UNA CRITICA LETTERARIA

LA PERFEZIONE DEL CERCHIO

recensione di Anna Murabito

“La perfezione del cerchio” di Giovanna Tamà, Algra Editore, 2019, è un romanzo che riserva delle sorprese. La prima è la scoperta di una scrittrice di razza, un’autentica incantatrice di serpenti che tiene il lettore incollato al libro. Si vuole vedere “come va a finire” e si porta la lettura fino in fondo, facendo tardi. Il piglio sicuro e l’enorme facilità espressiva sono pregi inconfutabili della sua narrazione. Queste qualità sono tanto più gradite in quanto il nostro presente ci ha infelicemente abituati ad una mediocrità che non risparmia nessun campo e che raggiunge il culmine proprio nell’ambito della letteratura. Qui impazza una insensata improvvisazione: si pretende di scrivere romanzi e poesie senza un adeguato retroterra culturale e talvolta senza aver letto neanche le antologie scolastiche.

Un’altra sorpresa è che ad una grande scrittrice non corrisponde un grande libro.

Il romanzo racconta le vicende lunghe e intricate di una famiglia di nobili siciliani. Questi Buddenbrook di provincia sembrano agire e parlare, ma in realtà sono a due dimensioni. Sono “tipi umani” di una commedia che si dipana sotto il cielo basso della prevedibilità e dell’immutabilità. Il vecchio barone che in gioventù “si è divertito” e poi ha scelto una ragazza forte e sana per “figliare”; la fedele governante; la donna bella e fatua; l’amica assennata; la sposa frigida che ha accettato un matrimonio d’interesse e prega Dio di farla morire la prima notte di nozze; il giovane “biondo e bello e di gentile aspetto”, barone, pacifista, antimilitarista, antifascista, e che altro? Socialista naturalmente, e contro la caccia fin da bambino: “Papà, cosa ti aveva fatto il coniglio, perché lo hai ucciso?”. E poi il giovane fascista aitante e spudorato, con le spalle larghe e i capelli impomatati; il gerarca dal sorriso “crudele”, come si addice alla sua divisa, e le tirate antifasciste che punteggiano la narrazione, quasi a simulare un’opposizione al regime se non generalizzata almeno serpeggiante: passione politica in verità improbabile in un’isola marcatamente incline al disincanto e più tendente al sarcasmo che alla ribellione. Le vicende arrivano ai nostri giorni col giovane rampollo e le sue scelte “moderne” e morali per la campagna avita: le salvifiche colture biologiche.

Sono personaggi tagliati con l’accetta del conformismo, con poco sangue e ancor meno pensiero. Non li si incontra per la prima volta, li si riconosce. Si equivalgono. Sono gli Ignavi di Dante che raccontano matrimoni e feste, parti e funerali, intrighi e rapimenti. Sono i racconti dei nonni, un misto di Dynasty, di Camilleri e delle inquietudini della principessa Diana. Si legge e si legge, per trecento pagine, come presi da uno stordimento e non si capisce bene qual è il senso degli eventi narrati. Bisognerà arrivare alla  fine perché ci sia svelato il significato del titolo del romanzo. Proprio nelle ultime pagine poi ci viene riservata una sorpresa (un’altra) tanto sconcertante da chiedersi se non sarebbe stato meglio non doverla leggere. Perché essa sminuisce il valore del libro, piuttosto che accrescerlo.

Ma, mettendo per il momento da parte la sorpresa finale, si può riassumere il romanzo dicendo che i personaggi di questa saga familiare non suscitano echi nelle nostre anime e non riescono a divenire esemplari e significativi. Si pensi per contrasto ai personaggi scultorei de “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa. Anche le vicende storiche sono raccontate attraverso stereotipi e perfino attraverso falsificazioni: per esempio gli Anni Trenta sono rappresentati dal punto di vista del tutto marginale dell’antifascismo, come se quelli non fossero stati, ormai per generale riconoscimento, gli “anni del consenso”. Né le cose cambiano venendo al presente: fin dalle prime pagine Tamà “annonce la couleur” con una invettiva contro le Multinazionali volte al profitto e continua con altri luoghi comuni di moda. Fra l’altro questa sbrigativa identificazione del profitto con il male lascia perplessi. Come se tutti non mirassero al profitto: dall’omino dei gelati all’intellettuale che si presenta in televisione col suo nuovo libro. Qualunque operatore economico che non sopravviva a spese dello Stato mira al profitto.

In questo universo privo di eroi, le donne si rivelano anch’esse mediocri, sia nel bene sia nel male.

La povera Virginia, la protagonista “cattiva” sciocca, vanesia ed egoista, è una donnetta da soap opera, ben lontana dalla paradigmatica mancanza di scrupoli di Bel-Ami. Sacerdotessa di una mondanità che si risolve in un charleston e in un ingenuo dannunzianesimo, cade nella trappola della propaganda fascista e si dà persino ad orge e festini organizzati da un gerarca. Verrebbe da ricordare, come dicono gli anglosassoni, che si può giudicare una persona dai problemi di cui si preoccupa: i suoi dialoghi con Lauretta, l’amica del cuore, sono simili a pagine da romanzo rosa. Virginia si ribella contro il matrimonio (visto come una gabbia), contro la gravidanza e contro la maternità, imposte dalle convenzioni. Questi temi, degni di essere approfonditi, sulla sua bocca di comparsa annegata nei lustrini diventano espressione di un ribellismo infantile privo di elaborazione intellettuale: Virginia rifiuta la sua condizione di donna sposata e di madre solo perché le impedisce di vivere i rapporti con gli uomini come un continuo corteggiamento a base di “rose rosse, bigliettini ammiccanti e gioielli”. Ed appare ambigua la posizione della scrittrice, dal momento che tutte le altre figure femminili del romanzo sembrano ambire al matrimonio e spasimare per la maternità. Come a dire che solo una donna arida fino all’insensibilità può pensarla come Virginia.

Fatima, la protagonista “buona”, non appare come un personaggio trainante, anche se intorno a lei dovrebbe gravitare il senso del libro. Rimane soprattutto indecifrabile. In lei la scrittrice finalmente ha evitato di realizzare un “tipo” banale, solo che, cadendo nell’eccesso opposto, ha costruito un personaggio sconcertante e composito come una chimera.

Abusata da bambina, viene educata da una a dir poco stravagante coppia di inglesi che l’ha presa in adozione dopo averla comprata in un’oasi del deserto egiziano. Nella nuova casa sente parlare da mane a sera di un mondo dai contorni fumosi in cui è difficile distinguere il certo dall’immaginato, il reale dal magico: vibrazioni, spirito, missioni da compiere, equilibrio cosmico, trascendenza ed altri misteri. La coppia ha impiegato un decennio a girare il mondo in cerca di erbe e minerali, impadronendosi dei segreti delle varie “medicine alternative”, soprattutto indiana e cinese. Ad Alessandria d’Egitto, dove finalmente i due vivono stabilmente, ora anche con la piccola egiziana, hanno allestito una sorta di “dépendance” dove accolgono e “curano” persone affette da malattie – se tali sono – che i medici non sanno diagnosticare. Occasionalmente a pagamento. Ma guadagnarsi il pane non è la loro principale preoccupazione dal momento che vivono di rendita.

Fatima riceve questa educazione nebbiosa e fuorviante. Ma la scrittrice sembra condividerla perché tutto è narrato sempre come verosimile e l’incomprensibile è spacciato per saggezza orientale. Così, ovunque intervenga nel romanzo, le parole di Fatima appariranno oscure, le sue scelte difficilmente comprensibili, la natura del suo “dono” misteriosa, la sua attività molteplice e confusa: erborista, guaritrice, pranoterapeuta, maga e sconcertante, improvvisata psicoterapeuta. Tutte attività che ha appreso dai suoi genitori e che confinano con la stregoneria.

 Le pagine più incerte sono proprio quelle che la riguardano, a cominciare dal secondo capitolo che descrive l’abuso subito da bambina. La scrittrice lo localizza nel tempo e nello spazio: Oasi di Dakhal, 15 marzo 1914. Compiendo con questo un’operazione pericolosa perché non sappiamo se l’episodio è totalmente inventato ai fini della narrazione o se corrisponde almeno in parte a studi che l’autrice ha fatto sulle usanze tribali di quei territori. Nell’un caso come nell’altro, non solo non si può parlare disinvoltamente di incesto praticato da tutti gli abitanti di una comunità, ma la brutalità degli atti descritti rappresenta una coloritura arbitraria ed infamante. Può anche darsi che la scrittrice abbia voluto aggiungere alla violenza di un incesto descritto come sistematico l’ulteriore violenza dello stupro. Fatto sta che la scena presenta aspetti poco chiari e mette a disagio più intellettualmente che moralmente.

L’atto è descritto con un linguaggio molto esplicito ed elementare, come se ci fosse una voce narrante che parla al posto della bambina. Cioè l’autrice non si serve di espressioni adulte ma dice per esempio: “Papà glielo aveva messo nella bocca”, “Poi papà l’aveva presa nella solita maniera, facendole molto male”. Alla fine il padre con un fischio chiama i fratelli invitandoli a salutare nello stesso modo la sorella: la piccola infatti era in procinto di partire con gli inglesi.

C’è una sorta di esagerazione e di sadismo che risponde al desiderio di indignare il lettore, senza mostrarci d’altra parte tutti i sentimenti di Fatima. Infatti non si sa se quello che la scrittrice ci descrive come inenarrabile violenza è sentito dalla bambina appunto come violenza oppure è vissuto come una serie di atti che, per quanto sgraditi, vengono considerati in una certa misura “normali”: questo è il tipo di rapporto familiare che la bambina conosce ed anche la madre le ha detto che in tutte le famiglie dell’oasi avvengono le stesse cose. Inoltre c’è una parte passiva che la bambina subisce e una parte attiva che ha appreso dalla sorella – che le ha insegnato come accarezzarsi – dai fratelli e dallo stesso padre. Tant’è vero che, una volta entrata nel mondo diverso e civilizzato dei genitori adottivi, la bambina riproduce quello che ha imparato: sia la madre sia il padre la sorprendono nel loro letto mentre cerca di masturbarli. E perché? Per ringraziarli di essere stati gentili e buoni con lei. Si spinge fino a chiedere se è abbastanza brava.

 Forse non un romanzo, ma un intero trattato non basterebbe ad analizzare una situazione tanto complessa, ma la scrittrice impiega due terzi di libro prima di farci sapere che Fatima arriverà all’età di trent’anni detestando gli uomini e il loro corpo, a parte un episodio adolescenziale in cui si scaglia contro un ragazzo colpevole di averla baciata (salvo poi ritornare con la mente sull’episodio e confessarsi che non tutto era stato negativo). Verrà “salvata” dall’amore dello stesso giovane che la cerca dieci anni dopo e che deve a sua volta guarire da un cedimento alle attenzioni erotiche di un uomo, quando era un ragazzino. Una storia pasticciata, melodrammatica  e semplicistica in cui “amor omnia vincit”.

Intanto i genitori adottivi vengono come svegliati dalle inusitate carezze della bambina e cominciano un vero e proprio rapporto di coppia (fino ad allora il sesso aveva latitato) proprio partendo da quella insolita esperienza. Naturalmente dicendo alla bambina che non si fa, che non deve farlo mai più ecc. Queste sono le pagine peggiori dell’intero libro. Le incongruenze si spingono fino a fare lunghi e complicati discorsi, presumibilmente in inglese, ad una bambina di otto anni che conosce solo il suo dialetto arabo. Più avanti viene detto esplicitamente che sia l’uomo sia la donna (sui trent’anni) erano più o meno ignari del loro corpo e che in passato si erano accoppiati delle volte per puri fini procreativi. Ma il figlio non era venuto e allora avevano cercato di procreare con le “radici” e le “erbe”, con “l’autodeterminazione” e la “concentrazione”. Quando anche queste tecniche erano fallite, avevano deciso di comprare la bambina. Dopo qualche rigo la scrittrice ci dirà che “si erano preclusi un piacere di cui sconoscevano l’esistenza”. “L’innocenza animalesca della bambina li aveva inconsapevolmente illuminati” e poi “Fatima aveva fatto loro un grande dono, aveva indicato loro una nuova via, il modo più naturale di amarsi.” Ripensando alle radici e all’autodeterminazione e poi alla nuova via (!) indicata loro da Fatima, ci sarebbe spazio per una facile ironia, ma si preferisce credere che l’intero capitolo sia un infortunio: una narrazione poco convincente che confonde il piano morale, sessuale, logico, psicologico ed etnologico. Non ha valore di testimonianza storica e sociale, non è un’invenzione letteraria coerente né coinvolgente. Anzi si tende a rigettare la vicenda come improbabile, artificiosa e morbosa.

Nelle ultime pagine del libro Fatima enuncerà con distacco didattico la sua teoria sulla vita e sul destino degli uomini. Dispone dei sassolini in cerchio e dice che ogni ciottolo rappresenta una tappa da affrontare e superare. Dunque anche il dolore va accettato in vista del raggiungimento dell’ultima tappa, la chiusura del cerchio, simbolo di una superiore perfezione. O qualcosa del genere.

È inutile dire che a questa “teoria” si potrebbero contrapporre altre “chiacchiere” di equivalente spessore. È inutile dire che questa teoria non significa niente. La scrittrice salta a piè pari secoli di filosofia occidentale, ogni seria visione – deterministica o provvidenziale che sia – della realtà, per avventurarsi in un campo a lei – e a noi – sconosciuto. Le importa soltanto creare – anche contro ogni verosimiglianza  – l’immagine di una donna esotica, sfuggente, inverosimile, e che tuttavia dovrebbe essere la nostra maestra di vita. In virtù di una saggezza da rotocalco.

In queste pagine il romanzo diventa un saccente vaniloquio che gli ingenui dovrebbero accogliere come un nuovo verbo, con l’apologo del profeta che dispone in cerchio delle pietruzze, come se non bastasse dire “per gradi”.

In realtà, il fatto che Fatima parli della sua esperienza come fosse esemplare, è un insulto alle tante altre bambine che, secondo le sue stesse parole, hanno subito quell’infame sorte. Di loro nemmeno parla. Forse perché è difficile far rientrare le sua stesse sorelle nel suo concetto di perfezione e di superiore armonia. La vita umana merita più rispetto. E più rispetto merita la sofferenza di chi non la veste neppure con le fantasie esoteriche di una disadattata. Che non esiterà, in un’altra circostanza, a massacrare con una pietra la testa di un cadavere per renderlo irriconoscibile, scena che farebbe rabbrividire gli amanti del genere “Horror”.

In totale non si sa qual è il “messaggio” portato da Fatima e dalla sua esperienza. La sua figura è totalmente sbagliata: non ha né consistenza intellettuale né consapevolezza morale né nitidezza di sentimento.  

Poco da dire sulle altre donne. Nel racconto del passato, oltre alle frigide rassegnate e alle serve, ci sono le donne tappezzeria, disinteressate a qualunque attività cerebrale: quelle che, quando gli uomini parlano di politica, si allontanano per parlare di moda. L’unico personaggio femminile che mostra una qualche familiarità con la ragione è Lauretta, l’amica del cuore di Virginia, ma non va oltre il buon senso.

Passando al presente, Amanda viene presentata come intelligente e spiritosa, ma non ha altro da mettere sul piatto oltre la sua bellezza. Non c’è mai una battuta, mai un pensiero degno di essere ricordato. La sua stessa seduzione non va oltre l’alternanza stucchevole di avanzate e  arretramenti.  Il suo progetto di rinunziare all’amore per la carriera suona falso, creato sulla scia di identiche dichiarazioni maschili. E per giunta è imprudente, perché nessuno mai può contare sul fatto che non si innamorerà.

La scrittrice adopera una bella lingua, semplice, corposa ed efficace. Soprattutto ha il senso della narrazione – il dono, questa volta sì – di saper raccontare, con gli attacchi giusti e le giuste sospensioni. Ha la capacità di fare vivere realisticamente un ambiente con descrizioni di stampo quasi ottocentesco che però si inseriscono con grande naturalezza nel suo periodare tendenzialmente barocco. Tant’è vero che non c’è la tentazione di “saltare” le descrizioni: nel suo libro si legge tutto e non c’è frase che si debba rileggere perché non chiara. Si sente in sottofondo l’amore per la sua città, per le sue bellezze naturali e i suoi eleganti palazzi, oltre che l’apprezzamento del dettaglio raffinato, quand’anche si stia parlando di una tazzina da caffè. Deliziosa, per esempio, è la descrizione della camera di Ketty preparata per Amanda.

Il rischio è quello della ridondanza: non la singola frase icastica ma, a volte, l’accumulazione di frasi e particolari pressoché identici. Tuttavia la lingua è nel suo complesso sorvegliata e opportuna. Questo non significa che sia impeccabile: per esempio la scelta di inserire termini in dialetto siciliano non conferisce maggiore efficacia al testo ma lo appesantisce. Per fortuna  questo inserimento non è frequente. Sbagliata tout court è invece la trascrizione “c’ha” “c’abbiamo” et similia della parlata corrente perché la lettura, in qualsiasi luogo d’Italia, Sicilia compresa, risulta “cca”, “ccabbiamo”. Bastava scrivere “ci ha”, “ci abbiamo”, che tanto tutti avrebbero letto come intendeva indicare la scrittrice. Così come nessuno pronuncia “la-sci-are”. In fonetica infatti trascriveremmo quel verbo con  /laʃ’ʃare/, senza “i”. Sbagliata è la grafia di “cafè”, che invece in francese si scrive con l’accento acuto, “café”. E c’è qualche piccolo incidente di percorso come “paludando la noia”, “tronfio di sé”, “aurea” (invece di “aura”), “dell’eccezioni” ed altri che non vale la pena di citare: la scrittrice conosce la sua facilità espressiva, da incantatrice di serpenti, ed alla fine può succedere che ne esca lei stessa un po’ stordita.

Ci sono molti momenti erotici ben descritti, anche se prevalentemente si pone l’accento sul desiderio e le sensazioni del maschio. La parte femminile della coppia trova comunque un po’ di spazio nella passione amorosa tra Amanda e Giovanni, nelle ultime pagine.

Un inspiegabile vezzo è quello di inserire una parola triviale (cazzo) quando meno te l’aspetti, soprattutto nel riferire un pensiero che è più normale formulare in altro modo (“la ragazza aveva il cazzo”) o nel pieno di una descrizione letteraria. Nessuno vieta di scegliere un linguaggio brutale alla Henry Miller o le più tenui e delicate espressioni, ma non l’una e l’altra cosa insieme. È una questione di registro, come direbbe un linguista, prima ancora che normale buon gusto. La scrittrice non ha bisogno di ricorrere a questi mezzucci.

La sorpresa finale è assolutamente inammissibile ed imperdonabile. Vietare l’incesto non è il risultato di una mentalità limitata che non comprende la forza del sentimento amoroso, ma una norma di elementare eugenetica, acquisita da tutto il mondo civile ed anche da quello primitivo. La scelta di Fatima di non rivelare ai due amanti che sono fratello e sorella, è delittuosa. Soprattutto pensando che sta influendo sulla vita di sua figlia e la sanità dei suoi possibili nipoti.

Resta il fatto che si sono passate parecchie ore con Giovanna Tamà, alla quale, malgrado le critiche vivaci, ci si sente vicini per il comune amore della lingua italiana e dell’incantevole fatica di scrivere. Oltre che della nostra città.

Anna Murabito      annamurabito2@gmail.com

 

 

UNA CRITICA LETTERARIAultima modifica: 2023-04-02T12:49:56+02:00da helvalida
Reposta per primo quest’articolo

7 pensieri su “UNA CRITICA LETTERARIA

    • Io spero invece che chiunque legga questa critica si renda conto che essa non ha intenti demolitori, ma rappresenta soltanto il rammarico di vedere come, con molte goffaggini, si possa sprecare un talento di scrittrice. In questo senso è indifferente che l’interessata legga questa recensione o no.
      Grazie sempre, Nicola.

      • In generale hai ragione. Ma Gianni ed io siamo vicendevolente umili. E quando tu mi hai segnalato un’imperfezione, ti ho preso sul serio.

        • A Nicola
          In ogni caso, io non conosco la signora Tamà e lei non conosce me. Ci sono troppe variabili per potere ipotizzare un comportamento.
          Veronesi appose un like alla mia recensione molto più negativa di questa al suo “Il colibrì”. Probabilmente per dimostrare una intangibile grandezza e sicurezza di sé. Che però non trovò argomenti di risposta. Quel libro era tale da suscitare gesti estremi: un’amica, una nota avvocata della mia città, scrisse alla Casa Editrice chiedendo indietro i soldi dell’acquisto. Mai rimpianto del proprio denaro fu più giustificato. 🙂

  1. Spero che l’avvocata abbia deciso di chiedere i soldi indietro non solamente basandosi sulla tua critica. Se no, mi dispiacerebbe per il povero Veronesi. Vedi, oggigiorno scrivere un libro e’ , nella maggior parte dei casi, nient’altro che un business. Che richiede un adeguato battage pubblicitario i cui costi verranno recuperati con le vendite previste. E una critica che faccia perdere clienti a uno “scrittore” e’ un po’ come avvicinarsi ad un imbonitore che vende elisir di lunga vita (ti ricordi i film Western?) e spaccargli le bottigliette. Povera bestia, tutti dobbiamo campare. 🙂

    • L’avvocata, un tipo molto combattivo, aveva letto il libro e lo aveva trovato pessimo. Ecco il perché della sua richiesta all’Editore. Si è imbattuta dopo nella mia recensione, che è pubblicata in questo stesso blog con il titolo “Il colibrì non vola”.

I commenti sono chiusi.