LA DEMENZA È UNA COSA SERIA

Un articolo di “Libreriamo” la sottovaluta

di Anna Murabito

Alda Merini è divenuta un’intoccabile, un’istituzione incontestabile al pari della mamma e della torta di mele. Per questo è normale che ci si accosti con grande interesse a questa poetessa, anche se col disagio che produce un “consenso” a pena di emarginazione.

Un articolo di “Libreriamo”, “Anche la follia merita i suoi applausi” di Alda Merini (libreriamo.it), in occasione della Giornata Mondiale della Sanità Mentale che si svolge ogni anno il 10 Ottobre, mette in relazione la poetessa e un argomento sempreverde: la “follia”. Ed offre l’occasione per alcune considerazioni.

 “Elogio Alla Follia” annuncia il titolo, con la sua impertinente preposizione. E introduce una frase di Alda Merini: “Anche la follia merita i suoi applausi”. Che certo comunque non andrebbero negati ad altre malattie, verrebbe voglia di dire. Ma niente di grave, fin qui: si sa che gli artisti sono stravaganti. E la Merini, che ha perfino cantato “Azzurro” con Celentano in TV, amava sorprendere.

L’aforisma scelto non ha né valore letterario né scientifico. Si presenta per quello che è: una battuta irriverente, una “provocazione”, si sarebbe detto alcuni anni fa. E si sarebbe potuto pensare che in questo senso lo avrebbero commentato i redattori di “Libreriamo”. I quali invece lo prendono alla lettera spiegando al lettore che l’aforisma della Merini servirebbe “… per sottolineare come i folli guardino il mondo da un’altra prospettiva, che non è per forza quella sbagliata”.

Una  frase siffatta potrebbe essere perfino accettata con un sorriso: innumerevoli sono le affermazioni triviali ed anche le barzellette basate su un paradosso che tiene i matti fuori e i savi dentro il manicomio. Simili parole svagate potrebbero trovare la loro collocazione in una cena con gli amici quando si ha licenza di “chiacchiera al vento”. Ma in un contesto serio – quale dovrebbe essere quello della Giornata Mondiale della Sanità Mentale – risultano inopportune. Il tema dolorosissimo e gravissimo dell’insania merita parole diverse. Già parlare di “folli” è inadeguato: “folli” non è termine scientifico.

Dopo questa discutibile introduzione, l’autore dell’articolo ci descrive le caratteristiche e le finalità della Giornata Mondiale della Sanità Mentale, un’iniziativa che promuove “la consapevolezza e la difesa della salute mentale contro lo stigma sociale.”

Anche queste asserzioni appaiono incongrue. Non si può agire contro lo stigma sociale con un’affermazione di consapevolezza. La consapevolezza del mal di denti non guarisce il mal di denti. Bisogna vedere se quello stigma esiste, poi se è giustificato e infine – nel caso non lo sia –  che cosa si può fare per contrastarlo. Prenderne coscienza non basta.

Lo “stigma” è determinato dal livello di civiltà della società. Quanto più è primitiva, tanto più è pronta a credere sotterraneamente al mistero, fino a fare di un demente la bocca di un dio o, al contrario, fino a bollare il diverso col disprezzo e gettarlo nella fossa dei serpenti. Però, tenere a distanza i malati di mente non è tout court espressione di primitivismo sociale: risponde anche, e soprattutto, all’istinto di autodifesa. Non basta negare la malattia mentale perché essa non esista; non basta vedere un film efficace come “Qualcuno volò sul nido del cuculo” per convincersi che “we can”. Non possiamo farci guidare dalla vox populi e dall’affabulazione per acquisire convinzioni ed esprimere giudizi.

 Gli esperimenti di Basaglia e la chiusura dei manicomi hanno gettato nello sconforto centinaia di famiglie. Hanno moltiplicato il dolore invece di guarirlo. Hanno diffuso idee false e pericolose, come quella che basta il dialogo e l’amore per curare un malato di mente. Hanno creato infiniti e ingiustificati sensi di colpa. Chi ha vissuto con un “folle”, potrà dire quanto costi, quanto sia difficile, quanto possa condurre alla disperazione la convivenza con una persona non sana di mente.

E infine parlare di “stigma sociale” nell’ambito della malattia mentale è come parlare in un convegno che affronti il tema della “Fame nel mondo” dei contorni più raffinati. I contorni avranno il loro valore ma si tratta di un valore assolutamente marginale rispetto all’importanza del frumento o del riso.  La stessa Merini non fu “lievemente folle”, della follia degli anticonformisti e degli artisti: conobbe la tragedia della perdita di sé, gli elettroshock, l’orrore delle personalità multiple, altro che stigma sociale.

L’articolo attinge ad un libro della Merini, “Delirio amoroso”, che secondo “Libreriamo” “documenta gli anni dei manicomi e dei centri di riabilitazione mentale, in cui invano i medici hanno cercato di far tacere la poesia.

Non avendo letto il libro, è difficile distinguere il pensiero dell’autore dell’articolo da quello della poetessa: ma l’affermazione “in cui invano i medici hanno cercato di far tacere la poesia è sbalorditiva. I medici non sono aguzzini pronti a spegnere le parole dei poeti. Anzi, qualunque psichiatra che si troverà davanti ad un disagio mentale, incoraggerà l’atto creativo. Quindi eventualmente favorirà la poesia, la pittura, una passione nuova, un hobby. Al terapeuta starà sempre a cuore la guarigione del paziente, non fosse altro che per orgoglio professionale.

Può anche darsi che l’idea dei medici pronti a far tacere la sua poesia sia di Alda Merini, ma non possiamo acriticamente prenderla per buona, come non possiamo credere che a Van Gogh i medici del tempo (sto inventando) volessero rubare i pennelli. Possiamo soffrire con i malati, quando sono in preda a fantasie angosciose e persecutorie, perché la malattia mentale è soprattutto dolore.  Ma della poesia in sé allo psichiatra non importa nulla. Se la legge, è in cerca di un sintomo.

In ogni caso, l’dea che i medici abbiano cercato di far tacere la poesia sembra rispondere ad uno stereotipo che descrive i luoghi di cura per malattie mentali come lager. Sono sicuramente luoghi infelici in cui si svolge il dramma di un’esistenza spezzata e disgregata. Insieme ad altri luoghi – conventi, collegi, carceri, orfanotrofi – in cui si soffre la contiguità e la coercizione, alimentano sentimenti negativi, come invidie, desiderio di sopraffazione, occasionalmente crudeltà. Ma descrivere medici e infermieri come sacerdoti onnipotenti pronti a sacrificare sull’altare del loro sadismo i pazienti-vittime, appare falso, ingeneroso, fuorviante.

L’articolo continua riferendo (forse) il pensiero della Merini secondo cui “contro tutti i principi razionali e le manie di benessere psicofisico, è “sano”, a volte accettare il proprio disagio interiore. Lasciare che spiragli di sregolatezza si insinuino nella nostra vita dando voce a emozioni e sentimenti che diversamente rimarrebbero muti per sempre.

Parole inaccettabili, perché il benessere psicofisico non è una mania: è la base della vita normale. Disprezzarlo è una forma di blasfemia da parte di chi sta bene. Soprattutto non si è liberi di accettare o rifiutare il proprio disagio interiore. Come a dire “per questa volta passo”.

L’equivoco nasce dal fatto che non si comprende se si stia parlando di malattia mentale o di semplice disagio interiore, di società in generale o di un individuo in particolare. Di letteratura o di realtà. Perciò sia il commento del redattore, sia le stesse parole della Merini continuano a snocciolarsi in una successione oscura e inconcludente.

Amore, follia, sacrificio. E poesia. Per Alda Merini c’è una relazione quasi necessaria tra quel “grande, inconfessabile languore amoroso” che è la follia, e la scrittura, vissuta come esperienza fisica prima ancora che come vocazione letteraria. “La poesia – scrive nel libro “Delirio amoroso” – non è solo una missione; è anche e soprattutto un lavoro manuale” che attinge “alle forze della natura”. In questo processo è il corpo il vero protagonista. Un corpo che ha rinunciato con voluttà e stupore alla guida rassicurante della ragione per smarrirsi nei labirinti tetri ma affascinanti della pazzia. Per perdersi e scoprire altre, più profonde verità. E soprattutto per potere amare.

 “Grande, inconfessabile languore amoroso” che è la follia? la scrittura, vissuta come esperienza fisica? Un corpo che ha rinunciato con voluttà e stupore alla guida rassicurante della ragione? Tralasciando le prime due affermazioni come assurde, un corpo non può né accettare né rifiutare la guida della ragione perché non ha né volontà né autonomia al di fuori di essa. Se il corpo potesse opporsi alla ragione avrebbe una sua ragione, un suo cervello. E comunque questa distinzione fra corpo e cervello, fra emozione e ragione, più che artificiosa, è infantile. L’amore, il dolore, l’ubriachezza, “la voluttà e lo stupore”, tutto ciò che è esperienza cosciente ha luogo nel cervello. Mai nelle ginocchia o nelle spalle. Oppure la Merini pensa che le emozioni e i sentimenti legati al sesso e all’amore siano extracerebrali?

Su un piano squisitamente letterario, l’evasione del poeta in un mondo irreale è un’evasione consapevole: l’unico esperimento di attingere a mondi sovrumani, quello di Rimbaud, è fallito per ammissione dello stesso artista. La poesia non è perdita della ragione ma esaltazione di una ragione capace di percepire il bello della realtà, i messaggi nascosti ai più superficiali, quelle correspondances di cui parlava Baudelaire. Una ragione nutrita di conoscenze lessicali non comuni e dominio della lingua. Se tanta poesia contemporanea è insopportabile è perché non c’è dietro l’immensa cultura di poeti come Dante, Petrarca, Leopardi, Quasimodo, Montale.

L’opera d’arte è il miracolo che può realizzare solo una mente superiore. E anche quella della Merini è una mente superiore, quando riesce a far poesia affrontando i temi che le sono congeniali: il dolore e l’amore. Lo è meno quando si affida alle mode portatrici di temi sociali estranei alla sua indole di irregolare. Allora la sua parola diventa “doverosa” e prosaica, legnosa e priva di musicalità. Ancora meno è nelle sue corde un’attitudine di teorica: aver vissuto la malattia mentale non la rende per questo capace di parlarne in maniera adeguata e convincente. La malattia mentale è un argomento per competenti.

Un libro sapiente e visionario, dice alla fine l’autore dell’articolo. Visionario sì.

Anna Murabito     annamurabito2@gmail.com

LA DEMENZA È UNA COSA SERIAultima modifica: 2021-10-14T10:32:57+02:00da helvalida
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12 pensieri su “LA DEMENZA È UNA COSA SERIA

  1. Alida, ottimo commento all’articolo, ben scritto, ben ragionato.

    Eppure.
    Tu scrivi seguendo la ragione, la tua ragione, la ragione comune. Ma forse c’e’ ragione anche nella pazzia. “La rasón de la sinrasón”, come scriveva Cervantes, seppure in diverso contesto.

    La ragione di mia sorella Letizia, la quale, dopo essere stata per mesi accanto a nostra madre morente, dopo la sua morte riusciva a vedere i diversi colori dell’ “anima” irradiarsi dalla gente, rosso per l’ ira, blu per la calma eccetera. Ando’ al Sistina a vedere uno spettacolo di Marcel Marceau, il famoso mimo, e vedeva spruzzi di luce arancione irradiarsi dal suo corpo. Questa non e’ ragione, e’ pazzia.

    E che dire di mio figlio David, il quale fu operato al cervello per liberarlo dall’epilessia, e durante l’operazione vide “Dio” in forma di triangolo, o meglio di piramide? E si senti’ libero, parte del Tutto, onnisciente, onnipotente? E nella convalescenza dopo l’operazione riusciva a vedere l’energia vitale degli alberi e delle piante, in forma di luminosita’ e oscillazione dell’aria intorno ad esse? E spesso ci riesce ancora…e anche questa e’ pazzia.

    E vogliamo parlare di mio fratello Mario, laureato in medicina, il quale guarisce i suoi pazienti con… l’agopuntura? E li guarisce sul serio, sai. Ha centinaia di ex pazienti che gli sono grati.

    Una famiglia di “pazzi”, come vedi…

    Alida, dopotutto che ne sappiamo della realta’, che vorremmo comprendere e controllare con la forza della nostra “ragione”? Della validita’ della logica ferrea, della scienza “provabile”, galileiana?

    Io, francamente (o quasi), a volte aspetto la morte, per curiosita’. Perche’ due sono le possibilita’: o si spegne la lampadina, e buonanotte (ma non lo sapro’ mai); oppure …chissa’.

  2. Una voce fuori dal coro. Oggi si tende ad attribuire patente di scrittore o poeta a chiunque metta insieme parole un po’ ricercate che rivestano pensieri semplici che spesso sono pensierini. L’Anna Murabito rimette un po’ le cose a posto e ricorda che per fare arte non basta la spontaneità o il candore. Tanto meno la triste condizione di un disagio mentale. Precisa: “La poesia non è perdita della ragione… (anzi è) Una ragione nutrita di conoscenze lessicali non comuni e dominio della lingua. Se tanta poesia contemporanea è insopportabile è perché non c’è dietro l’immensa cultura di poeti come Dante, Petrarca, Leopardi, Quasimodo, Montale.” Applausi! La Merini non è vero poeta “perché” sofferente di disagio mentale, né questo aumenta il suo sicuro talento poetico, ma è vero poeta “nonostante” il suo disagio mentale. Esso le offre forse dei contenuti, ma da solo non rende “artistico” il modo con cui lei esprime quei contenuti. La Murabito ha centrato e diffusamente motivato. Complimenti.

  3. “La Merini non è vero poeta “perché” sofferente di disagio mentale, né questo aumenta il suo sicuro talento poetico, ma è vero poeta “nonostante” il suo disagio mentale.”
    Giuseppe e Alida , avete ragione. La Merini, a somiglianza di un atleta disabile, ha raggiunto un record nonostante il suo handicap.
    Mi sembra di capire ( non la conosco molto) che lei volesse poetare in ogni caso, disagio o non disagio mentale, del quale si rendeva perfettamente conto.

    “Sono nata il ventuno a primavera
    ma non sapevo che nascer folle,
    aprire le zolle,
    potesse scatenar tempesta”.

    Cioe’ la poesia prorompeva da lei irresistibilmente. E lei si domanda: perche’ la mia pazzia deve essere considerata come una debolezza, un impedimento al mio desiderio di poetare?
    Ovviamente oggi, il falso pietismo e buonismo imperanti si impadroniscono di lei come una martire della societa’, e viene automaticamente nobilitata e santificata.
    In realta’ la sua corona di alloro di poetessa dovrebbe esserle concessa non per pieta’ (“poveretta, era pazza”), e non “nonostante” fosse pazza, ma indipendentemente dal fatto che fosse pazza. E c’e’ da aggiungere che, poveretta, non ci si possono aspettare molte conoscenze lessicali in una che venne sbattuta da un ospedale all’altro.

    Da handicappata, e’ riuscita a saltare in alto come un qualsiasi altro atleta “normale”. E forse, aggiungo io, proprio in virtu’ della sua pazzia. Forse e’ stata la sua sofferenza, tra elettroshock e torture varie (le “fruste ingiustificate” le chiamava) a fornirle l’ispirazione.

    Non diversamente, ad esempio, da mio figlio David, il quale tra crisi epilettiche, operazione e convalescenza soffri’ a tal punto da sviluppare facolta’ che potremmo dire “paranormali”.

    Era questo a cui mi riferivo nel mio intervento. Non a caso i fachiri si stendono su un letto di chiodi. La sofferenza genera qualcosa di superiore, un certo stato mentale, una “pazzia” che noi “normali” non potremo mai capire.

    Concludo dicendo di essere d’accordo sul fatto che la Merini non guadagna meriti poetici in virtu’ della sua malattia, e va giudicata indipendentemente da essa.

  4. Grazie agli amici sempre presenti.
    Nicola nel suo primo intervento sembra chiamare “follia” anche un temporaneo, imprevedibile ed occasionale potenziamento delle facoltà umane. Difficile da verificare e da spiegare, una sorta di fenomeno paranormale, per chi ci crede.
    È vero che persino i competenti non ne sanno abbastanza del cervello, ma mi pare più vicino al vero definire la malattia mentale come una delle più gravi menomazioni che possa subire un essere umano. Non arricchimento ma impoverimento.
    Anche le forme lievi di disagio, quali le piccole crisi d’ansia e le fobie – per esempio la diffusissima claustrofobia – non sono “un altro modo di vedere la realtà che non è detto sia quello sbagliato” ma patologia. Un grave limite alla libertà dell’individuo, qualcosa che lo sottopone a stress e danneggia la qualità della sua vita.
    Chi prova empatia ed ha capacità di immaginazione sa abbracciare un arco di sensazioni e sentimenti molto ampio e non ha bisogno di sperimentare in prima persona un’esperienza dolorosa come il disagio mentale per comprenderne la portata. Da ragazza dicevo, scherzando, di conoscere bene il delirium tremens per avere assistito i Karamazov durante le loro crisi. Se poi un artista si troverà a subire la “follia”, a mio parere non potrà condividere a cuor leggero l’altezzoso aforisma della Merini. Non credo che Utrillo, Van Gogh, Schumann volessero riservarle applausi.
    Sono d’accordo con Giuseppe Alù che “la Merini sia vero poeta ‘nonostante’ il suo disagio mentale” di cui si fa una bandiera.
    Commenterò dopo il secondo intervento di Nicola.

  5. Sempre a Nicola.
    “…la poesia prorompeva da lei irresistibilmente. E lei si domanda: perche’ la mia pazzia deve essere considerata come una debolezza, un impedimento al mio desiderio di poetare?”.
    Mi sembra che stiamo discutendo senza avere i dati. Si può soltanto dire che non sono gli altri a considerare la pazzia come una debolezza: la pazzia è più che una debolezza, è una patologia che, in caso di interruzione della coscienza, impedisce anche di poetare.
    “Forse e’ stata la sua sofferenza, tra elettroshock e torture varie… a fornirle l’ispirazione.”
    Questo è possibile. Infatti i componimenti che attingono al dolore, come ho scritto nell’articolo, sono i più ispirati. Quanto all’elettroshock, comunque, dovremmo sentire l’opinione dei competenti e non cedere all’immagine dello psichiatra sadico che tortura i pazienti.
    ” La sofferenza genera qualcosa di superiore.”
    È quasi un luogo comune e ne abbiamo già parlato, quando mi hai fatto l’elenco dei pittori felici.:-) Vale per ogni tipo di sofferenza, anche quella che non ha niente a che vedere con la malattia mentale. Il dolore, quando non annichilisce, si può trasformare in creazione.

  6. Alida, d’accordo con la tua risposta. Comunque credo che la Merini abbia avuto la sua buona dose di sofferenza, un tempo gli elettroshock erano fatti da svegli, oggigiorno il paziente e’ sotto anestesia. E c’era l’atmosfera terrorizzante della preparazione, poi gli shock, e spesso le conseguenti bruciature. Non era una pacchia. Comunque non credo che con la Merini siamo ai livelli delle torture dei malati di Poveglia (sai di quello che succedeva in questa isoletta nei pressi di Venezia?).

    • Mi sembra che il discorso si sia dilatato un po’. Il punto centrale, secondo me, è questo: quanto ha influito il disagio mentale (patologico, att!) della Merini sul suo essere poeta? ovvero, La Merini, comunque poeta, avrebbe scritto poesie di minor pregio se avesse avuto una vita “normale”? SI / NO.

  7. Cara Alida
    ho letto la tua analisi sull’articolo di Libreriamo in merito a Alda Merini e concordo in pieno con la tua analisi.
    Quando affermi “La poesia non è perdita della ragione ma esaltazione di una ragione capace di percepire il bello della realtà” mi hai ricordato, e spero di ricordare bene, De Sanctis che sosteneva “La poesia è la ragione messa in musica” e chi più di te ha fatto queste splendide “liaisons”?
    Hai perfettamente ragione quando dici che si potrebbe essere a rischio emarginazione se il nostro parere è discorde dal resto dei “grandi critici letterari”. Ebbene ti confido che la maggioranza delle poesie di Alda Merini mi lasciano del tutto indifferente, insomma non è nelle mie corde, ma riconosco che forse è un mio limite.
    Fra il poeta e il lettore ci deve essere una concordanza d’animo per far scattare quella scintilla e fra me e Alda Merini non è successo, e di quel fuoco rubato dal poeta come sosteneva Rimbaud (donc le poète est vraiment voleur de feu) non mi è mai pervenuto nemmeno il calore.

  8. Il dato di partenza della discussione è insalvabilmente sbagliato. Non esiste “la malattia mentale”, esistono “le malattie mentali” che vanno dall’innocua bizzarria che fa di ognuno di noi un individuo diverso da tutti gli altri fino all’ebete e quasi al vegetale umano.
    Credo che la malattia mentale in quanto tale non possa favorire l’ espressione e la comunicazione. Il semplice disagio esistenziale come “dolore” può invece favorire la produzione artistica in quanto arricchimento dell’esperienza umana.
    Se la poesia della Merini sarebbe stata più o meno grande senza la malattia mentale è difficile dirlo, perché non c’è possibilità di verifica.
    Mi sembrerebbe comunque indispensabile non parlare della “follia” come di una sindrome unica. Questa tragedia individuale e sociale non può essere trattata con mondana disinvoltura o per sentito dire. E nemmeno con le frasi ambigue ed altisonanti della stessa Merini, non divenuta un’esperta nonostante la sua triste esperienza. Era questa la tesi di fondo del mio commento all’articolo di “Libreriamo”.

  9. Alida, anch’io pensavo alla stessa cosa. Che tipo di “pazzia” aveva la Merini?

    I malati di autismo, ad esempio, sviluppano delle facolta’ che spesso li pongono al di sopra (in alcuni campi) degli esseri umani “sani” (ricordi “Il mago della pioggia”?)

    Dunque ho letto un po’ sulla Merini, ed ho scoperto che era bipolare. Ora, sembra che il bipolarismo sia in genere associato ad un’intelligenza piu’ elevata:

    https://www.med.uio.no/norment/english/research/news-and-events/news/2019/genetic-overlap-bipolar-disorder-intelligence.html

    Quanto poi la poesia sia associata all’intelligenza, passo a te la risposta. 😀

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