto con i materiali grezzi nelle sue mani, le forme dentro di lui in attesa di passare alla realtà tattile: “Ci sono piume / sulle punte delle mie dita – / io sono la gru bianca / che spiega le sue ali. / L’ argilla resiste. / Si rifiuta di diventare / un uccello…”

Il coinvolgimento di Levinson con le immagini è’ centrale in tutta la sua opera – l’interazione tra luce e ombra, cielo e terra, mare e montagna, il corporeo e l’etereo,  la presenza dell’assenza rispetto all’assenza di presenza – abbraccia i confini culturali e temporali. Abramo e Isacco camminano nelle pagine accanto ai fantasmi di Spioenkop(2), lo yin e lo yang si riequilibrano perennemente, e ricordi amari di un’infanzia a Chicago nel bel mezzo della Depressione si mescolano con rimembranze estatiche di pomeriggi annegati nel sole a Parigi, Portofino e le spaccature della Table Mountain.

Le poesie iniziali, molte delle quali inquadrate nel contesto del suo ruolo di psichiatra, sono testimonianze della sofferenza e dello smarrimento non solo nei suoi pazienti, ma in se stesso.

In Weskoppies (3) scrive:

Non mi accorgo più / dei malati / che si nascondono nei loro letti solitari. /

Solo dentro di me / i grandi occhi interrogativi si rifiutano di chiudersi”.

In ogni momento, Levinson osserva se stesso – come in “ho fatto oscillare la mia borsa nera, sfacciato come un ragazzo al sicuro nella sua Scuola di Medicina … ho rovistato nella mia borsa / cercando parole” – ma riconoscendo l’incontro come uno per il quale nessuna laurea in medicina potrebbe averlo preparato: il riconoscimento totale di esseri umani in preda all’allucinazione. In disintegrazione. In extremis.

La stessa acutezza persiste attraverso tutta la sua poesia, sia che si rivolga a coloro che ama, sia a coloro che ha perso. Al di là della rottura immediata del dolore si trova una saggezza molto più antica e intuitiva che riconosce l’inevitabilità del congedo, ma cerca l’affermazione di ciò che è stato dato – o trattenuto – in anni condivisi. “Mio padre si nasconde / nel mio specchio. / “Perché sei qui?” / Sussurro. / “Dovresti essere addormentato / in quell’altro mondo” / Mi guarda / con gli occhi stanchi. / Non parla mai. / Riconosco il silenzio.”

E in “Per Arnold” – una delle poesie più commoventi del corpus di opere di Levinson – stiamo in piedi con lui davanti a una lapide mentre afferma i legami che la morte non può rompere: “Questa è l’immagine che appare sempre. / Tu in maniche di camicia / stanco alla fine di una giornata… Quando vengo a trovarti, / Quando ho letto le parole di rito / Tu vieni da me in maniche di camicia / E sei sempre contento di vedermi. “

Eppure il dolore, pur sempre presente, non è affatto l’unica rapida di fiume – o la più profonda – in cui il suo lavoro ci immerge. Sotto le sue opere scorre la passione, e da nessuna parte divampa più selvaggiamente che nelle poesie a sua moglie: trascinati da erotica adrenalina, intensa sensualità ed estasi spesso frenetica, i suoi versi esplodono in metafore di colore, ritmo ed euforia: “Delicatamente / Io entro nel cerchio calmo / il fuoco blu-verde, / la ruota arancione / che scoppia /  strappata nel violetto / giallo tondo / che sorge / nella notte senza fine”. In poesie più tarde il tono è più pacato, temperato dall’età, ma la passione non meno palpabile: “Quando vedo il tuo viso – / anche adesso / nell’ultimo raccolto / di questa vita misteriosa, / il mio cuore ricorda / il saltarello / di tutti i nostri incontri… / Quando ti togli / i vestiti / per sdraiarti al mio fianco, / ogni cellula e fibra / del mio essere / ferma / trattiene il respiro

In tutta l’antologia è presente la compassione, il crogiolo in cui si affinano immancabilmente tutti i suoi fervori e i suoi momenti più angosciosi. Esso è fatto di tristezza, tenerezza, e rassegnata, anche se dispiaciuta, accettazione della solitudine. “Ho paura di entrare nei tuoi quadri. / La tua solitudine / è troppo simile alla mia”, scrive all’artista Taffy Whippmann.

Allo stesso modo, le poesie più toccanti sono le più silenziose. Levinson è raramente declamatorio: non ha bisogno di esserlo. Suggestione e diminuendo sono i suoi tratti distintivi. La sua voce – pur sempre sicura di sé – è modulata dal pathos. Il suo ritegno è quello di un uomo che ha compreso da tempo la differenza, isolamento e solitudine e sa da tempo che il suo potere e la sua magia derivano dalle domande, non dalle risposte, e ha da tempo riconosciuto il silenzio come la più affidabile e, in definitiva, la più eloquente – forma di continenza spirituale. Le poesie sono economiche, precise, del tutto prive di indulgenza. Ci portano dolcemente, ma infallibilmente, sull’orlo dell’abisso, rivelando la profondità e l’oscurità sottostante, prima di recedere, lasciandoci cambiati per sempre dall’occhiata che abbiamo dato al nostro interno. Il libro è un viaggio attraverso un territorio che pochi altri poeti contemporanei sono riusciti a tracciare.

L’umanista francese André Gide dichiarò: ” ‘Perciò’ è una parola che il poeta non deve conoscere”. In effetti, non è una parola nel lessico di Levinson, perché sa che causa ed effetto raramente si allineano nel cuore umano. Nelle sue poesie il surreale, l’immaginato e il fin troppo reale convivono, condividendo e violando i confini, riversando colori ed echi l’uno nell’altro. Non cerca né ragioni né calcoli, solo appagamento. E questo, a sua volta, è ciò che le sue parole ci donano.

Questa splendida e troppo a lungo attesa raccolta dei quattro volumi precedenti, di uno dei più importanti poeti sudafricani, riconferma Bernard Levinson come un visionario il cui lavoro è oggi – in un momento in cui il mondo è sempre più digitalizzato, ma sempre meno umanizzato – più rilevante e urgente di quanto non sia stato mai prima.

  • Qui c’è un gioco di parole. Prendendo spunto da “Viaggio al centro della terra” (Journey to the centre of earth) si passa da terra (earth) a cuore (heart).
  • Spioenkop è il luogo di una celebre battaglia nella guerra anglo-boera, alla quale partecipò anche Winston Churchill.
  • Weskoppies è un ospedale psichiatrico di Pretoria.

 

A JOURNEY TO THE CENTRE OF THE HEART

Reviewed by Gwen Podbrey

It was William Butler Yeats who wrote, in Per Amica Silentia Lunae: “We make out of the quarrel with others, rhetoric – but of the quarrel with ourselves, poetry.”

Bernard Levinson’s internal disputes, in that case, are our great good fortune, for they have given us – over a span of some 46 years – poems which have consistently astonished with their trenchant truthfulness.

This anthology of his collected work traces his progression as a psychiatrist, son, father, husband, poet, sculptor, lover and healer – but, above all, as an artist, for such is his approach to all facets of human experience. Some of the most revelatory lines are found in poems describing his relationship with the raw materials in his hands, the shapes within him awaiting passage to tactile reality: “There are feathers / on the tips of my fingers – / I am the white crane / spreading its wings. / The clay struggles. / It refuses to become / a bird…”

Levinson’s preoccupation with images central to all his work – the interplay between light and shadow, sky and earth, sea and mountain, corporeal and ethereal, and the presence of absence versus the absence of presence – spans cultural and temporal boundaries. Abraham and Isaac walk the pages alongside the ghosts of Spioenkop, yin and yang perpetually rebalance themselves, and bitter memories of a Chicago childhood in the midst of the Depression jostle with ecstatic recollections of sun-drenched afternoons in Paris, Portofino and the clefts of Table Mountain.

The earlier poems, many of them framed within the context of his psychiatric role, are testimonies to the suffering and bewilderment not only in his patients, but in himself. In Weskoppies, he writes:

“I am no longer aware / of the sick / hiding in their lonely beds. /

Only inside me / the wide questioning eyes refuse to close.”

At all times, Levinson watches himself – as “I swung my black bag, brash as a boy safe in his Medical School… I fumbled in my bag / looking for words” – but recognising the encounter as one for which no doctor’s degree could equip him: the total recognition of human beings in delusion. In disintegration. In extremis.

The same acuity persists throughout his poetry, whether addressing those he loves or those he has lost. Beyond the immediate rupture of grief lies a much older, intuitive wisdom which acknowledges the inevitability of leavetaking, but seeks   affirmation of what has been given – or withheld – in shared years. “My father hides / in my mirror. / “Why are you here?” / I whisper. / “You should be asleep / in that other world” / He looks at me / with tired eyes. / He never speaks. / I recognise the silence.”

And in For Arnold – one of the most moving poems in Levinson’s body of work – we stand with him in front of a tombstone as he affirms the bonds death cannot break: “This is the image that always appears. / You in your shirt sleeves / tired at the end of a day… When I come to visit you, / When I’ve read the ritual words / You come to me in your shirt sleeves / And you are always pleased to see me.”   

Yet pain, while always present, is by no means the only rapid – or the deepest one – in which his work immerses us. Coursing below them is passion, and nowhere does it blaze more fiercely than in the poems to his wife: driven by erotic adrenaline, intense sensuality and often frenzied ecstasy, they explode in metaphors of colour, rhythm and exhilaration: “Gently / I enter the calm circle / the blue-green fire, / the orange wheel / bursting / torn purple / round yellow / rising / in the endless night.” In later poems the tone is calmer, tempered by age, but the passion no less palpable: “When I see your face – / even now / in the late harvest / of this mysterious life, / my heart remembers / the hop / skip / and jump / of all our meetings … / When you take off / your clothes / to lie at my side, / every cell and fibre / of my being / still / holds its breath.”

Throughout the anthology is compassion, the crucible in which all his fervours and most anguished moments are unfailingly refined. It is comprised of sadness, tenderness and resigned, if uncomfortable, acceptance of solitude. “I’m afraid to walk in your pictures. / Your loneliness / is too much like my own,” he writes to artist Taffy Whippmann.

Equally, the most poignant of the poems are the quietest. Levinson is seldom declamatory: he has no need to be. Suggestion and diminuendo are his hallmarks. His voice – though always confident – is modulated by pathos. His restraint is that of a man who has long understood the difference between loneliness and solitude, has long known that his power and magic come from questions, not from answers, and has long recognised silence as the most reliable – and, ultimately, the most eloquent – form of spiritual continence. The poems are economical, precise, entirely devoid of indulgence. They gently, but unerringly draw us to the edge of the abyss, revealing the depth and darkness below, before receding, leaving us changed forever by the glimpse we have had into ourselves. The book is a journey through territory few other contemporary poets have been able to chart.

The French humanist André Gide declared: “‘Therefore’ is a word the poet must not know.” Indeed, it is not a word in Levinson’s lexicon, for he knows that cause and effect rarely align in the human heart. In his poems, the surreal, the imagined and the all-too-real co-exist, sharing and violating boundaries, spilling colours and echoes into each other. He seeks neither reasons nor reckoning – only repletion. And that, in turn, is what his words bestow on us.

This splendid and long-overdue collection of four previous volumes from one of South Africa’s foremost poets reaffirms Bernard Levinson as a visionary whose work is today – at a time when the world is increasingly digitalised, but decreasingly humanised – more relevant and urgent than it has ever been before.

  • Collected Poems by Bernard Levinson, Hands-On Books, takealot.com and selected bookstores, price on request, barcode: 978-1-928433-12-5

 

 

 

 

 

 

UN VIAGGIO AL CENTRO DEL CUOREultima modifica: 2021-09-07T13:49:32+02:00da helvalida
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10 pensieri su “UN VIAGGIO AL CENTRO DEL CUORE

  1. Alida, ti ringrazio infinitamente per aver pubblicato questo magnifico saggio di Gwen su Bernard e la sua opera.
    Oltre ad essere un medico, psichiatra, poeta, artista, Bernard era anche un ebreo. Non in senso religioso, non credeva in Dio. Ma sentiva tutto il peso dell’immenso bagaglio che i membri di quella comunita’ ereditano dai loro antenati. Vorrei dunque commentare mostrando un suo poema dedicato a questa eredita’.
    “Rozinkes mit mandlen” (uvette e mandorle) e’ un’antica ninna-nanna che le madri ebree cantano in Yiddish ai loro bambini.

    NINNANANNA YIDDISH
    Sto cercando
    la voce di mia madre.
    Dietro
    le lacrime di rabbia
    la sento cantare.
    Lei sta cantando.
    Rozhinkes mit mandlen.
    Il mio nome
    e’ intessuto
    nella canzone.
    Rozhinkes mit mandlen.
    Una capra bianca
    sta dormendo
    sotto la mia culla.
    Rozhinkes mit mandlen.

    Per chi volesse ascoltarla, questa versione e’ tratta dal film “War and Remembrance”, cantata da Jane Seymour.

    https://www.youtube.com/watch?v=AgP05xiit4c&t=27s

    • Caro Nicola, non ringraziarmi. Bernard era grande. E so quanto lo amavi. Lo amava anche Gwen. Nella sua recensione non c’è solo perizia di scrittrice, ma anche passione e commozione. Diglielo da parte mia, se ti capita di sentirla. Grazie a voi.

  2. Beh, a leggere questo eccezionale saggio su Bernard Levinson offerto da Gwen Podbrey e tradotto meravigliosamente da Nicola De Veredicis, ci si rende conto di navigare in acque nuove e profonde. Qui si respira aria oceanica, lontana mille chilometri dalla scrittura sedicente artistica nazionale che al confronto appare piccola, immiserita dalla assenza di genio. Levinson con Pobrey e De Veredicis ci aprono orizzonti grandi, della grandezza vera e ultratemporale. Ci contagiano l’entusiasmo della esistenza senza limiti. Una vertigine per chi cammina con in piedi per terra. Le citazioni del Levinson ci danno il rammarico di non poter sentire altro e altro. Il Viaggio al centro della Terra o del Cuore non dovrebbe mancare in ogni biblioteca di chi si ritiene intellettuale. Ogni tanto costui dovrebbe misurarsi con il sudafricano (ma esiste la geografia per l’arte?) e valutarsi con sincerità e sofferenza. Avere ospitato questo saggio, pone il blog “Expressioni” ad un livello di qualità superiore, come del resto è stato finora.

  3. Caro Giuseppe, ti ringrazio commosso del tuo bellissimo commento. Peraltro vorrei ringraziare anche Alida e Gianni, i quali hanno smussato alcuni spigoli della mia traduzione in italiano.

  4. Voglio aggiungere che la recensione di Gwen Podbrey mi riconcilia con l’intellettualità autentica, quella che non si appaga di vuote eleganze e “fausses révérences”, come avrebbe detto Brel, ma si nutre di pensiero e di profonda comprensione della condizione umana.

  5. Vi ringrazio tutti per avermi fatto conoscere questo artista, la cui poesia ha come supporto una profonda conoscenza dell’animo umano e una pietas straordinaria, come evinco dai versi che ho avuto l’opportunità di leggere, e del quale mi accingo a continuare la conoscenza.
    Santuzza.

  6. Segnalo che su Expressioni i mesi scorsi ho postato alcune poesie e un brano di Bernard Levinson, e precisamente:
    Cinque poesie 23 Ottobre 2020
    Levinson, poeta 26 Ottobre 2020
    Pensieri da lockdown1 28 Gennaio 2021
    Modellando una ciotola di ceramica 24 aprile 2021

  7. Concordo con Giuseppe su due punti: 1.Bernard Levinson è un grande poeta e le sue opere aprono orizzonti che solo l’arte sa aprire. 2. L’intera attuale produzione letteraria italiana è in piena decadenza. Anzi più che decadenza, oserei parlare di imbarbarimento, il passo successivo.
    Solo che non considero adeguato il confronto fra un fenomeno isolato, come il poeta sudafricano, e la produzione letteraria di un intero Paese. Eventualmente si possono comparare due letterature. Nel caso specifico sarebbe difficile, sia perché sappiamo poco della letteratura sudafricana, io addirittura niente, sia perché, con tutto il rispetto per i grandi autori di questo immenso Paese, le due letterature non sono comparabili.
    L’Italia e l’intera Europa forse oggi hanno dimenticato sé stesse o forse l’arte, che ha i suoi percorsi misteriosi, le ha abbandonate. Appaiono spente e disgregate in mille rivoli di insufficienza. Ma la grande letteratura europea ha illuminato il mondo.
    Bernard Levinson rimane un incontro felice, una ricchezza grande, un grumo di poesia e di amore sfuggito di mano a un dio distratto. Un acuto che non è espressione se non di sé stesso.
    Fra l’altro fanno parte della letteratura i parecchi “joyaux ensevelis” di cui ci parlava Baudelaire. E – pena del tutto immeritata – dei joyaux ensevelis fa parte proprio Levinson. Il mondo intellettuale non soltanto produce ciarpame, ma è incapace di riconoscere un gioiello. Non avrei saputo niente di Bernard Levinson, se Nicola De Veredicis non me ne avesse parlato.

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