VITTORIO

un racconto di Anna Murabito

Un amico che vive all’estero ha per vicini l’Ambasciatore del Canada e sua moglie. Recentemente mi ha parlato di un loro cordiale incontro, per così dire “ad alto livello”, ed il racconto di questo incontro è già un’avventura.

I miei vicini di casa sono di tutt’altro genere. I commercialisti, per esempio, sono bravi ragazzi parlando con i quali si fa una consistente scorta di ovvietà. Poi c’è una giovane ed attraente vedova con un figlio ventenne: ragazzo intelligente, viziato e velleitario. Frequenta una facoltà universitaria corrispondente alle vecchie Scienze Politiche e per laurearsi punta sulla generosità dei professori. Ma non basta, lui vorrebbe diventare “High Commissioner” cioè proprio ambasciatore, come il vicino del mio amico. Per questo fa leva sulla sua incompetenza – come è di moda – ed essendo del tutto disorientato economicamente, anche sulla pensione di reversibilità della madre, presumo. Infine abita nel mio stabile una signora ex Direttrice delle Poste col suo compagno, un onesto ingegnere.

Tutta gente normale, con le sue piccole vite. Anche la mia è una piccola vita. Al presente non ho nulla di avventuroso da raccontare.  

In passato, tuttavia, una persona diversa dal consueto l’ho conosciuta, tra i miei vicini. Nell’appartamento di fronte al mio per una decina d’anni ha abitato una donna anziana e ancora molto bella che faceva la dama di compagnia per aiutare il marito a sbarcare il lunario. Poi la famiglia ha traslocato ma è come se fosse ancora qui, tanto vivo ne è il ricordo.

La mia dirimpettaia aveva due figli. Della figlia non ho sospettato l’esistenza per anni. Del maschio, invece, ho conosciuto subito il nome: Vittorio. Il più importante della casa, piantato come un giavellotto nel cuore della madre. Fotografo di razza (forse un vero artista), vagabondo ed inquieto, nella vita concreta uno senza arte né parte. Appariva e spariva. Girava il mondo con più lena di un chierico vagante. Viveva un po’ a New York, un po’ in India, a Parigi, a Berlino, sempre con qualche donna innamorata disposta a proteggerlo e finanziarlo.

Bello, era bello: col fascino di Andy Garcia nel ruolo di Amedeo Modigliani. Con un’aria sensuale, abbandonata e torbida. Non si era mai tranquilli, incrociando il suo sguardo. Avrebbe potuto scambiare un semplice sorriso per proposta. In verità, adescarlo sarebbe stato assai poco conveniente: la madre era pronta a fare un solo boccone delle possibili concorrenti. Comunque mai avrebbe considerato “concorrenti” le ragazze con cui aveva vissuto il figlio: sciacquette, donne di passaggio, anche se con una relazione lunga dieci anni alle spalle. Non le ho mai sentito pronunciare i loro nomi. Ma neanche apprezzamenti negativi, in verità. Solo “non vedo l’ora di portamelo qui e di occuparmene io”.

Con la macchina scrupolosamente analogica a fare tutt’uno col suo corpo, con la passione esclusiva del bianco e nero, Vittorio sembrava a mezzo lutto anche nel cuore. Una depressione di vinto ogni tanto affiorava nel suo sguardo. La madre lo curava, forse. Certo lo accudiva. Cucinava per lui. Non lo disturbava: “È nella camera oscura”, diceva a bassa voce, quasi il figlio stesse celebrando messa. Ogni tanto l’ansia traspariva dalle sue parole semplici: “Sono preoccupata per Vittorio”.

Il suo occhio di fotografo vedeva solo l’uomo qualunque, non discostandosi in questo dagli stilemi del ventesimo secolo. Protagoniste dei suoi scatti le mille comparse quotidiane travolte dal movimento cieco del vivere. La storia senza storia dell’esistenza. Solitudine e solitudine, casualità ed alienazione, con quel grigiore di gesti e di espressioni di chi non si aspetta niente se non di prendere il prossimo treno.

Qualche volta anche il glamour della città scintillante, con la giovane donna ipertruccata che si specchia in qualche vetrina. In generale comunque immagini fredde: mai il dolore che brucia, il sudore della vittoria, lo sguardo crapulone e soddisfatto. Eventi fotocopia di vite fotocopia. Anche le ragazzine, lontane dal mito dell’aspettativa, lontane da quel “vago avvenir” che qualche grande poeta di due secoli fa aveva saputo immaginare. Nessun vago avvenire, in uno stordimento di nero e di velocità. Figure con le scie della corsa. Per afferrare non si sa cosa masticando chewing-gum. Immagini senza cassa di risonanza, in un affastellarsi di oggetti, di gesti e di respiri, a caso.

Giocando alla critica d’arte, di tanto in tanto ho espresso dei dubbi sulla sua produzione. Una volta, lui abitava in America, mi mandò un’immagine che non mi toccò il cuore come altre. Una donna dal sorriso indecifrabile, una sorta di moderna Gioconda derelitta e stracciona, un po’ fiduciosa, un po’ ebete. Per me troppo “politically correct” perché potesse commuovermi. Forse perché sono stanca di un Occidente che si batte il petto, sarei stata contenta di vedere l’immagine artistica di un bell’americano pasciuto e contento di sé, superficiale, certo, senza tarli nell’anima, tutto proteso alla produzione di beni e figli, ma comunque legittimamente felice. Non che io sia insensibile al dolore anche quando lo si adotta come fonte di ispirazione, ma il dolore è sempre personale e per questo non facilmente inseribile negli schemi espressi dai gruppi dominanti. Un sentimento che si confà al buonismo intellettuale di moda, perde verità e spessore, diventa di maniera.

Questo, più o meno, gli dissi quella volta.

Ho cercato di catturarlo, quest’uomo, non nella maniera temuta dalla madre. Gli ho scritto un paio di lettere, che mio marito, con scrupolo eccessivo forse, ha tradotto in inglese perché le donne che vivevano con lui non avessero l’impressione di avance inopportune rivolte al loro compagno. Lettere calde d’amicizia e di umana pietà che coinvolgeva anche me. Ho cercato di prenderlo al laccio del senso della vita e del dolore che la pervade, della ricerca di Dio, and so on.

Facendo questo anche a partire dall’analisi delle sue foto. In esse andare, venire, aspettare, sembrano attività senza senso; la velocità e la stasi si equivalgono e un treno grigio su un binario sporco non è meno degno di essere rappresentato del sorriso di una giovane donna. La pietra dei paesaggi si sovrappone al gesto eterno dei ragazzi che giocano a carte, degli uomini che sostano accanto agli strumenti di lavoro (spesso taxi), delle fanciulle che parlano sedute l’una accanto all’altra: la vita ci avvolge nella sua ostinata insignificanza, con una ripetitività che è solo perpetuarsi vano senza promesse.

Anche la bellezza e la poesia, là dove emergono, non volute e non cercate, sono una presenza non significativa e per questo non consolatoria. Il silenzio sembra il protagonista delle sue foto, anche quando rappresentano il traffico.

Un po’ di filosofia gli avrebbe fatto bene in quel suo andare vacuo ed innocente. Quell’esistenza visiva puramente “on the road” mi sembrava a volte inconsapevole. Ma le donne non gli davano le lettere – il computer apparteneva a loro – o lui non le leggeva e attribuiva il mancato riscontro alle donne. Vittorio. Nel nome un programma mai eseguito.

Quando tornava ci salutavamo con cordialità ostentata a nascondere un disagio mai vinto. Ed io, con la complicità di mio marito che mi ha a volte assecondato nel perseguimento delle cause perse, gli correvo dietro col lettore di Cd portatile per fargli conoscere Brel. Lui sembrava soffrire sulla sedia. In realtà voleva vendermi le sue foto e sopportava in silenzio, con piccoli grugniti di disagio, la lunga anticamera musicale. Brel non sono riuscita a farglielo amare, ma lui in compenso mi ha venduto molte fotografie che non mi pento di avere comprato. Sono lì, raffinate e sfuggenti nel mio corridoio. Sembrano mescolare la polvere inerte della vita.

    Quando hanno traslocato, mio marito ha recuperato per me nella spazzatura molte immagini. Alcune, opportunamente incorniciate, sembrano acquerelli color seppia.

    Chissà perché le ha buttate. Forse copie, forse sovrabbondanza di figure nella mente. Come facciamo tutti: vorremmo conservare i video, le foto che riceviamo anche quotidianamente con Internet e poi, quando il nostro computer è ingrassato tanto da scoppiare, cancelliamo tutto. Eliminando quella vita colorata e inutile che ci scorre davanti e ci confonde. Cerchiamo forse il silenzio degli occhi, la quiete, dopo la continua eccitazione in cui ci bagniamo. Rimpiazzata, a partire dall’indomani, da altra eccitazione, da altra vita che si snoda come continuo spettacolo. Quella di Vittorio era la “non vita” divenuta spettacolo. Come riuscire a fotografare il sangue che, ignorato, scorre nelle vene.

Oltre alle foto seppiate, forse troppo banali, senza la durezza metallica del non-essere, Vittorio buttò nella spazzatura un’immagine di donna bellissima, una fotografia strappata. Chissà, forse gliel’aveva strappata la madre. L’ho guardata molte volte quell’immagine, con disagio, come pensando di violare un segreto, persino una storia truce che avesse inondato di dolore vivo l’anima a mezzo lutto di Vittorio. Ho pensato persino di farla ingrandire e appenderla, a ricordare che l’amore si strappa, che la vita si strappa. Opera  d’arte dunque, in questi tempi grami, con tutto il suo significato retorico e simbolico. Ma poi non me la sono sentita. L’ho data a mio marito, che deve averla perduta, perché quando gliene ho riparlato non l’aveva più. Almeno così mi ha detto.

Forse era uno scrupolo eccessivo pensare di violare un segreto. Soprattutto rispetto a chi lo aveva buttato nella spazzatura, quel segreto. E poi ogni giorno violiamo i segreti dei poeti e degli artisti, che anzi proprio questo vogliono: essere cercati, scovati, indagati. C’è un che di masochistico in chi scrive o dipinge o compone.

Non saprò mai cosa c’era dietro quell’immagine. Forse solo un uomo che avrà deciso di consegnare al nulla una delle tante: “E anche con questa, basta”. Ma quel volto rimane legato al fondo nascosto dei miei pensieri, quei neuroni che accoppiano vite e intrecciano storie per non morire di solitudine.

Anna Murabito      annamurabito2@gmail.com

VITTORIOultima modifica: 2022-08-07T14:17:02+02:00da helvalida
Reposta per primo quest’articolo

4 pensieri su “VITTORIO

  1. La bellezza e la poesia della vita vera, fatta di facce, incontri, parole, caratteri umani diversi… e segreti!
    Complimenti per quest’altro bel racconto! È la vita che ci riempie di “stories” ma noi dobbiamo essere bravi a formarle, plasmarle, in maniera giusta.

    peter

  2. In qualita’ di comparsa in questo scritto (l’ “amico che vive all’estero”), mi sembra doveroso commentare.

    Ma che commento, da povero essere limitato quale sono? Qui c’e’ il genio, come al solito. Si parte da un banale racconto di un conoscente, e si arriva alla filosofia, alla triste inutilita’ delle azioni che compiamo durante la nostra esistenza.

    A proposito delle foto lasciate da Vittorio nella spazzatura:

    “Chissà perché le ha buttate. Forse copie, forse sovrabbondanza di figure nella mente. Come facciamo tutti: vorremmo conservare i video, le foto che riceviamo anche quotidianamente con Internet e poi, quando il nostro computer è ingrassato tanto da scoppiare, cancelliamo tutto. Eliminando quella vita colorata e inutile che ci scorre davanti e ci confonde.”

    Questa e’ la vita. Una raccolta di foto ingiallite di cui facciamo tesoro per un certo tempo, e poi finiscono nei rifiuti. Mi viene in mente, chissa’ perche’, la figura di Bendico’, il cane del Gattopardo. Che dopo essere stato amato dal principe di Salina, e dopo morto essedo stato impagliato, alla fine viene dai nuovi proprietari buttato giu’ dal balcone, nella spazzatura. Tout passe, tout lasse, tout casse.

    Alida, posso solo dire: Brava.

I commenti sono chiusi.