CASE E COLORI

di Anna Murabito

Dicono che chi colleziona oggetti lo fa perché non vuole morire. Chissà se è vero. Io ho collezionato per decenni riviste d’arredamento e le ho tutte, ordinatissime e bianche, in mezzo ai libri. Anzi per la maggior parte al di sopra dei libri, negli scaffali vicini al soffitto. Vicine al cielo? Vicine al sogno? Non credo, sono lì semplicemente perché non posso tenerle tutte a portata di mano, quelle più lontane negli anni non le sfoglio più. Ho guardato e amato ogni tipo di casa: vestita e preziosa, spoglia e “orientale”. Non ho mai saputo decidere se scegliere la canapa o la seta.

Da bambina disegnavo case di ogni colore; da adulta le ho guardate e immaginate. La persistenza quasi ossessiva di questo amore nella mia vita me lo fa annoverare tra le manie e mi induce a stabilire semplici equivalenze: “casa” è innanzi tutto bisogno di protezione. Il fatto che le case immaginate fossero sempre belle complica le cose, perché per la protezione basta poco – avendo viaggiato spesso in tenda so di cosa parlo – mentre il desiderio di bellezza è più difficile da spiegare e può suonare presuntuoso. E poi la protezione tutti sanno cos’è, la bellezza è un concetto multiforme e non oggettivo.

La mia mente, quale che sia la ragione, è stata piena di case e di invenzioni che ho messo a volte anche al servizio degli amici, guadagnandomi il titolo usurpato di architetto. Abbiamo spesso sorriso di certe scenette nei negozi: “L’architetto vi sta consigliando bene”. E indicavano me. Io comunque, è ovvio, non mi sono mai sentita un architetto (per i calcoli, sono ferma al concetto di “sassolini”) né tanto meno mi sono presentata come tale: al massimo ho detto che conoscevo diversi sistemi per appendere i quadri, primo fra tutti quello di disporli faticosamente sul pavimento e spostarli fino a trovare l’accostamento convincente. Naturalmente, raddrizzarli è più che un bisogno, è una necessità, uno dei punti fermi dell’esistenza. E ho dovuto trattenermi dal farlo a casa d’altri.

Non so come spiegare la presenza nella mia mente di case che non ho mai avuto. Eppure sono lì, vive, con un’inquietante sensazione di déjà-vu. Soprattutto due. 

Vedo una casa con i muri spessi, imbiancata a calce, l’ammattonato di cotto, ombrosa e fresca all’interno, abbacinante fuori. Le tende di lino bianco, l’odore amaro del geranio rosso, la mente che corre alla vista dei letti: singoli, rigorosi nelle loro copertine di cotone, forse con i materassi di crine sopra trespoli di ferro. Riposo, inerzia, notti con gli occhi spalancati ad aspettare la luna, le onde della luce bluastra, le difformi appendici dei sogni inconfessabili del giorno. Svegliarsi sudati in quei letti, le membra sciolte, il cuore in affanno, l’avvenire lungo, il sole inamovibile anche se sei triste.

Con questa casa pago il mio tributo al sud e al passato. Il resto delle mie visioni si svolge in un’atmosfera vagamente nordica e atemporale. Lì si trova la seconda casa protagonista: la  casa per il fine settimana. Quella in cui si va il venerdì sera, con la sacca da viaggio lasciata pronta il lunedì, così ogni giorno che passa acquista un più ampio margine di tollerabilità. Non so bene com’è all’interno. So che è sempre autunno (un’altra delle mie manie, non da collezione, però).

La avvolge un’aria umida e profumata, con l’acero rosso nella bruma leggera e le foglie cadute lungo il sentiero di terra battuta. È l’autunno classico: funghi, mele, bacche, ciclamini. Un sentimento straziante di fine del mondo nella gloria. Uno stordimento di colori e di fragilità.

Questa casa appartiene alle mie visioni tanto quanto la prima, ma segna un’evoluzione: l’esterno diventa fondamentale. Anche nella realtà abbandono sempre più volentieri i divani per vivere in simbiosi col mio pruno e la jacaranda, gli alberi di cui parlo sempre. L’altra notte una pioggia improvvisa si è precipitata proprio sul pruno, che ha un andamento a cespuglio pur essendo alto sei metri. La mattina i rami erano sdraiati come ubriachi sulla ringhiera del balcone e, dove non avevano trovato appoggio, pendevano miseramente. A poco a poco li ho liberati dalle inferriate e li ho scossi lievemente sgrondandoli dall’eccesso d’acqua. L’amore mi spingeva ad alitargli addosso come il bue e l’asinello del presepe, ma il mio senso della misura ha avuto la meglio. Ed anche il senso dell’opportunità: ho le visioni, ma non “importanti” e “severe” come quelle di Giovanna d’Arco. Ho controllato i rami, comunque, mentre risalivano verso il cielo, dove macchie azzurre cominciavano a interrompere il grigio.

Tempo fa ho detto che avrei voluto morire adagiata su un fianco come una barca bretone, ma fuori contesto sembra un’affermazione artificiosa e retorica. Non si può scegliere come morire e la morte non è mai poetica. Vada come vada, allora. Viaggio con i miei alberi, questo lo posso fare, loro non si pongono domande. A primavera il viola e il vinaccia, con l’azzurro chiaro del cielo fanno un bell’accordo, quasi un trio. In altri tempi avrei pensato a realizzare cuscini di questi colori, ma l’arredamento mi interessa sempre meno.

Non vorrei che mi fosse venuta una nuova mania, quella di vivere in un paesaggio. Il mio inconscio rinuncia al desiderio di protezione – così tenace lungo tutta la vita – e cede il posto a una fantasia, ad una follia leggera ed innocua. Io, che ho tanto amato la casa, divento nomade e passo dalle steppe dell’Asia centrale, dove solo il vento ha diritto di parola, alle fioriture forsennate dei giardini giapponesi. Ritrovo l’anima blu del silenzio nelle pozzanghere dei campi, dopo la pioggia; vedo il rosa speranzoso e paziente delle aurore rinnovare ogni giorno le sue promesse.

E poi c’è tutto nella natura: Talete, Anassimandro e Anassimene. Forse anche Anassagora. Scherzo, perché non ricordo bene quali fossero i principi ispiratori della loro filosofia. Però, a saper guardare, c’è tutto veramente in un paesaggio: l’essere e il divenire, il macrocosmo e il microcosmo e, naturalmente, la vita e la morte. Il quadro è sempre diverso in un film a colori ininterrotto.

  Forse inavvertitamente ho trovato la soluzione. Non sono le case che mi interessano e non sono nemmeno i paesaggi. Sono i colori che mi avvincono e determinano i miei ritmi vitali. I colori sono i padroni dei miei pensieri. I colori sono il mio rimpianto.

Anna Murabito     annamurabito2@gmail.com

CASE E COLORIultima modifica: 2022-10-05T18:10:43+02:00da helvalida
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4 pensieri su “CASE E COLORI

  1. Intreccio tra realta’ e fantasia, descritto in un intreccio tra narrativa e poesia. I pensieri e le visioni si susseguono velocemente e spontaneamente, passando dall’ordine delle riviste e dei quadri alle case immaginate, all’ amore per la natura, e infine, abbandonando le forme, restano semplicemente ed essenzialmente i colori. Un inno all’astrattismo. Grazie Alida.

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