INGE: EPICA MINIMA

Si chiama Inge. L’ho riconosciuta subito quando l’ho vista uscire dal portone di fronte la casa dei Mayer. Giuseppe me l’aveva descritta. Ha i capelli grigi e scarmigliati, è malvestita. Esce ogni giorno dopo le undici, per andare al mercato. Le regalano la verdura e gli scarti di frutta rimasti invenduti e lei di quelli sembra vivere. Nessuno viene a trovarla e forse non ha neanche un cellulare antiquato. Giuseppe mi ha raccontato che, da quando sono cominciati i Campionati del Mondo, ha esposto sul suo terrazzino due bandiere della Germania. “Vai a vedere cosa può la passione!” ha commentato. Per questo mi ha parlato di Inge.
Sono a Monaco da una settimana con Marzio, mio marito. Lui e Giuseppe hanno litigato e nessuno dei due tiene a vedere l’altro. Così sono andata da sola a salutare Giuseppe e sua moglie Hanna. L’ho vista una volta alcuni anni fa e mi sembra la stessa, riservata e silenziosa.
Mi interessa Inge, lei è una donna strana: coltiva gerani e bandiere. I gerani fanno la loro piccola figura “piccolo borghese”, così si diceva una volta. Le bandiere le vedo, ma non so che dimensione abbiano, la connotazione sociale non c’entra.
L’altra sera ha trepidato fino al novantacinquesimo quando l’intrepido dio della Speranza ha forzato la mano al Destino e le ha regalato l’Impossibile. Ma come andrà oggi? Non possiamo sempre fare affidamento sul miracolo, per vivere. Le percentuali che segnalano la presenza del miracolo in terra sono troppo basse. Giuseppe dice che la squadra non gli sembra all’altezza e lui di calcio se ne intende. Anche io ne capisco un poco e credo che quel ragazzo dagli occhi smorti e dallo strano nome sia malato: non riconosce il numero dieci che porta sulle spalle e si aggira come sperduto. Ma anche i suoi compagni sembrano avere indossato la divisa di campioni su un involucro vuoto: non hanno cuore, non hanno ardimento, non meritano Inge. Tiferò insieme con lei, ma sono molto preoccupata.

Così, è andata come doveva andare e la Germania piange, per usare un luogo comune caro al giornalismo sportivo. Che ne sarà di Inge? Prima di andarmene dalla casa di Giuseppe, dove ho visto la partita, la scorgo con l’innaffiatoio. Si è levato un po’ di vento e lei vuole bagnare i gerani. Poi si avvicina alle bandiere. Le toglierà, penso, e invece ha in mano due pezzi di spago. Lega meglio le aste al balcone. Quasi trattengo il fiato, ipnotizzata dai suoi gesti.

C’è stato un vento terribile, questa notte. Domani partiamo. Sono passata a salutare Hanna e Giuseppe. Vedo uscire Inge, dal portone di fronte al loro. Il solito vestito informe. Il solito viso informe. La incrocio. È la prima volta che la vedo da vicino.
– Guten Tag – le dico piano. È quasi l’unico tedesco che conosco.
Mi risponde con un cenno. Sto per entrare nel portone, quando mi chiama:
– Gnädige Frau, haben Sie das Spiel zugeschaut?
Le faccio il segno disperato di chi non capisce. “Oddio, come faccio, penso, le uniche cose che so dire in tedesco sono ausgang, eingang, Kunst, der Tot und das Mädchen, a che mi servono, queste parole?
Ma non servono, le parole. Inge mi mostra il suo balcone e dice soltanto:
– Der Wind.
Ho capito, l’ho ricostruito attraverso l’inglese. Il vento. Il vento ha lacerato le sue bandiere.
La guardo e il suo mento si muove in un tremito. Per fortuna si allontana ed io rimango inchiodata al marciapiede. Penso a mia madre. Inge magari sarà più giovane di me, ma io penso a mia madre e alla sua pelle bianca e senza rughe anche sul letto di morte. Improvvisamente piango sulla pelle spessa e macchiata di Inge e sui suoi capelli incolti. Sul suo mento che trema su una misera speranza lacerata. Lei che sicuramente non avrà una figlia che le faccia lo sciampo, le applichi il balsamo e poi le metta i bigodini, pettinandola infine come una signora composta in stile anni ’50. E la faccia bianca di mia madre con i capelli in ordine e i suoi begli orecchini si sovrappone a quella di un’estranea trasandata e spenta in un’incongrua poltiglia di ricordi e insignificanze, che poi sono la stessa cosa.
Osservo con un po’ d’ironia che il vento, ancora forte, mi ha strappato un paio di lacrime, stampandole per terra. Presto si asciugheranno. “Sono proprio ridotta male, penso, se piango così per una sconosciuta”.
Arriva una giovane donna in bicicletta. È Helene, una delle figlie di Hanna. Giuseppe dice “mia figlia”, anche se non è il suo padre naturale.
– Sonia, ciao, – mi saluta allegra. – Che fai lì al freddo con addosso solo una camicia leggera? Credi di essere in Sicilia?
Si toglie la felpa. Mi guarda, mentre me la mette sulle spalle. Sento il tepore dell’indumento e la ringrazio.
– Ho avuto un attacco di allergia, sai, il vento…
– Vieni su, prepariamo un the. Ti farà bene, così ti riscaldi e ti idrati. Allora ci saluti. Parti domani, se non ricordo male.
La osservo. Quanti anni avrà? Trentacinque? Potrebbe essere mia figlia. Sembra forte. Mi protegge. Ma che ne so di lei? L’ho conosciuta solo ieri e non la vedrò mai più. Poco prima figlia, ora madre: quanti ruoli voglio interpretare? Giuseppe legge le sue carte sulla Repubblica di Weimar. È uno scrittore formidabile. Potrebbe scrivere il suo secondo romanzo storico. Non so se lo farà. Hanna è silenziosa come sempre, col suo libro. Mi salutano con un cenno. Guardo Helene che mi sorride. Le sorrido anch’io, poi provo un gesto d’intesa e con la mano destra piatta faccio un breve taglio nell’aria. Lei capisce subito e fa di sì con la testa: ha capito, non dirà nulla della mia “allergia”. “Accidenti, penso, in Sicilia diciamo ‘mezza parola’. È possibile che i tedeschi siano più bravi di noi? Ma forse qui non siamo in Germania, siamo in Baviera”. Cerco di apparire tranquilla mentre bevo il mio the. Tra poco raggiungerò Marzio in albergo e domani partiremo. Giuseppe non ama le visite lunghe, me lo ha detto. E non vuole più ascoltare musica. Non vedrò più nessuno di loro. E infine non vedrò più Marzio o Marzio non vedrà più me. Sono tutti questi “più” a infastidirmi, perché, per gli strani misteri della lingua, “più” significa “meno”, “mancanza”, una mancanza peggiore della carestia, peggiore dell’indigenza di Inge, che non ha una figlia e, ora che il vento ha lacerato le sue bandierine, non ha nemmeno il ricordo di una passione. Devo andarmene, devo andarmene. Accidenti, penso, uno non fa in tempo a capire una cosa elementare, l’addizione, la sottrazione. E poi la lingua, che credi di conoscere bene, ti confonde. Inghiotto in fretta l’ultimo sorso di the.
Giuseppe da tempo mi sta guardando in silenzio.

Anna Murabito

INGE: EPICA MINIMAultima modifica: 2020-06-03T21:05:14+02:00da helvalida
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