ESTATE

“Chiudete le porte”, ordinava la nonna. Sapeva come difendersi nei giorni di vento africano. Fuori, la fucina di Vulcano a cielo aperto bruciava la pelle e gli occhi, e l’onda d’urto della luce sembrava volere attraversare le finestre sbarrate. Dentro, un’atmosfera di morbido buio, strano, artificiale, segnalava l’emergenza. Durava tre giorni, allora, il caldo insopportabile: un numero magico, perfetto per misurare la resistenza dell’essere umano. Già nel pomeriggio del terzo giorno sottili strisce di vento fresco e dubbioso si insinuavano come nastri d’argento nell’oro compatto del calore, e promettevano la vita. A poco a poco le finestre si riaprivano, le voci echeggiavano.

Si sapeva che difficilmente si sarebbe ripresentata nella stessa estate un’altra ondata di calore. Oggi ci siamo abituati a conoscere l’anticiclone africano, diverso da quello mite delle Azzorre, pronto a scaricare dieci dodici giorni di fila di temperature elevatissime senza tregua neanche durante la notte. Si ripetono più volte nel corso dell’estate, a partire dalla fine di maggio.

Allora le donne, almeno quelle che conoscevo, passavano le mattine a preparare la salsa di pomodoro fresco, molto buona in verità, non so se altrettanto utile come attività filosofica: non credo che allora si fosse più felici. Comunque la salsa l’ho “fatta” anch’io tante volte da poterla preparare ancora oggi ad occhi chiusi. Solo che non la preparo.

La mattina si aspettava anche l’uomo con il carrettino che portava le verdure a domicilio. Ricordo le zucchine lunghissime, color verde acqua, ci sono solo al sud, e le melanzane viola a specchio, “di seta” si chiamavano, per distinguerle da quelle nere, “turche”. Ogni giorno si friggevano le melanzane da mettere sulla pasta con la salsa. Siamo sopravvissuti alla mancanza di raccomandazioni di mangiare “tanta frutta e verdura”. In compenso allora la frutta era vera, oggi “sembra” vera. La mattina passava anche il gelataio con le granite. Quattro gusti: mandorla, caffè, limone e cioccolato. Oggi, quaranta gusti (anche carciofo e maionese) a un prezzo quaranta volte più alto. Mia sorella preferiva il cioccolato, mia madre cercava di indirizzarla verso il limone, “almeno è un po’ più disinfettata, che sappiamo con che mani l’hanno preparata”. Prevaleva, incontenibile, mia sorella. Mezza granita di cioccolato ogni mattina. Non c’erano brioche, ma pane fresco, ribaltando la famosa frase di Maria Antonietta, che poi non l’ha mai pronunciata. Io niente. Mangiare non mi interessava. “Te la preparo io”, diceva mia madre ed io ero contenta. Non di mangiarla, di vedergliela preparare. Era un bellissimo rito. Anche la granita sarei in grado di preparare oggi, senza frigo. Ma se non preparo nemmeno la salsa, figurarsi se preparo la granita. Forse, però, oggi che c’è internet, mi potrei organizzare: certo avrei più followers che con le poesie.

Non ho rimpianti, per l’estate, l’ho sempre sofferta. Ma c’era anche un’estate felice, quando la sera si andava all’arena, a vedere i film e si sentiva il lamento arabo del ragazzo che vendeva le gazzose (sciampagnette) decantate dalla sua umile pubblicità come “migliori della birra”, e poi calia (ceci tostati) e vari semi secchi di cocomero o di zucca. Tutti mangiavano i semi e sputavano per terra le piccole bucce che si mescolavano al pietrisco fine su cui a volte erano sistemati i sedili di ferro scomodissimi. Infatti si affittavano i cuscini e qualcuno se li portava da casa. Ma le arene erano belle. Cascate di gelsomini emettevano un profumo dolce e benevolo, uno di quei profumi proustiani, avvinghiati alla memoria e al cuore. E il cinema era l’avventura, si vedevano meraviglie di terre lontane, e l’amore, con i suoi baci lunghi e senza schiocco. Quelli che abitavano nelle case vicine vedevano il film gratis, o almeno lo sentivano tante volte da impararlo a memoria. Lì ho visto, bambina di pochi anni, “Per chi suona la campana” e ricordo l’impressione che mi fecero la bellissima Ingrid Bergman (non fu mai più bella come in quel film) e le lacrime che alla fine della pellicola scivolavano sulle guance di mio padre. Io ero molto più orgogliosa di lui e riservata nei sentimenti.

L’estate per molti anni ha significato “mare” e il piacere di un corpo giovane e dorato dal sole. Per molti anni ha significato “viaggio” soprattutto con Marzio in lungo e in largo per l’Europa, da Santiago di Compostela a Travemünde e a Istanbul. Ma non è una stagione che mi abbia dato più delle altre: la vita è la vita, e gli alberi sono alberi con le foglie e senza foglie. Anche quando ero ragazzina, ricordo che la fine dell’estate mi dispiaceva perché bisognava alzarsi presto per andare a scuola, ma poi mi consolavo pensando al profumo di terra bagnata.

Certe volte l’estate è così bella da essere insopportabile.  Nuvole bianche, leggere, e un cielo di un colore blu che solo Raffaello ha saputo inventare per i manti delle sue Madonne. Stamattina sono andata a visitare il mio ficus benjamin ormai guarito sul balcone sud della mia casa, disposto in semiombra al riparo di un altro ficus grandissimo piantato nel giardino sottostante, alto dodici metri, con foglie carnose che sbocciano senza sosta come l’amore giovane. In mezzo a tutto questo verde, ho alzato gli occhi e ho visto le cime del grande ficus ondeggiare lievemente al vento e scoprire macchie di cielo tenero. In lontananza l’aria di cristallo sembrava crepitare, disegnava nitidamente la costa dorata in contrasto col mare turchino. A completare questo Eden semiurbano, le mie sei tende da sole bianche e turchese che tagliano il panorama senza fine della città. E a nord quel vulcano altro più di tremila metri, che tutti qui chiamano “la montagna”. La spietatezza del vivere mi ha tagliato il respiro. Ma poi, “meno male”, ho pensato, “meno male che l’estate è anche il rumore, le camicie aperte sui toraci tatuati, l’invadenza, il sudore, le frequenze basse della musica-disco, l’asfalto molle sulle strade. Meno male.”    

L’estate è il sole di Van Gogh con tutti quei tremendi trattini che sembrano uncinarsi alla mente e straziarla. E i suoi corvi neri sui campi di grano.

Una volta ho visto un grande corvo nero. Sempre in estate. Aveva forma di donna e camminava lungo una strada provinciale nella Francia del Centro, una strada perfetta come solo lì sono le strade, levigata e fine come seta grigia. L’aria era elettrica, livida in pieno mezzogiorno, la fine del mondo sembrava annunciarsi sotto forma di temporale in agguato, e la donna avanzava lontanissima, a larghe falcate, pericolosamente, in quella strada a scorrimento veloce. Avanzava nella nostra stessa direzione di marcia ma nell’altra carreggiata, quasi correndo come se avesse una meta. Ma non poteva averla. Vestita di nero, con maniche larghe che svolazzavano nel vento contro campi di un giallo riarso con le ferite scure inferte dalle lame dei mezzi agricoli che li avevano solcati. Non poteva avere una meta. Era un visione, da cui Marzio ed io non riuscivamo a staccare gli occhi. Era Medea o Elettra, uno di quei personaggi che sconvolgono il cuore in eterno. Un’attrice, forse, di un immaginario teatro dell’inferno, in libera uscita dalle fiamme, felice di dirigersi verso campi in cui il fuoco era già passato.

Anna Murabito     alimarbit@yahoo.com

ESTATEultima modifica: 2020-08-12T10:10:34+02:00da helvalida
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5 pensieri su “ESTATE

  1. Una vivida descrizione dell’estate, anzi delle estati della propria vita, ciascuna dipinta in un quadro differente. Ogni scena e’ descritta con poche pennellate coloratissime, grondanti antiche memorie e sensazioni. Non solo le forme e i colori, ma i sapori, gli odori, i suoni, ti balzano addosso dalle diverse descrizioni. Un piccolo capolavoro.

  2. Tutto quel che scrivi è gradevole. Mi ha colpita in modo particolare la descrizione , in apppena due righe, dell’estate di Van Gogh.Ancora tengo le mani sui capelli. Le tue pagine sono sculture. Potrei continuare ancora, ma mi fermo.

  3. Il testo bellissimo, curatissimo e semplice ha toccato in profondità il mio cuore e la mia sensibilità. Mi ha tuffato nel passato,richiamando tanti dolci ricordi dell’infanzia. Il testo rivela il talento e la grande cultura dell’autrice.

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