IL PONTE SULLA FINE DEL MONDO

di Peter Patti

Ci sono state, nelle regioni meridionali della Germania, delle piogge violente e continue, nell’ultima settimana, e ovviamente anche qui a Wasserburg (città più volte allagata dal fiume, e per fortuna dal 1978-80 ca. protetta o semiprotetta da una diga). E ritornano i fantasmi del passato.

Sta piovigginando, ma usciamo ugualmente, per accertarci della situazione.

La corrente tumultuosa dell’Inn trasporta chiome verdi strappate a una natura già abbastanza disperata e già alquanto stracciata, insieme a rifiuti galleggianti di materia sintetica non ben identificata, pezzi di piante e alberi, nonché veri e propri tronchi interi. Sopra il ponte si è raccolta una folla di gente del luogo a cui si sono aggiunti alcuni villeggianti occasionali (poveri malcapitati), e tutti si sporgono oltre il parapetto, come affascinati. L’altro parapetto invece è inaccessibile: per via dei cordoni, o meglio dei nastri rossi-e-bianchi che sbarrano quella parte. Ci avviciniamo alla zona normalmente proibita e il mio sguardo cade perpendicolarmente. L’acqua alta sciaborda a pochi metri da noi. Se sollevo un po’ la testa ho una visione d’insieme dello stato delle cose: l’Inn riversa fiotti limacciosi, di densa poltiglia, sulle rive – ormai irriconoscibili – accanto e oltre la nostra piccola città. Le vere alluvioni sono più avanti, dove sorgono paesi e villaggi sprovvisti di dighe. Eppure, nemmeno noi ci sentiamo veramente in salvo: l’impetuosità del fiume in piena, questo liberarsi rabbioso di forze da lungo tempo represse, sono a dir poco impressionanti. E forieri di disgrazie le cui conseguenze, i cui tetri riverberi, sono ancora ben impressi nei ricordi dei wasserburghesi. La maggior parte delle persone si sono ammassate dal lato della porta antica che introduce al vecchio borgo. Una pala meccanica, o meglio ruspa, è stata piazzata nella zona centrale del ponte, sul lungo trancio di asfalto del tutto inaccessibile ai guardoni della Fine-del-Mondo, e l’operatore della sbuffante e ruggente macchina, uno stipendiato comunale, cerca di pescare dalle acque irrequiete, aprendo e chiudendo le ganasce meccaniche, tutti quei tronchi che, per via della loro grossezza, potrebbero incagliarsi nei piloni, i quali sono ormai quasi del tutto ricoperti dalle onde. O meglio: dai flutti rabbiosi. A stare piegati su questa furia liquida in scorrimento veloce, al di sopra della superficie melmosa emanante un lezzo di muffa… fetore  cimiteriale… e che crea mulinelli e spruzza a freddo vivo l’aria, a guardare in giù fissando lo spumeggiare inquieto della corrente che reca seco sporcizia e legno (annegandoli e ribaltandoli e sputandoli via e ringhiottendoli), si ottiene una vertigine imprevista che quasi rallegra: è uno sballo gratis e perciò ben riuscito che, pressappoco, fa scomparire i timori di un’inondazione che possa malauguratamente spazzare via i piani inferiori della città e sottrarre a noi popolo quella sicurezza farlocca in cui ci siamo cullati negli ultimi quattro o cinque anni: da quando, cioè, si è verificato l’ultimo straripamento; o l’ultimo crollo dell’economia globale.

Io e M. ci siamo allineati dunque con gli altri osservatori della catastrofe, abbiamo agganciato i nostri gomiti ai loro, ormai anche noi incuranti della non-osservanza di distanziamento sociale e, come loro, privi di mascherina protettiva, e: “Il livello sembra stare crescendo” sto dicendo a mia moglie, inebriato dallo spettacolo a cui assistiamo senza aver dovuto pagare il biglietto d’ingresso… quando d’un tratto (ma bisognava aspettarselo) un omaccione dall’accento sassone, e dunque dell’ex DDR, in lunghi stivali di gomma e dentro una giacca a vento sovradimensionale che non riesce a nascondere il pancione da caporale, da burbero kaiserlicchio di provincia (questi ruoli vengono ormai tutti ricoperti da cittadini della Germania Orientale trasferitisi qui all’Ovest!), si appressa dicendoci che è ora di circolare, di far largo, di lasciare libera l’area. Borbottando ingiurie mentre mi allontano ondeggiante (ma è in realtà il ponte sull’Inn a ondeggiare), transito di nuovo sotto la porta antica, senza quasi nemmeno sincerarmi se mia moglie mi segua o meno.
Sì sì, lei è dietro di me. Come si conviene.

La città è diventata quasi per intero un’unica, vasta zona pedonale, per via del blocco del traffico ordinato dalle autorità. Passeggiando entro le storiche mura non si nota assolutamente segno alcuno del pericolo di acqua alta. È come procedere sul fondo di uno scrigno dalle pareti ricamate. (E, per una volta tanto, senza il disturbo di auto e altri veicoli inquinanti.) È tutto asciutto, qui. Però, se uno si inoltra attraverso certi vicoli e vicoletti, o anche solo si sporge a guardare oltre un angolo, al di là di un pilastro di pietra, verso le profondità di una ‘Gasse’, di una viuzza, può occhieggiare – nonostante la luce fosca, le ombre fitte e il cielo teterrimo – gli sbarramenti di plastica che impediscono l’accesso alla riva del fiume e-o qualche stupido nastro di carta plastificata teso tra un muro e l’altro, tra un albero e una pietra, con un biglietto incollato nel mezzo su cui si legge ‘Vietato il passaggio’ più qualche altra frase bischera; e intravedere gli spruzzi del fiume iracondo, questo fiume dall’odore ammorbante come un cadavere.

Sì, un cadavere in effetti c’è. E lo sappiamo tutti. È quello del mondo.

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IL PONTE SULLA FINE DEL MONDOultima modifica: 2020-08-07T09:56:14+02:00da helvalida
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3 pensieri su “IL PONTE SULLA FINE DEL MONDO

  1. Il grande fiume minaccia di esondare. L’interesse supera la preoccupazione e gli occhi di molti seguono ansiosi i flutti che fuggono portando con sè fronde, oggetti, tronchi d’albero. Il nobile Inn è corrucciato scivolando sotto il ponte da dove si affacciano curiosi con i vestiti d’estate. La Natura ogni tanto mostra la sua forza nascosta. La cittadina abbracciata dal suo fiume ha un aspetto irreale, senza automobili. La rappresentazione dell’evento è così immediata da farci essere presenti al parapetto del ponte anche se siamo a 500 chilometri di distanza. Wasserburg, sempre magica!

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