THAILANDIA

Thailandia

Dal mito alla realtà

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Inizia il viaggio

Quando l’argomento è una delusione, si cerca di ricacciarlo indietro nella memoria. Così mi capita per la Thailandia. Quasi dimentico di esserci stata.

Il viaggio era stato organizzato bene: niente mare, niente strade battute dal grande turismo, solo itinerari culturali alla ricerca del mitico Siam. Tutto curato anche nei particolari. Partenza un giorno prima con sosta in un buon albergo all’interno dell’aeroporto di Fiumicino, frequentato solo da stranieri danarosi, ci avevano detto in agenzia. Danarosi sì, ma non sufficientemente informati della distinzione tra bidet e water, a giudicare dal mio incredulo olfatto. Ma queste sono le normali piccole disavventure del viaggio.

L’indomani fummo i primi a consegnare la valigia (organizzatissima anch’essa) per l’imbarco. E questo forse ci perdette. Perché l’impiegato, come l’automobilista che si muove lentissimo in una strada deserta solo perché è appena partito, stentò a riconoscere la sua normale attività e dimenticò di apporre sul bagaglio l’etichetta con la destinazione.

Così la valigia fece più volte il giro del mondo e, quando finalmente arrivò al nostro albergo tailandese, dopo undici giorni (il penultimo giorno di viaggio), sembrava un toro stremato, ferito da mille contrassegni colorati che offendevano, come irridenti banderillas, il suo corpo lucido, massiccio e nero.

Sporca e maltrattata, stentai a riconoscerla e l’accettai solo perché era stata identificata come nostra attraverso il codice del lucchetto di sicurezza. Ma se comincio dalla fine opero una totale rimozione e finisco col non parlare della Thailandia.

Bello il viaggio in aereo, con molto cibo e molte bevande. Una certa emozione all’idea di scendere sotto il tropico. Spersonalizzante il grande aeroporto della Capitale, con i suoi mille riti e mille indugi, come avviene ovunque dopo l’11 settembre, con i commenti fotocopiati dei viaggiatori: “Bene così, ben vengano i controlli, mi sento protetto”. E ogni tanto, con sincerità: “Però, che seccatura”.

Il nastro trasportatore gira e gira e la nostra valigia non c’è. Telefonate lunghe e costose anche con l’Italia. Il tempo passa, ore e ore, e non arriva l’impiegato dell’hotel che doveva prelevarci. I funzionari aeroportuali non possono chiamare il nostro albergo dai loro telefoni, possiamo servirci solo degli apparecchi pubblici. Ma non abbiamo moneta locale e non c’è “cambio” all’aeroporto di Bangkok. Mestamente ci mettiamo in coda all’Ufficio Lost and Found e subiamo l’inevitabile opprimente burocrazia: moduli da riempire in inglese, non sempre chiari, e nessuna assistenza.

Finalmente l’impiegato di un’agenzia di viaggio presente nella hall dello scalo, forse impietosito dalla nostra sorte di naufraghi, telefona al nostro hotel e riesce ad ottenere un taxi per noi. In pieno gennaio, usciti dall’aeroporto, la città ci accoglie come la bocca calda e umida di una bestia immonda. Atterrati alle 6 del mattino sbarchiamo in albergo intorno alle 12,30. Solo col bagaglio a mano.

Chiediamo dov’era stato l’addetto al trasporto clienti. Ma come, non era venuto? Si fa avanti lui stesso, l’ineffabile personaggio: barba incolta, capelli sporchi, denti precari, forse ubriaco, forse del tutto “svanito”. “Lui” era venuto, ci dice in un inglese improbabile, “noi” non eravamo usciti dalla sala dell’arrivo bagagli.

Nel pomeriggio ci conduce in gita sul Chao Phraya a bordo di un battello e ci racconta che in Thailandia si mangia molta frutta e che bisogna stare attenti con le bucce di banana, perché a metterci il piede sopra si rischia di cadere malamente. Ride divertito. Poi ci mostra una sagoma allungata sulla riva del fiume e ci dice: “Toh, un coccodrillo”. “Ma no”, si difende desolato mio marito, “quella è un’iguana”. Opto per l’ubriachezza cronica.

Comincio ad essere irritata: abbiamo pagato a parte per questa gita guidata, extra programma. Per fortuna non c’è niente da vedere: le case residenziali, sulle rive del fiume, assomigliano a catapecchie. Mi censuro dicendomi che non devo giudicare con il metro occidentale e tuttavia, faticando su e giù per il Wat Arun – un immenso tempio buddista costruito con tazzine rotte, piatti più o meno sopravvissuti ai naufragi, ogni sorta di vasellame scompaginato – mi sorprendo a rimpiangere Santa Croce. È presto, continuo ad ammonire me stessa, il viaggio è appena iniziato.

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Non sapevo che quello sarebbe stato il meglio. Intanto niente mercato galleggiante, non c’è più, “Ce n’è uno a 80 chilometri di distanza”, ma non è incluso nel viaggio. Per fortuna lo pseudo barbone viene sostituito da un giovane coloured dalla faccia tonda, non particolarmente colto, ma presente a sé stesso. È cordiale, di una gentilezza indistinta e programmatica, come disegnata nei suoi gesti e nella sua voce, sempre composta. È lui la nostra guida nel lunghissimo viaggio che ci porta verso Nord, in un attempato pulmino: giorni e giorni ad affrontare tornanti (indimenticabile l’enorme disco di pubblicità incollato al parabrezza, che ci impediva di vedere la strada. Ottenemmo con grande pena che fosse rimosso). Giorni e giorni ad immaginare la giungla che non c’è più, sostituita da prosaiche, sconfinate risaie. Finalità lodevole se il risultato è stato raggiunto: ma il Paese è stato ferito da questa operazione.

Ogni tanto il secondo pulmino si fermava – il gruppo era stato frazionato in due per risparmiare il pullman “Gran Turismo” – e i passeggeri ne scendevano con visi bianco sabbia. Li soccorrevo con pillole contro il mal d’auto che estraevo dalla mia farmacia da viaggio ricca di ogni sorta di prodotti che avevo portato con me. Gli unici momenti di contatto umano con persone di cui non ricordo neanche le sembianze. Ricordo invece la loro indifferenza a tutto quello che ci veniva proposto e una sorta di sottile ostilità nei nostri confronti. Forse percepivano la nostra scontentezza. Loro sembravano a proprio agio durante le soste in paesini montani, deliziosi per il clima dopo il caldo insopportabile di Bangkok, ma per noi estremamente poveri di attrattive e tutti uguali: lungo una strada si aprivano negozietti dove si vendevano prevalentemente cartoline illustrate e paccottiglia. Nessun tipo di artigianato. La strada finiva nel nulla e si ricominciava a passeggiare nell’altro senso.

Nel Paese degli elefanti dovevano forse avere anche loro la pelle dura: affrontavano serenamente anche le frequenti gite su imbarcazioni primitive alimentate da motori d’automobile malamente sbattuti, nudi, a poppa, il cui rumore è concepibile solo in una camera di tortura. Semi-sdraiati sul fondo, in uno spazio esiguo, in posizione testa piedi alternati, come schiavi nelle navi negriere, a guardare un’anonima boscaglia che una volta era giungla. E quella gita spesso era il piatto forte della giornata.

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Pensavo amaramente che il viaggio era caratterizzato dalla mancanza: niente valigia, niente mercato galleggiante, niente artigianato, niente giungla, niente comunicazione all’interno e all’esterno del gruppo. Una signora addirittura ci espresse la sua meraviglia per il continuo dialogo fra me e mio marito. Anche la guida sembrava attenta solo al programma giornaliero e alla sua pelle, nel senso di epidermide: ogni mattina prima della partenza riempiva il palmo della mano sinistra di crema protettiva, la prelevava con la punta delle dita della mano destra e se la spalmava accuratamente sul viso. Il suo lavoro sempre all’aria aperta gli imponeva questa precauzione, diceva. In qualche momento di raro dialogo, ci ha detto quello che “faceva”, mai quello che “pensava” e men che meno il significato culturale di ciò che ci mostrava.

L’arte

Mi sono accostata all’arte tailandese con umiltà ma anche con una sorta di pessimismo: le avvisaglie erano state tutte negative. Non ricordo la successione cronologica delle visite ai siti archeologici né la loro localizzazione. So soltanto che per tre quattro giorni di seguito visitammo rovine. Non ho titolo per parlare di archeologia, ma il turista vive di impressioni – a volte di innamoramenti – e quei siti non esercitarono su di me alcun fascino. Resti di edifici, sbilenchi, inquietanti. Sembravano ruderi anche quando erano relativamente integri. Costruiti con mattoni che il tempo ha sbriciolato – da architetti che credo non conoscessero l’arco – a volte apparivano come un’accozzaglia di relitti di difficile lettura in cui prevalevano le tinte del marrone bruciato. Orridi, senza la magistrale maestà degli acquedotti romani, che si indovina anche nei resti; senza la serena mansuetudine di edifici nati per proteggere.

Ci venivano lette le noiosissime e lunghissime notizie di rito ed io pensavo che quei luoghi sarebbero stati adatti a qualche scena de “Il signore degli Anelli” o forse sarebbero piaciuti a Hieronymus Bosch. Pensavo al misticismo quasi tangibile delle Moschee di Istanbul, edificate da architetti geniali, mentre le rovine tailandesi disorientano il visitatore non per la sacralità che da esse promana ma per una sorta di sotterranea presenza demoniaca.

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La nostra guida rincarava la dose con storie angosciose di mute di cani randagi. Io non stentavo a credergli ed anche i cartelli ammonivano in tal senso: chi si fosse aggirato per quelle strade la notte, avrebbe rischiato una morte orribile. E mi tornavano alla mente i Templi di Agrigento o di Paestum, illuminati da architetti innamorati. La fredda Acropoli di Atene splendeva, bianca e immutabile, nella memoria del tempo. Ogni tanto mi sforzavo di autoconvincermi che tutto fosse “bello”, ma la lode si fermava a mezza bocca. Le infinite “Stupa”, piccoli monumenti conici in cui la guida ripeteva costantemente che c’era un po’ di cenere del Buddha, non mi commuovevano affatto. Anche perché era difficile credere che un solo cadavere potesse aver prodotto quintali di cenere.

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Non so dove collocare un tempio con una trentina o quarantina di statue del Buddha, in successione, sui quattro lati di un silenzioso cortile, l’una accanto all’altra. Tutte pressoché identiche, col Saggio che sorride appena. O guarda appena. O muove appena la mano destra o ha il capo appena girato. Un modulo di arte continua. Una catena di montaggio. Un carosello di inespressive sfumature. Come contare le pecore. Forse ce ne ho messo del mio perché la mancanza di sintonia con questo Paese (ancora una mancanza) ha trasformato l’umiltà iniziale nel rifiuto di ogni sforzo per capire. Ma l’arte non è sforzo. La nostalgia di Prassitele mi attanagliava le budella.

E tuttavia continuavo a rimuginare, formulavo ipotesi interpretative, mi impigliavo nelle maglie dell’ambivalenza. Verosimilmente le statue dell’Illuminato volevano significare imperturbabilità, impassibilità, serenità; eppure l‘espressione del viso è ambigua: sganciata dal messaggio della predicazione potrebbe significare fissità, vacuità, assenza, indifferenza. Forse la tecnica degli esecutori era insufficiente per trasmettere una determinata espressione. L’arte comunque non può aderire a un concetto filosofico né servire una causa quale che sia, perché smette di essere arte e diventa dottrina. Né si può esaurire nella riproduzione di un canone, perché niente la distinguerebbe da una macchina. Concetti elementari (occidentali?) ma ineliminabili capisaldi. Rimuginare sull’arte non si rivelava un buon esercizio.

Nei vari templi, comunque, c’è un unico protagonista: lui, il Sublime. Statue imponenti, gonfie e dorate, e una addirittura immensa – con un Buddha sdraiato grande come una balena – di cui si faceva il periplo come nelle navate di una cattedrale. Nessun soprassalto del cuore, ma altre ipotesi: arte come primato? Simile in qualche misura alla tendenza odierna a costruire il grattacielo più alto del mondo? Ma il grattacielo è espressione di una società laica, magari con una tensione oscura verso un indistinto “assoluto”; una sorta di moderna Torre di Babele, mentre le dimensioni delle statue del Buddha non mi pareva esprimessero una sfida quanto piuttosto il desiderio di rendere omaggio al grande Saggio da parte di un popolo esplicitamente ed ingenuamente religioso. Dov’è l’arte in tutto questo?

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E senza emozione ho guardato, sbirciando in mezzo a un mare di teste, anche le ricche decorazioni del Grande Palazzo Reale di Bangkok. Le maioliche di Istanbul gridano il loro rigore disperato e ultimativo; le decorazioni tailandesi affogano in una sovrabbondanza sfrenata e quasi oltraggiosa. L’interno dei templi confina col kitsch. I colori violenti, sgargianti, sanguinolenti, contribuiscono a rendere estranee a noi occidentali anche le enormi raffigurazioni di dragoni, serpenti, creature deformi e mitologiche presenti lungo le strade e davanti ai templi. Ricordano i personaggi di cartapesta che sfilano nel nostro carnevale. Ho quasi rivalutato i carretti siciliani tradizionali.

L’avventura

Il contatto con l’arte tailandese non è stato un successo, ma almeno non è stato drammatico. Diversamente le cose sono andate con l’avventura esotica.

Il giorno della gita sull’elefante cominciò con una colazione all’alba in montagna. Un freddo tremendo. Avevano raccomandato di indossare almeno un pullover, meglio due, sotto la giacca a vento, indispensabile. Ma le nostre giacche a vento erano rimaste dentro la valigia che viaggiava per conto suo e noi avevamo solo un pullover leggero e il semplice antivento estivo.

Affrontammo così la gita in barca che ci doveva portare in un luogo finalmente pianeggiante (dove avremmo visto gli elefanti) con gli indumenti che avevamo addosso. Nemmeno lungo i fiordi norvegesi ho sofferto un freddo simile. Una compagna di viaggio, impietosita per le mie labbra livide sotto il rossetto, mi diede una felpa da mettere intorno al collo. Gentile, pur essendo torinese. Quasi a compensare un uomo del gruppo che il giorno prima ci aveva fortemente redarguiti per un ritardo di otto minuti. Ritardo inammissibile anche per noi, che ci eravamo scusati, ma eravamo stati chiamati dalla Direzione dell’ultimo albergo dove avevamo pernottato, perché avevano notizie della nostra valigia e per noi era un argomento di vitale importanza. L’uomo però non si peritò di affermare che con i meridionali non si può viaggiare e che per colpa nostra aveva perduto quasi otto minuti di viaggio.

Gli elefanti ci allietarono con evoluzioni – e una “partita di calcio” – che avrebbero fatto la gioia di bambini di otto anni, forse dieci, ma il bello cominciò in groppa al pachiderma che ci era stato assegnato per la “passeggiata”. La panchetta era stato collocata male, inclinata in avanti, e mancava una sbarra o un qualunque sostegno per appoggiare i piedi. Dovevamo aggrapparci alle sponde laterali del seggiolino, ma nel frattempo ad ogni passo l’elefante ci scagliava verso il conducente, cercando di farci scendere, forse. O ci rompeva la schiena contro la spalliera di ferro, cui tentavamo di aderire, disperati. Rischiavo di perdere le scarpe. I miei mocassini di morbida pelle adatti per il viaggio in aereo erano divenute le mie “uniche” scarpe e col caldo e l’uso di dodici ore al giorno che ne avevo fatto su ogni tipo di terreno avevano ceduto un poco, mentre i miei piedi ancora risentivano del semicongelamento della gita in barca del mattino. Rischiavo di perdere il mio unico paio di scarpe e avevo voglia di piangere.

Non c’era nessuno a cui poter segnalare la cosa e il guidatore – che non capiva neanche la lingua dei segni – sembrava uscito da quel poco di giungla risparmiata dai tagliatori. Mio marito, per sua natura molto ardimentoso e pronto a vedere il lato buono delle situazioni, questa volta non trovava appiglio, anche in senso metaforico, e guardava con simpatia l’acqua limacciosa del fiume, quando l’elefante lo guadava: “Se cadiamo qua abbiamo la possibilità di sopravvivere”, diceva.

La gita finì dopo un’ora: i fortunati con un seggiolino normale scattavano fotografie e sorridevano. Arrivati alla piattaforma d’approdo, la guida mi aveva già dato la mano per aiutarmi a scendere, ma l’elefante fece uno scarto laterale e rimasi per qualche secondo spenzolata nel vuoto aggrappata alla mano dell’uomo che per fortuna era molto forte. Mi tirò su con facilità, anche perché nel frattempo l’elefante si era riavvicinato ed io avevo potuto appoggiare il piede sul suo dorso.

Chang Mai

Ormai non mi aspettavo più niente da un viaggio sventurato quando arrivammo a Chang Mai, la seconda città della Thailandia. O per meglio dire mi aspettavo una sorta di Bangkok più anonima, di dimensioni minori. Ma la realtà superò in negativo le previsioni: la città si risolveva in una strada infinita, trafficatissima, piena di scooter, di semafori e negozietti da una parte e dall’altra. Non saremmo neanche usciti dall’albergo per dare una seconda occhiata a piedi ma avevamo dato appuntamento a una coppia di amici che avevamo conosciuto in un altro viaggio molto più fortunato. Lui, un gentile architetto canadese con ascendenze vietnamite, mi condusse da un suo amico antiquario italiano, felice di parlare la nostra lingua. Attraversammo una città trasformata in un intricato accampamento di bancarelle: si celebrava non so che ricorrenza. In una bolla di fragore, dragoni di cartapesta inseguiti da mortaretti veri percorrevano strade inermi. L’antiquario, un fiorentino, aveva qualche bell’oggetto, ma a prezzi altissimi. Ormai comunque ero troppo scontenta delle cose che avevo visto per fidarmi dei miei occhi.

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Durante il tragitto la compagna dell’ingegnere intrecciò il suo braccio al mio, pare che sia una manifestazione di amicizia anche presso un popolo schivo come quello tailandese, ed io le dissi sommessamente nel mio inglese elementare: “Avremmo potuto essere amiche”. Ma non era vero. Guardavo le file di uomini e donne che – moderni sciuscià – praticavano il massaggio ai piedi a turisti soddisfatti: avrei voluto essere a casa mia. Scintillavano le insegne dei numerosi locali in cui si praticava il massaggio integrale. Mi sembravano tutti loschi.

Bangkok e i villaggi primitivi

Bangkok mi è sembrata la “cosa” più bella e più vera vista in Thailandia. Ci siamo rimasti un paio di giorni autonomamente dopo la partenza del gruppo. Una città col fiato delle grandi capitali e insieme con l’umanità di un luogo in cui c’è posto per pregare, per mangiare ad ogni angolo della strada, per guardare il verde e i colori, innanzi tutto quelli delle insolite automobili.

La prima curiosità che notai, nel taxi che ci conduceva all’albergo dopo la sosta in aeroporto il primo giorno, fu la lunga fila di “Gigli Ragno”, piante che vivevano felici e distratte ai bordi delle strade mentre io ne ho un solo esemplare che tengo come una reliquia nella mia terrazza: il suo profumo è delicatissimo e inebriante. Le orchidee – il fiore simbolo della Thailandia – non hanno bisogno di vasi contenitori: il loro apparato radicale gli consente di catturare l’umidità dell’aria. Se mai dovessi tornare in Thailandia, vorrei tornare solo a Bangkok. E senza guida. In città qualcuno conosce l’inglese e sembra di trovarsi veramente nel “Paese del sorriso”: tutti sono stati sempre e sinceramente cortesi.

Bangkok meriterebbe di più, anche per capire la Thailandia cittadina e “moderna”, mentre sembra sprecato il tempo impiegato a visitare villaggi primitivi abitati da uomini e donne fermi all’età della pietra, o quasi. Vivono nel fango, in cortili simili ad aie sterrate (nei paraggi circola qualche gallina) e passano il tempo bevendo liquori distillati “in casa”. Ne offrono anche ai viaggiatori, ma raramente trovano qualcuno che beva con loro. Con minacce sproporzionate ho diffidato mio marito dal farlo. Uno solo del gruppo, sprezzante della sporcizia, assaggiò un sorso nello stesso bicchiere in cui aveva bevuto un vecchio sdentato e disse “buono”, per onore di firma. Ci sono altri piccoli agglomerati in cui le donne hanno il collo allungato dai molteplici anelli, tessono con telai rudimentali e si fanno fotografare con i turisti. Ma non “valgono il viaggio”, come dicevano una volta le guide.

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Ci venne rivolto l’invito a camminare in silenzio per non alterare l’equilibro dei villaggi visitati: “Gli abitanti non amano essere disturbati”. Da un lato questo tipo di invito indirizzato agli italiani, che fanno del clamore la loro bandiera, ha una sua ragione d’essere, ma per altro verso mi sembra altezzoso e incongruo, sproporzionato al valore di ciò che viene offerto. Ed anche contraddittorio perché gli abitanti del luogo non aspettano altro che il contatto con i turisti, fonte di valuta pregiata. Quella di camminare compunti lungo strade sterrate, prive di qualunque attrattiva paesaggistica e di limitata rilevanza etnologica, era una richiesta esosa. Tutto l’ambiente assomigliava ad una periferia estremamente degradata, ovunque cartacce e plastica, e gli uomini seduti a bere non sembravano tanto “primitivi”, quanto sporchi. Erano più che altro brutti ceffi, che uno non vorrebbe incontrare per strada. In quelle località i bambini sono mandati a mendicare in maniera insistente e ricavano un bel po’ di denaro dai vari gruppi.

Non ho capito se le raccomandazioni della guida fossero una piccola sceneggiata per darsi importanza o se i tailandesi siano effettivamente convinti della qualità della loro offerta, forse per ignoranza: sembrano infatti non conoscere la civiltà e l’arte europea. E in un viaggio già piuttosto costoso, le agenzie tailandesi chiedono un supplemento di mille euro e più a testa, per una deviazione in Cambogia, giusto il tempo di dare un’occhiata ai templi di Angkor Wat. A ripensarci, forse avremmo fatto bene ad andare in Cambogia, soltanto a vedere quei templi sommersi dalla giungla.

I Tailandesi

In conclusione non so niente dei Tailandesi e ancor meno dell’anima della Thailandia. Ho percepito un popolo gentile, ma anche disorganizzato nella concretezza. Nuovo all’esperienza del turismo come industria e non molto portato alla comunicazione, forse per la barriera linguistica. Può darsi che vivano gli ospiti come un corpo estraneo che non sanno gestire bene e sembra che non vedano l’ora di liberarsene per tornare alla loro normalità.

Nel nostro albergo avevamo una stanza molto moderna con il bagno separato dal resto della camera da una vetrata. Di notte rimaneva accesa una luce che andava dritta negli occhi ma, se si spegneva quella luce, si spegneva anche l’aria condizionata ed allora era il sudore che ci entrava negli occhi. Mio marito ha cercato di far capire questo inconveniente alla reception, ma nessuna della ragazze del banco, dall’inglese peggio che approssimativo, era in grado di capire un problema del genere. Rimandavano sempre a qualcuno di grado superiore, che forse aveva più dimestichezza con la tecnica ma non con l’inglese.

Mio marito ha dovuto far ricorso ad un disegno e questo non ci era capitato mai, in nessun posto del mondo, neanche in Russia. Il fatto è che le ragazze imparano a memoria in similinglese quanto serve al massimo per indicare dove si trova il più vicino bancomat (ATM), ma sono assolutamente inadeguate ad andare incontro alle esigenze dei clienti. Di fatto non capiscono una lingua diversa dal Thai.

Non conoscere l’inglese nella reception di un grande albergo è una grave manchevolezza, ma non era l’unica. Tutto aveva il sapore dell’approssimazione: i tempi erano elastici, gli appuntamenti potevano essere dimenticati, i clienti scambiati. Per essere sicuri (relativamente) di essere accompagnati in aeroporto alla fine del viaggio, abbiamo preso accordi con un taxi esterno, con parecchie ore d’anticipo, tanto gli albergatori ci sembravano inaffidabili qualunque impegno prendessero. Sono stata in ansia per tutto il pomeriggio e verso mezzanotte, quando ormai eravamo a bordo dell’aereo mi sono addormentata, stremata dalla tensione. Non ho avvertito il decollo.

Ovunque il problema della comunicazione è aggravato dal fatto che i tailandesi non amano dire di no. Per loro – come per i giapponesi – è scortesia, e allora piuttosto che dire “no” o “non lo so”, dicono di sì o inventano una situazione positiva che dovrebbe rassicurare chi si rivolge a loro. I primi cinque sei giorni, quando mi dicevano che la valigia era ferma in stazione e sarebbe arrivata l’indomani entro le otto, ho avuto la speranza che dicessero la verità. Poi ho capito che parlavano per consolami. Una totale inconciliabilità col mondo occidentale che ama in questo campo la sicurezza del dato e la mancanza di vischiosità, seppure a fine di cortesia. Un paio di volte ho detto a muso duro: lei mente, non è vero, ma ho visto che assumevano un’espressione sinceramente contrita. E mi è dispiaciuto. Noi occidentali dobbiamo apparirgli come barbari brutali. Dire la verità è un’insopportabile grossolanità.

Thailandia

Della Thailandia mi è rimasta qualche atmosfera; templi visti al mattino con la nebbia; monaci dediti all’accattonaggio come nei documentari. Un vivaio di orchidee, di indescrivibile bellezza. Una cupola d’oro. Un edificio candido a Chang Mai. Fiori di loto in uno stagno. La grazia delle ballerine che danzavano in un ristorante tipico, di cui mio marito si innamorava ad ogni passo, rimpiangendo di non potersele portare in Italia. Troppo poco.

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Mi è piaciuta la cordialità dei bambini, sempre ordinati, sorridenti e pronti a salutare. Ricordo alcuni alunni d’asilo che ballavano al ritmo di un brano rock. Sembra che i bambini vengano educati al rispetto degli adulti e mi piace vedere in questo l’influenza delle grandi civiltà limitrofe, Cina e Giappone. In Italia forse, a vederli così educati, penserebbero che sono creature maltrattate, uscite da un orfanotrofio.

In Thailandia ho sofferto il caldo e il freddo. Sono stata trattata da numero e da bancomat. Non ho avuto un vero contatto umano con nessuno. Non ho visto niente che abbia illuminato la mia mente e il mio cuore. Niente che mi abbia segnato o fatto insorgere in seguito la nostalgia di quella terra. Ricordo un momento d’emozione davanti al cartello del Triangolo d’Oro che indica la vasta zona di confine tra Laos, Birmania e Thailandia. Luoghi lontani dal Mediterraneo a ricordarci una storia estranea e spesso torbida. Ma è stata un’emozione intellettuale, al pensiero di quanta realtà ignorata c’è nel mondo, distante dalla nostra realtà personale, dalla nostra storia conosciuta e perciò rassicurante.

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In un viaggio segnato dalla mancanza, è mancata la vita.

Della Thailandia ho ricordi di cartapesta, lo stesso materiale con cui si costruiscono i personaggi dei carri allegorici, le scene per i drammi teatrali o i dragoni.

Anna Murabito annamurabito2@gmail.com

THAILANDIAultima modifica: 2022-02-04T22:31:01+01:00da helvalida
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7 pensieri su “THAILANDIA

  1. Niente di meglio che tornare a casa dopo una lunga permanenza in ospedale, e trovare sul PC questo bellissimo racconto di viaggio di Alida. La quale e’ brava a raccontare non meno che a poetare.
    Un racconto di viaggio quasi all’insegna della negativita’, un po’ come quello sulla Russia. Ma Alida non manca di trovare il bello. Nelle orchidee. Nei sorrisi dei ragazzi.
    Anch’io molti anni fa sono stato in Tailandia (soltanto Bangkok), e sono d’accordo con Alida su parecchie cose. Sul fatto che la’ l’architettura non sia vera arte, cosi’ come la intendiamo in Europa. I templi e il palazzo reale a Bangkok sono un accrocco di vetri colorati, mostriciattoli in pietra, e sembrano fatti di cartapesta. La gente e’ piacevole e cortese, ma lontana. Pero’ il cibo l’ho trovato buonissimo. E le ragazze, poi!
    Eppure se penso a Bangkok, soprattutto mi vengono in mente gli escrementi. Il sistema fognario non deve funzionare molto bene, la puzza nelle vie del centro c’e’ un po’ dappertutto. Perfino nel lussuoso Bayoke Sky hotel, dove abitavamo (pagato per fortuna dalla ditta farmaceutica sponsor del viaggio). Ci arrivava in camera con l’aria condizionata. E perfino nei frutti. C’era un frutto simile all’ananas, gustosissimo, ma la buccia aveva un inconfondibile, pungente odore di sterco.
    Un posto interessante. Ma anch’io, non credo che ci tornerei.

    • Ho aspettato che tu mi dicessi che eri in procinto di tornare a casa per pubblicare questo racconto che è il più amarognolo e deluso dei miei racconti di viaggio. Non si possono comparare la Russia e la Thailandia. La Russia ha l’arte, la letteratura, il balletto, la musica. I parametri della Thailandia sono molto lontani dai nostri e non c’è stato granché modo di intenderci in quei dodici giorni. Concordo con te che il cibo è delizioso, a parte i molluschi in brodo che ci diedero la prima sera, duri come proiettili. Ma poi imparammo a schivarli 🙂 e a godere del resto: una grande cucina.
      Non prevedo nessun soggiorno in ospedale per te nei prossimi anni: questo blog non è lo stesso senza di te e dovrei chiuderlo.

  2. Ottimo resoconto di un viaggio “sventurato”. Tanta passione, tanta attesa e tanta delusione. Ti capisco Anna. Troppo lontani da noi quei paesi perduti nel sud est asiatico. Non ci sono mai stato, ma capisco perfettamente il tuo disagio. Tu scrivi “Ogni tanto mi sforzavo di autoconvincermi che tutto fosse “bello”, ma la lode si fermava a mezza bocca.” Scritto con grande maestria e precisione, mi trova d’accordo specialmente se ripenso ad un viaggio fatto molti anni fa in Tunisia. Quasi la stessa sensazione di estraneità. Hai voglia a dire che siamo umani e tutto ciò che è umano in qualche misura ci riguarda! Io sento una assoluta lontananza con queigli “strani” paesi, con quelle civiltà e culture, e non credo debba sentirmi per questo colpevole di insensibilità. Ad Hammamet (per il decantato mare e non per un incongruo pellegrinaggio per un latitante colà riccamente ospitato) tutto era sgradevolmente esagerato dall’albergo con stanze di 70 metri quadri e telefono a fianco al water, da colline di pietanze fumanti su tavoli enormi e nello stesso tempo a storpi che chiedevano la carità o bambini che non ti lasciavano camminare con richieste di qualunque cosa. Mare deludente, ma soprattutto imperdonabile il fatto che gli uomini neppure rispondevano se mia moglie (donna) si rivolgeva a loro per qualche spiegazione… Mai più. Ognuno ha criteri di interpretazione della vita e si tenga i propri. E l’arte? In Tunisia qualche moschea nel deserto e poco più, invece, dalle preziose foto che hai riportato dalla Thailandia, mi sembra che almeno per questo argomento qualcosa si possa ricavare. Quei templi, quelle statue inespressive del Buddha mi sembrano visioni assai suggestive ossessivamente ripetitive, quasi oniriche. Simili costruzioni non possono essere considerate proprie della popolazione attuale, ma risalenti a qualche altra popolazione del passato, perché le architetture tanto complesse e minutamente decorate non sorgono per attività di singoli artisti o di poche persone, bensì di una intera comunità evoluta. Se non vogliamo parlare di arte (perché poi no?), dobbiamo riconoscere che tali prre sono assai vicine a tale concetto. Sono manifestazioni di una mente collettiva che ha saputo fermare il rigoglio di un idea religiosa e panica. Ripeto, stupende le immagini. E niente più tentativi di sentire civiltà troppo lontane dalla nostra vecchia e grande Europa. Complimenti.

    • Caro Giuseppe, come dicevo anche a Santuzza, ciascuno fa il “suo” viaggio: tu hai trovato suggestive le statue del Buddha; io le ho trovate inespressive e ripetitive. Il punto non è questo. Il punto è che, in un Paese in cui la Polizia aeroportuale non può fare una telefonata per dei turisti in difficoltà, non ci si sente protetti. In un Paese in cui un tassista può arrivare con due ore di ritardo o non arrivare affatto, rischi di perdere l’aereo e non hai più voglia di tornarci. E soprattutto, sempre come dicevo a Santuzza, non si tratta di “diversità” di culture, ma di confusione. La totale ignoranza che le guide manifestavano della cultura europea, le rende inadeguate alla gestione di gruppi che vengono dal Vecchio Continente, e le porta a sopravvalutare la produzione artistica del loro Paese. D’altra parte gli occidentali hanno a volte la pretesa di potere acquisire il pensiero di Buddha con un clic. Inconvenienti del turismo di massa e di gruppo. Sempre meglio viaggiare da soli.

  3. Carissima Alida,
    Ho letto in più puntate il tuo commento al vostro viaggio in Thailandia. Ho ammirato il sarcasmo, nuovo registro nel tuo linguaggio, di solito generoso e magnanimo nel descrivere i difetti che hai incontrato nei viaggi, questa volta straordinariamente pungente, ma adatto a raccontare questo paese, da altri osannato e reclamizzato.
    Mi sono “divertita” leggendolo, e ho deciso: “Non andrò in Thailandia”.
    Santuzza

    • Cara Santuzza, credo che la riuscita di un viaggio dipenda da una serie di coincidenze. Ecco perché le vicende dell’uno non saranno mai identiche alle vicende di un altro. In Thailandia, però, al di là del seguito di disavventure tutte di segno negativo, ho avvertito uno sgradevole sentimento di precarietà e di isolamento. E mi ha lasciato perplessa anche una sorta di assimilazione sgrammaticata, per cui i villaggi primitivi e la Cappella Sistina potevano essere messi sullo stesso piano di esperienze “culturali”..

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