CÉZANNE

di Anna Murabito

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Nell’elenco dei pittori felici e infelici, Paul Cézanne (Aix-en-Provence 1839-1906) è nella colonna degli infelici. Questa collocazione dovrebbe essere una sorta di garanzia: il dolore è il retroterra di tanta parte della produzione artistica. E invece per Cézanne le cose si complicano. La sua infelicità è diversa da quella inerme e dolente di Utrillo; da quella bruciante di Van Gogh; da quella implacabile e astratta di Mahler. La sua sofferenza è murata nel suo io, è aspra, incattivita, rude. È “intransitiva”, come certi verbi. Il male di vivere del pittore non diventa tramite e non apre un varco sulla condizione umana.

Cézanne è misterioso, a volte oscuro. Ho letto che quella delle sue prime opere è “una bellezza difficile”. E l’aggettivo “difficile” compare in più di una recensione, non sempre riferito alle prime opere. Quale che sia il motivo, non si riesce a trovare un’immediata consonanza con molti dei suoi dipinti. Le riproduzioni degli Impressionisti sono arrivate in tutto il mondo, tanto è chiaro e lineare il loro messaggio, e le copie delle Madonne di Raffaello erano presenti nei “capezzali” della stanza da letto della gente umile, quando magari quella stanza era l’unica della casa. Invece in giro non si vedono molte riproduzioni di Cézanne. E ciò mentre gli interventi critici e le monografie su questo autore si sprecano: non c’è collezione di libri d’arte che non comprenda un volume a lui dedicato. A detta degli esperti è un grande. Ma forse la sua grandezza è stata misurata non col metro dell’emozione ma con quello del valore storico e culturale della sua opera.

Cézanne è l’anticipatore del cubismo e della pittura astratta. E con lui comincia quel progressivo allontanamento degli artisti dal grande pubblico che ha determinato uno dei tanti fraintendimenti del Novecento: l’arte come pratica esoterica riservata agli iniziati. Che è stato un modo erudito di assassinarla. Non può essere che Šostakovič sia un grande compositore, se nessuno fischietta una sua aria. A parte il famoso valzer, che è poca cosa nella sua vastissima produzione. Può darsi che come compositore Šostakovič sia più sapiente di Verdi, e sicuramente lo è stato come sinfonista, ma il pubblico che assisteva alla prima del Nabucco si innamorò di “Va’ pensiero” e cominciò subito a cantare quel motivo così orecchiabile e colmo di pathos che a più riprese si è pensato di utilizzarlo come inno nazionale. Cosa sicuramente improponibile con una sinfonia di Šostakovič.  Čajkovskij è eccessivo, enfatico, a volte retorico, ma ha creato melodie immortali. Lo stesso inno nazionale della Russia Sovietica era di una bellezza così entusiasmante che un liberale occidentale poteva per un momento essere tentato dal comunismo.

L’approvazione dei critici e dei filologi non pesa molto. Il capolavoro non è definito né dal consenso dei critici, né dal consenso popolare. È definito dalla presenza di ambedue, come nel caso dell’Iliade e dell’Odissea. L’opera d’arte “astrusa” non andrà mai molto lontano. La bellezza “difficile” rimarrà confinata nelle pagine dei libri o nelle colte dispute degli esperti. Troppa gente non è riuscita a leggere Joyce.

Essendo l’antesignano della pittura moderna, Cézanne si è collocato in un territorio di confine. A questo si deve forse quel disorientamento che coglie esaminando le sue opere. C’è in esse l’eterogeneità di stili e di intenti tipica di chi ancora cerca e sperimenta, tanto che lo sforzo di innovazione fa passare la sua poetica in secondo piano. I dipinti corrispondono più ad un intento programmatico che a uno stato d’animo, se si esclude il desiderio di isolamento conseguenza del suo oscuro malessere esistenziale.

La biografia di Cézanne è solo apparentemente movimentata dai frequenti viaggi. In effetti è la storia di infiniti rimbalzi. Dalla Provenza si spostò molte volte per soggiornare a Parigi, a Pontoise e in altre località della Francia ma sempre ritornò in Provenza: il suo rifugio, la sua unica dimensione di lupo solitario. Non sono chiari i motivi del suo disagio. Non conobbe mai le ristrettezze economiche (il padre addirittura rilevò una banca fallita), non ebbe mai la preoccupazione di dover vendere i suoi quadri per mangiare, fece studi classici regolari, visse con Émile Zola un sodalizio (durato trent’anni) appagante sul piano affettivo e culturale, nonostante la delusione della fine. Tutti i biografi parlano di un’adolescenza felice, libera e appassionata tra gite all’aperto e scorribande – anche nel mondo della poesia – insieme all’amico Zola e a Jean-Baptiste Baille. Tra una carriera di avvocato al servizio delle attività di famiglia e i progetti di pittura, poté scegliere questi ultimi con relativa tranquillità. Ebbe contrasti col padre, è vero, ma quale padre borghese è contento di avere un figlio pittore? Eppure è descritto come un uomo tormentato e indeciso, permaloso, trasandato nel vestire, collerico, impulsivo, aspro e scontento. C’è qualcosa di non risolto nella sua mente e nella sua anima, a dispetto di una vita tutto sommato tranquilla.

Cosa cercava in una provincia retriva e bigotta qual era la Provenza alla fine dell’‘800? Non è facile entrare in sintonia con i suoi contadini (I giocatori di carte) rigidi come statue di legno: giocano a carte in una bettola, con una bottiglia di vino sul tavolo. Chi sono? Quando guardiamo “I mangiatori di patate” (Van Gogh) “L’absinthe” (Degas), o il mondo postribolare di Toulouse-Lautrec, abbiamo subito la netta coscienza di una condizione umana coinvolgente e inequivocabile, di una rappresentazione artistica senza sbavature. Non così con i contadini di Cézanne, soggetti privi di una nitida individualità. La stessa indeterminatezza si riscontra nei Fumatori di pipa che guardano nel vuoto. I loro occhi, simili a buchi neri, ricordano la “Cacciata di Adamo ed Eva” (Masaccio) della Cappella Brancacci di Firenze. Ma lì la scelta espressiva identifica il dramma, come una maschera teatrale greca. Qui i pensieri incerti e lontani dei protagonisti non si indovinano.

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A parte la rudezza dei contadini, c’è come una greve materialità in tutte le opere del primo periodo di Cézanne. Ed anche quando lo stile del pittore si è evoluto ed affinato, rimane una sorta di disarmonia, di disaccordo col mondo; un mistero da custodire o un’esperienza da nascondere che si esprime in primo luogo nella scarsità di figure femminili e di ritratti di donne. Se si escludono i numerosissimi ritratti di Hortense, la moglie, dipinta in pose ed atteggiamenti che la rendono difficilmente assimilabile ad un sogno erotico: dura, legnosa, inespressiva, senza risonanza interiore se non una tristezza più suggerita che rappresentata.

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Con gli abiti della quotidianità provinciale, è simile alla domestica (Donna con caffettiera). 

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Pare che il loro matrimonio sia stato grigio, o peggio. Oltre ai ritratti della moglie, una casta e compunta ragazza (forse Rose, la sorella) raffigurata mentre suona il pianoforte in un interno domestico (Ragazza al pianoforte), una mesta Signora in blu, una scoraggiante Donna con abito rosso. Quello che manca è un’innamorata, un’amica, un sorriso. Nei confronti delle donne reali non si scorge mai un tratto di tenerezza.

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Alcune figure femminili, Una moderna Olympia, Pastorale, Betsabea, appartengono al sogno. E la dimensione onirica consente all’autore di rappresentarle bianche, morbide e sensuali, quasi paradigma dell’eterna, irresistibile fantasticheria maschile di una donna offerta e vogliosa.

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Le altre immagini di donne e uomini (Il festino, Le bagnanti, Le grandi bagnanti, I bagnanti) turbano per una sorta di eccesso di corporeità, per le deformazioni volute e sgradevoli, per le pose scomposte e quasi simiesche. L’esecuzione sommaria e sbrigativa, prima di essere tecnica innovativa, fa pensare ad istinti primordiali, a smanie incontrollabili e inappagate. E nello stesso tempo quasi al desiderio di “liquidare” l’argomento umanità. Nella muscolarità maschile c’è qualcosa di titanico che va oltre Michelangelo e confina col brutale.

Cézanne ritornò molte volte su questo tema, allontanandosi dagli schemi classici dello studio del nudo e assimilando uomini e donne a qualunque altro elemento della natura (un tronco, un masso): un’umanità priva di un corpo anatomicamente plausibile e ancor più priva di anima. Torna e ritorna sul tema per creare una realtà alternativa, per annientare l’umanità. E non sembra solo una questione di stile. Forse il problema di Cézanne è il rapporto con gli esseri umani. E forse proprio per evitare questo rapporto si rifugia in campagna. C’è qualcosa che lo angoscia, qualcosa di cui ha paura. Ecco perché trova rassicurante dipingere innocui giocatori avvinazzati e fumatori di pipa immemori del mondo: fanno parte del paesaggio, sono silenziosi e immobili come le montagne. Sembrano soli anche quando sono in compagnia. Da loro a Paul non può venire niente di negativo. Se li può permettere. Lui, che pare non volesse essere toccato.

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Più a suo agio egli si trova nella rappresentazione pittorica dei suoi amici di sesso maschile. Gli amici li conosce e li ama. Qui c’è una confidenza che non teme il sentimento, ed ecco la malinconia degli sguardi, la presenza di un’anima individuabile. Per tutti è emblematico il ritratto di Achille Empéraire. Le gambette gracili negli indimenticabili mutandoni, le mani di un morto, la testa più grande del normale, l’espressione tenera. Sembra una creatura da circo, un nano abbandonato. Il pittore vuole sottolinearne la debolezza e il bisogno, e ha voglia di proteggerlo. Per la prima volta, dopo le immagini esagerate e violente, (La Maddalena, La donna strangolata), un dipinto che tocca il cuore. Pur rimanendo in questi ritratti, e in particolare negli autoritratti – duri,  severi, aggressivi e quasi respingenti – un tratto forte, la tendenza ad una pittura couillarde, (letteralmente con i coglioni, cazzuta, diremmo in italiano) come, con un’espressione non precisamente elegante, la definì lo stesso pittore. Si riferiva allo stile di pittura adoperato, ma è una definizione che si attaglia anche ai soggetti rappresentati.

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Oltre ai ritratti, Cézanne dipinse prevalentemente paesaggi e nature morte. Qui non c’è umanità, quindi non c’è paura né angoscia. “Isolamento: questo mi ci vuole. Così nessuno può piantarmi gli artigli addosso”. Così si esprimeva l’artista  prima di rifugiarsi al Jas de Bouffan, una tenuta acquistata dal padre e diventata la sua tana nei momenti di crisi. Fortunatamente la natura non ha artigli, per lui. Ma ugualmente la spoglia e la semplifica. Non solo la priva della presenza umana ma la riduce all’osso: elimina progressivamente anche le case e gli alberi, lasciando di essi solo qualche traccia da indovinare. Sembra voler dipingere il silenzio, ancor meglio quei “sovrumani silenzi” di Leopardi, quell’indefinibile essenza delle cose cui tendeva. Trova soggetti ancora più appetibili nei frutti, nei bricchi, nelle immobili tovaglie. Docili, eternamente pazienti. Non deve richiamarli come i modelli che costringeva ad estenuanti sedute. “Dovete essere come le mele, forse le mele si muovono?”. Sui frutti esercitava la sua ricerca di semplificazione: “Con una mela stupirò Parigi”.   

Per gran parte della sua vita cercò un successo e una considerazione che i contemporanei gli negarono. Queste frustrazioni determinarono in lui un sentimento di sconfitta, ma insieme accrebbero la sua consapevolezza di artista ed innovatore. Più si sente respinto, più nasce in lui una sorta di risentimento per chi non lo comprende e un atteggiamento di sfida. Ecco perché si presenta, anche nei ritratti, come un volitivo guerriero. Questo non lo esime dal continuare a cercare pazientemente di essere apprezzato. Cosa che avvenne nella parte finale della sua vita senza determinare particolari mutamenti nella sua esistenza. Continuò a dipingere in solitudine, come abbrutito, incurante dei ragazzi che lo irridevano per strada. Dipingeva a pennellate brevi, come tessere di un mosaico che si compone allontanandosi dal dipinto. Il suo studio, povero, era pieno di mele verdi.

La sua spinta innovativa divenne ossessione innovativa, con la ripetizione estenuante degli stessi soggetti (decine di volte dipinse la Montagna Sainte-Victoire, che vedeva da una finestra del suo studio) cercando ogni volta di  portare alle estreme conseguenze la sua ricerca: non voleva dipingere la fuggevole impressione, ma andare oltre l’apparenza per arrivare al cuore del reale, alla sua remota, ultima essenza. Ecco perché ogni quadro è diverso dall’altro, ma tutti rispecchiano lo stesso tormento.

Parlò molto di geometria nella realtà, di rappresentazione pittorica attraverso la sfera, il cilindro e il cono. Teorizzò le sue scoperte e le sue ambizioni. Queste numerose dichiarazioni spostano l’attenzione sul piano intellettuale e forse l’errore di tutto ciò che gravita intorno a Cézanne è proprio l’eccesso di intellettualità e di parole. Lui stesso parla molto: spiega, commenta, elabora. Si espone alle facili critiche: ci fu chi disse che aveva la mente confusa e non sapeva neanche lui quello che cercava.

Da quando sono nate le teorie estetiche, i cartelli, i manifesti, e le conseguenti battaglie per affermarle come ricette per le opere d’arte, sono aumentate le parole e sono diminuiti i buoni risultati. Non esiste la ricetta per il capolavoro. In realtà, un libro, un quadro, una musica non si giudicano in base ad una teoria e neanche in base alla realizzazione di quella teoria. L’arte non è teorema, non è geometria, non è filosofia. Ammesso che dipingere la Montagna Sainte-Victoire sempre più spoglia sia la cosa giusta da fare per coerenza con la teoria elaborata, poi bisogna vedere se il dipinto ha validità estetica. Perché questa è l’unica cosa che conta. E bisogna vedere se i frutti quasi informi delle Nature Morte di Cézanne siano preferiti dal grande pubblico a quelli di Caravaggio, il cui canestro (Ragazzo con canestro di frutta) è entrato anche negli stereotipi della pubblicità, alimentare e no.

Riguardo a Cézanne i critici si affannano a parlarci del rapporto tra luce e colore e della sperimentazione di una prospettiva multifocale. Dovrebbero invece dirci perché queste “invenzioni” sono da considerarsi arte, e in che misura rappresentino un progresso rispetto ai parametri classici. Dovrebbero entrare nel merito artistico delle opere, perché parlare solo di tecnica è come illustrare lo schema di un famoso sonetto – “Alla sera” del Foscolo – senza far capire perché è un capolavoro.    

Chi frequenta i musei e guarda i dipinti, non conosce né le teorie né la storia delle opere. Ed ha ragione. Non ha il dovere di sapere nulla: lui è il destinatario del messaggio, non l’interprete o l’esegeta. La pittura non si spiega, non è per i critici, come non si spiega la poesia, che non è per i letterati. Così per Cézanne è inutile ribadire la semplificazione delle sue immagini rispetto all’Impressionismo: si vede. Anche chi non è uno studioso, avverte l’innovazione, il cambiamento, la modernità delle sue opere rispetto a quelle di Monet. Ma anche questo non conta. Negli occhi rimane il verde dei suoi paesaggi silenziosi e salvifici, i frammenti di colore che vagano nell’aria e si compongono in una realtà riconoscibile e insieme sognata. “Essenza delle cose”? Non importa. Possiamo chiamare tutto questo “bellezza”. 

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Cézanne morì solo come solo era vissuto. Colto da un terribile temporale, ebbe un malore e rimase incosciente per ore sotto la pioggia. Portato a casa su un carro cercò presto di rimettersi al lavoro, incurante delle sue condizioni, ma una polmonite lo portò rapidamente alla morte. Hortense e Paul, il figlio, che erano fuggiti a Parigi per sottrarsi ai suoi eccessi di solitudine, non fecero nemmeno in tempo a ritornare.

Il contatto con Cézanne uomo lascia l’amaro in bocca. Sarà stato intrattabile e scorbutico, ma era un artista, soffriva, e si amerebbe potergli tendere la mano. Soprattutto quando non si riesce ad evitare un’onda di commozione al racconto della sua fine.

Anna Murabito    annamurabito2@gmail.com

CÉZANNEultima modifica: 2023-01-17T18:02:42+01:00da helvalida
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6 pensieri su “CÉZANNE

  1. Grazie mia cara amica geniale, perché con le tue pubblicazioni mi stimoli e mi offri occasioni per approfondire le mie conoscenze..

  2. Grazie Alida, di questo mirabile tentativo di comprendere l’incomprensibile, cioe’ Cézanne. Un pittore che si dichiaro’ piu’ volte incompreso, paragonandosi al Frenhofer di Balzac. A un genio, cioe’, ferocemente ossesso da una visione, alla ricerca della perfezione, alla stregua di Rembrandt nei suoi ultimi anni. Il suo continuo dipingere e ridipingere la Montagna Sainte-Victoire ne e’ testimonianza.
    Non sono, peraltro, completamente d’accordo con te quando scrivi che “con lui comincia quel progressivo allontanamento degli artisti dal grande pubblico che ha determinato uno dei tanti fraintendimenti del Novecento: l’arte come pratica esoterica riservata agli iniziati. Che è stato un modo erudito di assassinarla. Non può essere che Šostakovič sia un grande compositore, se nessuno fischietta una sua aria.”
    Io credo che l’arte trascenda l’apprezzamento del grande pubblico. Cosi’ come la scienza purtroppo deve trascendere la capacita’ di comprensione della maggioranza, e proseguire per la sua strada. Si pensi alla teoria della relativita’, o alla fisica quantistica.
    Comunque Alida, un grandioso articolo, assai ben scritto e ottimamente impaginato, sprizzante intelligenza e cultura. Continua cosi’. Dopo Bosch, Manet, Monet, Utrillo, Chagall, Pierneef, Cézanne (e forse qualcun altro che mi e’ sfuggito), ci sono ancora “solo” un centinaio di altri pittori da descrivere. Io per conto mio, continuo a collezionare.

    • Grazie per il commento, caro Nicola, come al solito colto e stimolante, oltre che lusinghiero.
      Il parametro dell’arte è il gradimento, quello della scienza è la verità. E la verità non è sottoponibile al giudizio del pubblico che spesso ignora totalmente gli argomenti trattati.
      L’arte si rivolge a tutti, colti e incolti, perché opera sulla sfera delle emozioni. Il pubblico delle Tragedie Greche era composto prevalentemente da analfabeti, ed erano loro che assegnavano il premio, apprezzando soprattutto Sofocle. Comunque nello stesso articolo dico che “il capolavoro non è definito né dal consenso dei critici né dal consenso popolare. È definito dal consenso di ambedue”.

  3. “Il capolavoro…e’ definito dal consenso di ambedue” (critica e pubblico). Anche qui sono solo parzialmente d’eccordo. Il successo di pubblico non ha mai significato molto, e altrettanto, a volte, quello di critica. Van Gogh vendette un solo quadro in tutta la sua vita, a suo fratello. Pittori come Rembrandt e Goya negli ultimi anni si allontanarono dal successo pubblico, ciascuno seguendo la propria via e ispirazione.
    Il pubblico e’ canaglia (con rispetto per i cani). Per fare un esempio cinematografico, il 1973 vide l’uscita di film come Roma (Fellini), American Graffiti, Sussurri e grida (Bergman), L’esorcista, Ultimo Tango a Parigi, Papillon, Serpico. Bene, in Italia il campione di incassi fu “Anche gli angeli mangiano fagioli”, con Bud Spencer. Questo e’ il pubblico.E non e’ che la critica sia poi tanto migliore.
    Alida, tu come scrittrice e poetessa sei quello che sei, e non mi dilunghero’ in lodi. Ma quanta gente ti conosce? E la scarsa popolarita’ ti sminuisce come artista?

    • Ci vorrebbe un altro articolo per rispondere adeguatamente e forse non basterebbe. Cerco di stabilire qualche punto fermo.
      Tra “La chiamata di Matteo”e “Les demoiselles d’Avignon”, il grande pubblico (qui mi sto riferendo al pubblico informato e interessato all’arte) preferisce Caravaggio. Così come se mettiamo a confronto il David di Michelangelo con le pur suggestive sculture di Giacometti. Questo significa che bisogna preferire il passato? No di certo. Sarebbe bello comparare i capolavori del passato con i capolavori del presente. Solo che il presente non produce capolavori, anzi non produce arte, bisogna rassegnarsi ad ammetterlo. O, se vogliamo chiamarla arte, è un’arte che non comunica, e dunque perde la sua funzione principale. È questo che ho chiamato scollamento, allontanamento tra l’autore e il fruitore. Non è facile capire perché, così come è misteriosa la fioritura unica dell’antica Grecia e del Rinascimento.
      Forse anticipatrice di questa decadenza fu l’idea che all’artista tutto fosse permesso, per creare “qualcosa di nuovo”. Così l’arte divenne progressivamente una fonte di trovate, invenzioni, espedienti sempre più arditi e bizzarri. In pittura si cominciò con l’abolizione della prospettiva classica e la conseguente deformazione della realtà per arrivare alla vernice scagliata sulla tela (per vedere di nascosto l’effetto che fa).
      I critici spesso hanno avvalorato questa tendenza, arrampicandosi sugli specchi per trovare meriti artistici ad opere fasulle e a volte demenziali. Io credo che bisognerebbe avere il coraggio di affermare che il re è nudo. Così come, invece di assecondare la proliferazione di carta stampata a danno delle foreste, bisognerebbe dire chiaramente che non si può scrivere un romanzo o una poesia senza avere letto, quasi che si potesse trovare in una miniera nascosta della mente tutta la ricchezza di una lingua che non conosci (Platone).
      Quanto al pubblico che sceglie Bud Spencer, non mi meraviglio di certo in un’Italia culturalmente provinciale e vagamente infantile. Ma non stiamo parlando di questo, come non stiamo comparando il successo di pubblico di Mozart con quello di Claudio Villa.
      Van Gogh non fu riconosciuto in vita come artista. È vero. Non ho mai sostenuto che il riconoscimento del grande artista sia automatico: l’affermazione di un artista dipende da una serie di fattori, non ultime le coincidenze favorevoli o sfavorevoli. Chissà quanti manoscritti degni di essere conosciuti esistono nel mondo. Magari non verranno mai a galla, mentre Internet ci invade di scemenze.
      Peccato che nell’arte contemporanea non ci sia un capolavoro che ci metta tutti d’accordo. Qualcosa di simile ai grandi film di Fellini (a partire da “8,1/2”) che hanno entusiasmato il globo terracqueo e innovato artisticamente il linguaggio cinematografico.

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