NOTTURNO

di Giuseppe Alù 

È buio. Sono le dieci. Lei mi viene sempre dietro, da diversi giorni. Andiamo a cercare Livio. Camminiamo per parecchio tempo. Arriviamo al Prato. C’è Antonio. “Dov’è Livio?” “Non l’ho visto”. “Devo vederlo”. Guarda la donna. “Chi è?” “È con me. Dov’è Livio ?” “Non l’ho visto, prova da Gianni”. Torniamo indietro. Camminiamo. Fa un po’ di freddo. “Gianni!” S’affaccia la madre. “Non è tornato!” Andiamo alla Pizzeria. C’è la mercedes di Gianni. “Aspetta qui”. Lei aspetta. Entro. Il padrone mi squadra. “C’è Gianni?” Non mi risponde. “C’è Gianni?” “Te lo chiamo”. Viene Gianni. “Hai visto Livio?” “No”. “Devo vederlo”. “Lasciami stare, prova al Muro”. Esco. Andiamo, proviamo al Muro. Camminiamo. Lei non c’è più, è andata per conto suo. Continuo verso il Muro. È lontano. Ho i nervi che mi tirano. Ho dormito poco. Dormo di giorno nello stanzone perché di giorno c’è troppa luce per girare. La notte è meglio. Lei forse è andata sul viale. Però puzza un po’, che crede di fare? Non ha neanche preservativi. Arrivo al Muro. Ci sono tre. “Avete visto Livio?” “No, forse viene più tardi”. Aspetto anche io. Passa mezz’ora. Arriva uno. “Hai visto Livio?” “Forse viene”. “Hai qualche cosa?” “Che ti serve?” “Una”. “Forse più tardi. Quanto ciai?” “Aspetto Livio, me li dà lui”. “Non so se viene”. “È quella la sua mercedes?” “L’ha venduta”. “Che cià ora?” “Un’alfa”. Al Muro fa freddo. Livio non si vede. “Prova a casa”. “A casa non vuole”. Aspetto ancora. Arriva lei. Mi dà cinquantamila. Senza preservativo pagano di più. Andiamo dai tatuaggi. Camminiamo. La guardo. Ha le pustolette agli angoli della bocca. Si “fa” da dieci anni. Non è giovane. Le ossa della testa si vedono bene. I capelli sono pochi. Arriviamo dai tatuaggi. Stelio è gentile, ci fa entrare. Ha l’attrezzatura per fare tatuaggi. Lui è tatuato sulle braccia e sul collo. Ha tanti anelli d’argento alle dita e due orecchini per orecchio. È completamente rasato. “Non ho visto Livio. Hai bisogno?” “Mi deve dare centomila, gli ho dato tre catenine. Ho bisogno”. “Io non posso dartele. Ho fatto spese”. “Va bene”. “Vai via? Chi è lei?” “Daniela”. “Ho capito. Se vuoi, puoi restare”. “No, vado via”. Stelio viene alla porta. Usciamo. Proviamo alla pizzeria. C’è ancora la mercedes di Gianni. “Aspetta qui”. Entro. Il padrone è alla cassa e non mi vede. Mi avvicino. “Ancora?” “Chiama Gianni” “Aspettalo fuori”. “Va bene”. Aspetto. Tarda. “Che vuoi, lasciami in pace”. “Devo vedere Livio”. “Ti ho già detto che non l’ho visto. Hai provato al Muro?” “Non c’è”. “E che vuoi da me?” “Livio mi deve dare centomila. Me le puoi dare tu? Poi lui te le dà”. “Non ce l’ho” “Gli ho dato tre catenine. Poi lui te le dà. Ho bisogno”. “Non ce l’ho, hai capito? E quella chi è?” “Lo sai che Livio te le dà”. “Insomma, mi lasci in pace?” “Dammi centomila”. Gianni mi dà una spinta e torna in pizzeria. Io mi rialzo lentamente. Daniela mi aiuta. Ho i nervi che mi tirano. Lei ha gli occhi pesti. Debbo vedere Livio. È mezzanotte meno un quarto. “Riproviamo al Muro”. Camminiamo. C’è un gruppo fermo sotto un lampione. È gente nuova, non conosco nessuno. Continuiamo. Lei è dietro. Al Muro c’è più gente. “Non l’abbiamo visto”. Aspettiamo. Ho i nervi che mi tirano. Lei mi sta vicino. Non è messa bene. Sta peggio di me. Passa il tempo. Ci sediamo sul gradino del marciapiede. “C’è qualcuno che cià qualcosa?” “No” “Deve venire il marocchino” “Non prendete dal marocchino” “Lui che cià?” “Non prendete niente dal marocchino”.  Va bene. È l’una. “Andiamo al Prato”. Lei si alza e viene dietro di me. Camminiamo. Al Prato c’è parecchia gente, ma non Livio. Sto male. La guardo. Sta peggio. Giriamo per i gruppi. “Livio l’ho visto  al Casone”. Andiamo verso il Casone. I piedi mi bruciano e ho i nervi che tirano. Passiamo per i campi. Lì è proprio buio. L’erba è bagnata e mi bagna  le scarpe e i jeans. Lei ha i sandali. Ecco il Casone. C’è gente. “Livio è andato via” “Mi deve dare centomila” “Ho capito”. Ci sediamo un momento sui mattoni. L’occhio si è abituato al buio e vedo abbastanza. Non c’è luna. È umido e sto male. Ci sono due africani che parlano fuori dal Casone. Riprendiamo la strada. Forse lo trovo alla stazione. Andiamo. La stazione ha le luci spente. Tre mercedes sono ferme sul piazzale con le luci accese e quattro o cinque persone parlano vicino. C’è anche Gianni. Questa volta mi allontano. Entro nella stazione dal passaggio dei ferrovieri. Lei mi aspetta fuori. Guardo nelle sale d’aspetto. Non c’è nessuno. Sul marciapiede dorme qualcuno che non riesco a riconoscere.  È coperto di cartoni. Giro ancora ma è inutile. Le gambe non vanno bene. Esco e lei è ancora lì. Continuiamo a cercare. Ci sono in giro le macchine della discoteca. Andiamo alla discoteca. È lontana. “Vuoi aspettarmi qui?” Non mi risponde e mi viene dietro. Camminiamo. Vengono incontro macchine. Sono le due e mezza. Arriviamo alla discoteca. Tante macchine parcheggiate. Forse è sabato. Gruppi di persone. Giro intorno per vedere se vedo Livio. Non c’è. Lei si ferma vicino l’ingresso. Giro per il parcheggio per vedere se vedo un’alfa. Una torcia mi schizza la luce sugli occhi. “Che fai qui?” Mi metto una mano davanti agli occhi. “Cerco un’alfa” “E perché cerchi un’alfa?” Ha il cappello militare e un giubbotto di pelle. “Cerco Livio” “E chi sarebbe questo Livio?” “Uno” “Ma va?!” “Mi deve dare centomila” “E lo cerchi in mezzo al parcheggio?” Mi allontano e quello mi viene dietro. “Aria! Hai capito?” Mi allontano. Gli occhi mi bruciano. Torno in mezzo alla gente, ma quello mi segue. Vado via e lei mi viene dietro. “Andiamo al mercato”. Sono quasi le quattro. Camminiamo. Alla fontana del mercato ci sono tre persone. Non c’è Livio. Vedo il marocchino. Ho i nervi che mi tirano. Mi avvicino. “Hai visto Livio?” “Non mi ricordo”. “Che ciai?” “Che ti serve?” “Una o due” “Quanto ciai?” “Livio mi deve dare centomila”. “Va bene. Quanto ciai?” Tiro fuori le cinquantamila di Daniela. “Aspetta qui”. Daniela mi guarda, io la guardo. Il marocchino è andato via con le cinquantamila. Ci appoggiamo al muro del mercato. Ricomincio a vedere nel buio. Aspettiamo. È freddo. Torna il marocchino. “Tieni”. “Una sola?” “Sì”. Ci allontaniamo. Dietro la Porta c’è un gruppetto ma anche la macchina dei carabinieri. Lo stomaco ha un risucchio. “Ehi, vieni qua”. Non sento e vado via. Il brigadiere mi raggiunge. “Guarda chi si vede. Dove vai?” “Io? Dove vado?” “Chi è lei?” “Un’amica” Lui stende la mano. “Dammi la droga” “Che droga?” “Non fare lo scemo, dammi la droga”. Sento la bustina nel calzino. “Che droga, brigadiere?” “Forza!” “Non ce n’ho”. “Non ce n’hai?” “No”.  “Sicuro?” “Sicuro”. Mi fissa. “Guarda che faccia. Quando vai in comunità?” “Questa settimana”. “Bugiardo” “È la verità, brigadiere”. “E lei che fa?” “Niente. È con me”. Ci fissa, scuote la testa, è incerto. “Va bene. Ma non darla a lei perché è reato. Hai capito?” “Ma che dice, brigadiere?” “Vai, vai”. Torna vicino alla macchina e al collega che sta identificando due che sembrano albanesi. Ci allontaniamo. Camminiamo verso il nostro posto. Comincia a fare chiaro. È freddo. Abbiamo fretta. Arriviamo. Ci sediamo nell’angolo. Dall’altra parte dello stanzone i due africani dormono. Tiro fuori la bustina. Guardo la polvere. È poca. Lei ha in mano la siringa. Trema. Sta male. Porca troia. “Fai tu” le dico. Mi alzo e giro per lo stanzone. Ho i nervi che mi tirano e le gambe morte. Giro e giro. Giro e giro. Torno vicino a lei. Ha l’ago nella vena della mano e dorme. Mi stendo. Sento un peso sul torace che mi schiaccia. Fa sempre più chiaro. Respiro male. Guardo e non riesco a pensare. Non penso. Passa il tempo. I due africani si muovono e si alzano. Vengono dalla nostra parte. Sono altissimi o così mi sembrano dal basso. Guardano me e Daniela. Si guardano tra loro. Mi dicono qualche cosa che non capisco. Indicano Daniela. Si chinano a guardarla meglio. La scuotono. Parlano tra loro. La scuotono ancora, poi vanno via veloci. Mi giro e la guardo. È girata dall’altra parte. Ha ancora la siringa nella vena. Col ginocchio le do una spinta. Non si sveglia. Un’altra spinta. Mi alzo e la guardo. Ha gli occhi bianchi e la bocca aperta. Sembra morta. La tocco. È morta. Porca troia. Prendo le mie cose e me ne vado.

Due commenti di Anna Murabito

“A caldo”. In punti.

Andamento ipnotico. La ripetizione ossessiva intrappola in una trance asciutta e mortale. Gli umori sono pochi e non vitali: quelli di un rapporto prezzolato; dell’erba bagnata che inzuppa i jeans (“lei ha i sandali”, uso mirabile del “non detto”); della dose che lei si inietta alla fine.

I personaggi. Tessere anonime di un mosaico disaggregato.

Il dialogo. Coriandoli monocromi. Ad ogni sosta un mucchietto. Parole che non “significano”, da usare ad libitum, ripetute all’infinito nella loro povertà di carta riciclata. Sono destinate al bidone della spazzatura.

Il ritmo. Un tamburo che accompagna insieme al battito del cuore la lunga agonia della vita e quella breve della morte.

In una parola: magnifico.

 

“A freddo”. In una lettera all’autore

E invece devo parlarne ancora, di questo racconto, anche se non vuoi o, più precisamente, mi vuoi esentare dal farlo. Pensi che io abbia detto tutto. Ma io non ho detto tutto, perché il tuo “Notturno” continua a rimanermi nelle orecchie e merita più delle quattro note a caldo.

Dico non a caso “nelle orecchie”, perché è un racconto che non si legge, si ascolta. Eppure non vi si identifica nessun suggerimento musicale e, se dovessi scegliere un brano d’accompagnamento, non saprei indicare l’autore. Forse Stravinskij, se avesse composto un Requiem, ma mi sembra  sbagliato anche lui. Nel silenzio di pietra si percepisce solo un sordo, lento tamtam, un ritmo primitivo adeguato all’agire subumano dei personaggi, e il battito del loro cuore, come espressione di pura vita vegetativa. È questo che rimane nelle orecchie.

Il tutto sotto un cielo nero che non viene mai descritto, eppure incombe. E continua ad incombere anche quando schiarisce, perché l’alba segna solo lo scorrere del tempo, non la luce che arriva.

In questa calma ipnotica e spettrale, che non è calma, è mancanza, cominciano a muoversi i personaggi. Sono pochi, ma sembrano molti. Sono lenti, ma sembrano brulicare in una “vignetta gremita”. Sono milioni. Esprimono non un’identità, ma una condizione. Non un dolore, ma un bisogno, uno solo.

La loro vita-non vita si esprime in parole-non parole. Se ne potrebbe fare una rappresentazione teatrale o cinematografica in cui prevalgano i gesti e le espressioni. Ma forse non ci sono neanche espressioni, perché non c’è pensiero e quindi non c’è aggressività, (solo qualche gesto rude a significare il degrado) non c’è pietà, non c’è angoscia. In teatro forse userei maschere tutte uguali e tutte ugualmente inespressive.

È un racconto che si sente con le orecchie e col ventre e solo dopo si rielabora col cervello. Solo dopo aver “sentito” l’agonia, si comincia ad essere sconcertati, perché l’indifferenza che uniforma il tono delle parole annulla il confine già sottile tra la vita e la morte, e non solo, toglie il rispetto che i sani e gli indenni hanno per l’una e ancor più per l’altra.

In questa sottoumanità emerge la figura di lei, Daniela, ma meglio “lei” e basta. È un archetipo, sicuramente, ma un archetipo maleodorante, con le pustole agli angoli della bocca, con i capelli che cominciano a diradarsi, il teschio che emerge. E i piedi freddi e bagnati. È l’archetipo di un povero qualcosa, che fu una ragazza. L’autore con pochi tratti l’ha sottratta  all’anonimato. Il lettore la identifica e la segue. Si vorrebbe evitarle l’ultimo contatto con un uomo, che non ha niente di umano (col preservativo o senza, che importa, se stai morendo? Meglio senza, guadagni di più e puoi avere l’agognata dose) e che non si può neanche definire animalesco, perché un animale morente non si accoppia. Le si vorrebbe fare un bagno caldo, perché lo può sentire più di una carezza, ed iniettarle l’ultima dose comprata per lei, perché dimentichi sé stessa per sempre. La si vorrebbe coprire.

È un racconto duro, è un colpo di pietra nello stomaco e mi ha dato la “mala pasqua”, ma è una sofferenza che l’arte può arrecare, perché questo è un racconto artistico. In esso più che mai la forma è sostanza.

Cascami di vite e cascami di parole si riflettono, si identificano e si ritrovano, nella loro insignificanza, anche nei caratteri grafici scelti nell’originale, regolari, monotoni, fitti, e senza mai andare a capo. Ricordano la grafia manuale ossessivamente curata, con qualcosa di rotondeggiante. Costituiscono come un letto di pietrisco inerte adatto a personaggi fatti dello stesso materiale.

Vite-non vite, parole-non parole, così strette, addossate le une alle altre, e così vuote, così inutili.

Attraversare questo magma freddo è come attraversare il dolore che è nelle cose. Senza che si senta un solo lamento.

Sunt lacrimae rerum. È questa la lezione di “Notturno”.

 

 

 

NOTTURNOultima modifica: 2020-08-15T15:28:58+02:00da helvalida
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4 pensieri su “NOTTURNO

    • Gentile Nicola de Veredicis, molte grazie per l’apprezzamento del mio raccontino Notturno. Lei richiama Pasolini, e mi sembra giusto. Tuttavia, lo scritto ha una origine diversa. Negli anni passati ho condotto interrogatori di eroinomani arrestati e tutti apparivano passivi, indolenti, come disinteressati. Rispondevano a tutto con indifferenza, tranne che alla domanda Chi ti ha fornito la droga. Anime di cartone. E parlavano con una sorta di “balbettio mentale” per il quale usavano non più di tre o quattro parole ogni volta. Incapaci di un pensiero più lungo. Ho voluto riprodurre questa particolarità nel mio scritto (anni 80) che mi sembrava molto strana. Se sono riuscito ne sono lieto. Grazie ancora di tutto.

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