KÉRALI

Marzo 2020. Inizio della pandemia, con le strade deserte.

Un silenzio così l’ho sentito solo in Bretagna. Ma non era il silenzio malvagio e sinistro di oggi.
Marzio ed io avevamo preso in affitto una piccola casa in un posto sperduto, in aperta campagna. Non avevamo trovato di meglio per i prezzi insensati degli affitti. Alla fine avevamo ceduto, scegliendo una spesa ragionevole.
Era come la nostra tenda, solo molto più grande: tre stanze con angolo cottura. Per così dire. Senza un mobile, costruita da un contadino: si vedeva dalle molte irregolarità e manchevolezze. Ma io ero contenta. I primi giorni avevamo aperto la tenda, quella vera, in “soggiorno” e dormito sui materassini gonfiabili. Poi eravamo tornati in Italia, avevamo caricato a dismisura l’automobile di Marzio, “la vacca” la chiamavamo, perché larga e placida, materna. Ci aspettavamo che ci nutrisse col suo latte.
Sulla vacca trasportammo tutto quello che ci poteva servire: una scrivania pieghevole che divenne tavolo da pranzo, quattro sedie in plexiglass e due “da regista”, un fornello elementare a tre fuochi, molta biancheria da letto. Anche il materasso, sotto forma di enorme rotolo di gommapiuma su cui poi stendemmo invano coperte e sacchi a pelo nel tentativo di renderlo più spesso e più morbido.
Fu un dolce precipitare nella vita primitiva, una sorta di gioco languido e disimpegnato, un esilio volontario nel Ponto Eusino, da cui ci bastava l’idea di potere uscire e vagare per trovare le meraviglie degli occhi e del cuore che la natura bretone elargisce. Uscivamo con parsimonia, però: dopo ci dovevamo “curare”. È proprio vero che la bellezza confina col dolore.
Marzio aveva progettato con largo anticipo il letto che avrebbe costruito. Così, dopo un viaggetto di 1.700 chilometri, appena arrivati andammo al Brico per comprare la legna tagliata secondo le misure, tante assi lunghissime, tante assi più corte. Tante viti da legno, con il buon peso. L’indomani il letto fu pronto con i comodini ricavati dalla testiera. Un incrocio tra l’idea di un architetto barbone della Magna Grecia e un pezzo di design svedese. Con un po’ di mito di Ulisse. Anche le indispensabili lampade per la lettura serale furono estratte dal mucchio delle masserizie e collocate al loro posto.
Un grande campo davanti e, lontani, dei castagni secolari a scandire il confine della proprietà: questo era il paesaggio. Una porta d’ingresso a vetri in unico strato. Nessuna recinzione. Solo dopo mesi e qualche contrattazione con i padroni di casa, ottenemmo una siepe, che rimase sempre stenta e alta non più di trenta centimetri. La “haie”, così si chiama in francese la siepe, nello stesso modo in cui si chiama la città in cui ha sede il Parlamento olandese. Al centro del campo un pino assai buffo, anch’esso molto piccolo, non andò mai oltre il mezzo metro d’altezza. I proprietari l’avevano piantato per i bisnipoti, credo.
Era uno strano posto, brutto abbastanza per guarirci dalla Sindrome di Stendhal. Eppure in quel posto ho vissuto una vita trasognata e felice. Ho giocato a fare la contadina, stendendo la biancheria tra due pali sul prato. Bisognava riportarla a casa “en catastrophe” quando si metteva improvvisamente a piovere: il che avveniva una decina di volte al giorno. Ma il sole acceso sulle lenzuola era una iperrealistica realizzazione della luce e del colore.
Unico lusso la lavatrice. Per il resto, il latte sul davanzale a godersi il fresco della notte; la spesa ogni giorno; qualche capriccio alimentare. La musica, immancabile. E libri. Quando li avevamo finiti, andavamo a Parigi (una passeggiata di cinquecento chilometri) e, senza degnare di uno sguardo la città, rientravamo da Boulevard Saint Michel con le sporte piene di altri libri. Ho riletto i Tragici Greci, Delitto e Castigo, I Fratelli Karamazof, col piacere indicibile di dimenticare la lingua in cui leggevo. Di notte ascoltavamo un bel programma radiofonico di jazz, “Suivez le thème”, con un presentatore dalla voce calma, suadente e lontana, come la voce immaginata di un narratore di favole, così diverso dal francese del mito, spocchioso e vanesio.
Qualche volta chiacchieravamo con i nostri padroni di casa. Ma lo stretto indispensabile. La signora parlava un francese che risentiva ancora della dura parlata bretone, un tormento per le raffinatissime orecchie di Marzio. Così avveniva che lui esitasse conversando con lei, anche perché non si sforzava di capirla tanto quel francese era lontano dalla lingua di Maupassant e Rimbaud e anche dalla lingua corrente di una persona normalmente alfabetizzata. E allora la signora cominciava a scandire i verbi coniugati all’infinito ed io dovevo scappare in cucina a ridere. Devo a lei il peggiore stufato della mia vita. “Abbiamo ammazzato il vitello” ci disse portando un vassoio di carne. Mi assicurò che potevo cucinarlo l’indomani. Ma gli aromi e il buon vino francese non riuscirono a salvare la carne di coccodrillo che portai in tavola.
Il marito era un uomo gradevole, abbastanza evoluto in rapporto alla moglie, aveva a lungo lavorato nel métro di Parigi. Non so come aveva sviluppato la mania del fai da te che applicava soprattutto all’edilizia. Una volta ci portò in campagna a mostrarci un wc all’aperto, ben schermato dalle fronde. Per i suoi ospiti, ci disse, per godere del contatto con la natura. E ci promise che ci avrebbe costruito un garage. In uno dei nostri rientri lo trovammo, ma l’uomo aveva proceduto a occhio, così nel garage entrava poco più che mezza automobile. La povera vacca mostrava a tutti il suo “cul” come dicono in Francia familiarmente per indicare la parte posteriore delle vetture. Qualche volta negli anni successivi, passando davanti alla nostra ex casa, abbiamo visto che il garage era sempre lì. Anche la siepe, alta non più di trenta centimetri. E il pino nano, quasi sommerso dall’erba.
La casa si chiamò Kérali, un nome strano, tipo Shangry-la, ma in realtà meno evocativo. Derivava semplicemente da Ker, che in bretone significa “casa” e Alì, una parte del mio similnome. Certo ho avuto case migliori. Credo.
Lì ho conosciuto il bosco, col suo sentiero principale tracciato e sempre più stretto. Per me, la ragazza del secondo piano, come mi chiamava Marzio, un’autentica meraviglia. Lì abbiamo spesso passeggiato ed ho visto cosa significa autunno al Nord, con le felci e il muschio sempre più vigoroso, sempre più vellutato e strisciante, e le edere potenti che guadagnavano giorno dopo giorno un posto alla luce, un posto sui muri. Veniva voglia di individuarne la traccia di bava. Era tutto un brulichio.
Ma sto mescolando i tempi. L’autunno l’ho visto in ottobre inoltrato quando le giornate erano cortissime e l’umidità si confondeva col crepuscolo. Poco prima di tornare definitivamente in Italia. Quando il colore della vite americana bruciava come un’onta. E altrettanto bruciava il mio rimpianto, ancor prima di lasciare quel posto.
Ogni tanto per qualche impegno impellente tornavamo in Italia. Una volta, al rientro, avvenne qualcosa. Il campo di solito brullo o verde d’erba ora era diventato un campo di cotone, ma più bello, fiori bianchi su alti steli mossi dal vento col cielo insolitamente azzurro quel giorno: sembrava un quadro di Van Gogh. “Cos’è?” chiesi alla padrona contadina. “Il grano saraceno”, mi rispose, sorpresa dalla mia imperdonabile incultura.
Ho passato molto tempo a fotografarlo. Poi, non l’ho mai più visto nella vita. Diventò giallino, e dopo marrone chiaro. Tante damigelle di sposa precocemente invecchiate come per un trucco elettronico. Mi è rimasto negli occhi.
E nelle orecchie mi è rimasto il silenzio. La notte soprattutto. Nel buio assoluto di un cielo spesso senza stelle. Con la sensazione del sangue che pulsa nelle tempie. Ci si sente legati a quel flusso che potrebbe interrompersi e allora addio Sindrome di Stendhal, maree, fari, Mozart e John Coltrane. Via per sempre grano saraceno in fiore. Vita che se ne va, come una damigella di sposa precocemente invecchiata.
Ma allora la morte era solo un piccolo pensiero, verde come il veleno, da scacciare.

Anna Murabito

KÉRALIultima modifica: 2020-05-26T20:07:48+02:00da helvalida
Reposta per primo quest’articolo

Un pensiero su “KÉRALI

  1. Un amore della vita così appassionato, disperato e quasi impudico lascia senza fiato. Non si sa se invidiare una così forte capacità di sentire, o averne paura.
    Si conclude parlando di morte, ed è un infame destino che ci attende tutti. Ma c’è una differenza: chi scrive così muore dopo essere vissuta, non avendo speso distrattamente i suoi anni .

I commenti sono chiusi.