IL MAIALE – Sec. XVII

di Giuseppe Alù

…perché, vedete  Monsignore, io sono una persona timorata ed è per questo che sento il dovere di prospettare a qualcuno che abbia la facoltà di capire, di mettere ordine in quello che la mia debole mente percepisce ma che non riesce  a decifrare, mi spiego, quando la prima volta sono entrato in quella casa ho avuto, come dire ?, la sensazione che qualcosa dovesse succedere prima o poi, e non mi chieda perché avevo avuto questa sensazione, si trattava appunto dell’orecchio dei sensi che ode i segnali più indefiniti,  i richiami più evanescenti, chiedo scusa, divago, è il mio tremore e l’ora notturna e questo luogo che mi fa ancor più stralunato, ma non importa, debbo riferire come in confessione a Voi, Monsignore, c’era qualcosa di strano in quella casa, non mi fraintenda, qualcosa che riguardava soprattutto le persone non altro, voglio dire non i mobili, gli arredi, no, le persone, a vederle mi erano sembrate, come posso dire ?, diverse, certo non le avevo mai viste prima ma già sentivo che erano diverse, da che cosa lo deducevo ? non saprei, forse dal modo di guardare, dal modo in cui si trattavano tra di loro, ecco, non saprei, tutto mi portava a credere di esser entrato in uno di quei luoghi descritti nelle quaresimali, luoghi di confusione, anzi non proprio confusione ma tensione e incertezza, dove non tutto è al proprio posto, e particolarmente la donna, mi era sembrata un po’ lenta, sì, lenta come assorta, perché tanto assorta ? mi chiedevo, mentre il marito era così  gentile, non so… forse non dovrei essere qui a dar voce a questi miei rimuginamenti e infastidire Voi, venerando Monsignore, però sento che devo riferire a qualcuno per la mia onestà, per la mia tranquillità, non Vi ho ancora detto che sono mercante e debbo, per il mio lavoro, spostarmi continuamente per comprare e per vendere e così campare in grazia di Dio, e proprio per questo motivo ero entrato in quella casa, per vendere qualcosa e per passare la notte che è la nemica di noi mercanti, sapete Monsignore, che siamo costretti a girare o con la mercanzia o con i denari, e così avevo pensato di mostrare a loro stoffe e fibbie e nastri e forse anche di cenare con loro, pagando s’intende, o facendo risconto sul prezzo del venduto… Dio come sono stanco, sono sfinito… e quindi, entrato in quella casa, mi ero ripromesso di far cortesia ai padroni come meglio avessi potuto, quando quella strana sensazione mi aveva afferrato, ma dove sarei potuto andare a quell’ora ? per questo rimasi con vigilanza e timore perché in verità avevo timore, senza che sapessi dirne il motivo, dato che il marito era assai gentile mentre l’altro, il giovane, stava in silenzio, rigido, appoggiato alla parete e la moglie era, come dire, lontana, so che non è chiaro ma più di così il mio linguaggio non mi assiste… sento freddo Monsignore, debbo soffiarmi sulle dita… l’aria era strana , densa, che so, gonfia, conosco tante case, capisce, è il mio lavoro, guardo un uomo o una donna e i loro occhi mi svelano quasi tutto, mentre gli occhi di quei tre mi sfuggivano anzi meglio mi fuggivano e questo non capita mai con un venditore che porta la novità nella vita dei paesani e nelle loro case dove la curiosità ci apre le porte e quando pregai di poter  esporre i miei bei panni ebbi una risposta gentile da parte del marito e quasi nulla dalla giovane moglie, che è ancora più strano, loro due si guardarono senza vedersi ed io, dato che il padrone di casa lo aveva permesso, nonostante la scarsa luce che veniva dal focolare e da una sola lanterna, poggiai sul tavolo ciò che avevo con me rimanendo a guardare come la moglie osservasse, ma lei osservava male, intendo dire che guardava ed era come se non le importasse nulla e lui le chiese che cosa ti piace di questo e lei posò la mano sulla stoffa più vicina e lui  mi disse che voleva comprarla, e proprio in quel momento che lui parlava con me sorpresi gli altri due che da dietro si guardavano come se volessero incollare i loro sguardi, e questo mi preoccupò, e comunque io consegnai tranquillamente il panno al marito, presi il denaro e chiesi di poter rimanere su una sedia nella stanza per la notte e l’indomani avrei fatto un regalo alla donna e l’uomo sempre gentile mi disse che non vi era ostacolo alcuno, ma non so se davvero non vi era ostacolo alcuno perché mentre io stavo ringraziando mi accorsi che l’altro lo  fissava da dietro con avversione e la donna usciva dalla stanza… una situazione che non volevo vivere ma ormai c’ero anzi il marito mi offrì una sedia davvero comoda e così pensavo, Monsignore, pensavo a quello che vedevo e a quello che non vedevo, quando l’altro, dopo aver ripulito il pavimento dai tizzi neri saltati dal focolare spazzando con certi scatti rabbiosi e sgraffi di scopa duri da segnare il cotto,  senza dir nulla aprì una porta bassa che dava in una piccola stalla, da dove si sentivano pestare maiali e pecore, e sparì all’interno e allora il marito  si sedette accanto alla lanterna che gli tagliava il viso di ombre, prese un falcetto e si mise ad arrotarlo con delle mani larghe come taglieri sorridendomi alquante volte ed io gli sorridevo e così speravo che tutti andassero a dormire e l’aria si facesse meno spessa ma invece l’olio della lampada continuava a scendere e il tempo a passare e tutto rimaneva sospeso sennonché ad un certo punto la moglie riapparve nella stanza con gli occhi rossi, io capii che  aveva pianto, e si mise  seduta verso il fuoco dando le spalle al marito che intanto aveva finito di arrotare il falcetto ed aveva preso ad incidere un legno per farne, credo, un cucchiaio e a quel punto io decidevo di fingere di dormire perché avevo capito che ero sopraggiunto in un momento per niente opportuno ma ormai dovevo solo far passare la notte e poi andar via, e l’altro non tornava più, forse era rimasto a dormire con i maiali che sembrava proprio un guardiano, un “giovane di casa”, come si dice dalle nostre parti, con una barbetta a punta, uno sguardo un po’ spavaldo come l’hanno i giovani che ancora non conoscono la vita e credono di poterla conquistare con il coraggio e non con la saggezza, Monsignore, ed anche il vestito era da guardiano, usurato ma portato con una certa grazia da un corpo snello, comunque un vestito tanto diverso dalle vesti del marito che manifestavano decoro e gravità come era giusto per gli anni e la gran complessione che aveva, ed anche la giovane donna aveva un vestito di buona stoffa, di foggia un po’ vecchia ma abbastanza ricco per quella casa, lo avevo notato subito io !, e così, Monsignore, mi ero preparato a trascorrere la mia notte  sedendo nel modo più confortevole su quella sedia  dal fondo di cuoio imbarcato mentre  si sentiva solo il mordere del falcetto che scavava nella polpa del legno e i trucioli cadevano sulla tavola  e andavano a far compagnia a certe briciole di pane che erano  là  da chissà  quanto tempo perché non avevo visto resti di cena né sulla madia né dentro al caldaro, e anche questo mi era sembrato strano,  perché per me i tre non avevano cenato, forse avevano solo parlato, tanto che ora non avevano più niente da dirsi a voce e così uno di qua uno di là tacevano ma non smettevano di pensare e forse anche di parlarsi in silenzio, mi ero accorto anche di questo, l’incidere duro del marito parlava a mio parere, anche gli occhi della moglie parlavano ed anche l’assenza del giovane guardiano parlava, io mi intendo e capisco ma non sono sicuro delle conclusioni, che cosa si dicevano ? ed è per questo che Vi riferisco tutto ciò, che non finì in quel momento ma proseguì per un po’ fino a quando il marito si alzò pesantemente, raccolse i trucioli e le briciole, gettò  tutto nel fuoco e, con il falcetto in mano, si avviò verso la piccola stalla buia da dove venivano brontolii confusi di animali che si muovevano nel sonno e chiudendo dietro di sé la porta avvertì che andava ad ammazzare il maiale,  la moglie rimase in silenzio ed immobile come scolpita nel sasso mentre io facevo finta di dormire in attesa di quello che sarebbe successo oltre la porta ed infatti successe uno scalpiccio forte e duro sul pavimento poi un tonfo come di corpi che cadessero avvinghiati, Monsignore, una lotta impressionante, insopportabile per un pauroso come me, anche grugniti soffocati e la moglie nella penombra impietrita che non si muoveva come fosse morta e forse era morta ma non potevo accertarmene, il trambusto non finiva mentre io tremavo anche di freddo perché il fuoco del camino era ormai quasi spento e la lampada non ce la faceva più a dare luce, dietro la porta sembrava la guerra dei tori, colpi e colpi e sforzi furiosi, la stalla che esplodeva di violenza e, Monsignore,  io cercavo di non sentire, di farmi piccolo… poi ad un tratto il subbuglio diminuì,  emerse il respiro affannoso di un uomo, gli animali  che si sistemavano di nuovo e quindi il silenzio e nel silenzio la porta cupa sui cardini e il marito apparve  sull’uscio che si vedevano solo gli occhi brillare nell’oscurità e il suo respiro riempire la stanza mentre si asciugava le mani sporche di sangue con una lana e il sangue nel buio sembrava nero e tutto lui sembrava grande e nero, si avvicinò alla brocca, bevve a lungo poi guardò verso la moglie che per me era morta, guardò verso di me che dormivo della grossa, si segnò e disse buonanotte alla stanza e si avviò verso la camera per dormire ma senza dire a sua moglie di seguirlo lasciandomi in quell’oscurità in cui credevo di soffocare perché,  Monsignore, lo avete capito, non sono uomo di armi o di guerra, io non potevo più rimanere lì, con quella che per me era davvero morta come se le fosse scoppiato il cuore,  vicina che ne sentivo quasi il gelo, sarei fuggito e non mi importava che l’indomani l’ospite fosse rimasto male, sì a causa della mia scortesia e magari andasse a controllare se non mancava nulla in casa, ma io dovevo uscire, e quando mi raggiunse lo stridio di un uccello nella notte non resistetti più e scivolai lentamente dalla sedia cercando di far tutto come un fantasma, sollevai da terra i miei fagotti, mossi alcuni passi verso la porta che intravvedevo appena, pronto ad aprirla cautamente, nonostante il tremito che comandava alle mie mani, attesi qualche istante e appena sentii  un calpestio più forte venire dalla piccola stalla aprii uno spiraglio e vi passai attraverso uscendo all’aperto e da allora corsi per la strada come un cane da caccia con la lingua di fuori verso il posto di guardia e chiesi di parlare subito con Voi Monsignore  non per fare delazione, Dio mi scampi !, ma per sapere, per sapere come interpretare quello che ho visto  e quello che non ho visto, come sottrarmi agli spettri di questa notte…

Commento di Anna Murabito

Se il racconto sui tossici rimane nelle orecchie, “Il maiale” rimane negli occhi: come una successione di immagini, cupe, illuminate da pochi sinistri bagliori che fissano in pietrificati fotogrammi le parole non dette, i gesti espressivi più della voce, la stessa atmosfera, l’aria era strana, densa, che so, gonfia.

 Il racconto si dipana in una sfilata di oli caravaggeschi (la lanterna che gli tagliava il viso di ombre), a cui tuttavia è progressivamente sottratta la funzione redentrice della luce, perché la narrazione si svolgerà sempre più al buio ed anche al freddo, via via che il fuoco del camino si esaurirà.

Un commerciante di stoffe, abituato al contatto con la gente, arriva in una casa in cui qualcosa lo inquieta. Sono i suoi sensi a metterlo sull’avviso, non la sua mente, pensavo a quello che vedevo e a quello che non vedevo. Rimane così vigile e timoroso di fronte ai tre protagonisti (una donna, il marito di lei, un giovane garzone) che non hanno desinato e sembrano preda di sentimenti che agitano la loro anima fino a scuoterla.

La scena è dominata dalla tensione per un evento che forse si è verificato, per un evento peggiore che starebbe per verificarsi. C’è un destino già scritto che incombe come un immondo peso sui protagonisti, una violenza delle azioni che si percepisce anche nella gentilezza continuamente sottolineata del marito; nell’apparente arrendevolezza della moglie, nel suo mortale distacco che la porta a vivere come un automa (lei posò la mano sulla stoffa più vicina); nell’incrocio significativo degli sguardi (da dietro si guardavano come se volessero incollare i loro sguardi).

Pochi rumori sottolineano i gesti, protagonisti assoluti: spazzava con scatti rabbiosi e sgraffi di scopa duri da segnare il cotto;  l’incidere duro del marito che sagoma con un falcetto un pezzo di legno. Poi i tonfi sordi e terribili della lotta che non si vede e alla fine un angoscioso rumore di passi non si sa se effettivamente percepito o immaginato.

Ma il marito “parla” soprattutto con i gesti, quando riappare con le mani sporche di sangue (si vedevano solo gli occhi brillare nell’oscurità e il suo respiro riempire la stanza). E più di tutti “parla” la moglie che rimane sempre in un silenzio e un’immobilità mortali. “Ne sentivo quasi il gelo”, dice il commerciante.

Parla anche il respiro ansimante del narratore. Fino alla fine non comprende con il cervello, ma con l’orecchio dei sensi che ode i richiami più evanescenti. Sa che deve fuggire, e corre via a perdifiato da quella casa dove è avvenuto qualcosa che la sua mente non tollera. Davanti all’Autorità, un paio di volte esprimerà la sua angoscia: “Dio come sono stanco, sono sfinito”; “sento freddo Monsignore, debbo soffiarmi sulle dita”. Non vuole denunciare, raccontando. Vuole solo tentare di sottrarsi agli spettri che hanno invaso la sua anima.

Gotico, simbolico, violento, immaginifico, pittorico, angoscioso.

Racconto dall’indubbio valore letterario, indimenticabile per tre elementi: le immagini, il procedere incalzante della narrazione, la lingua costantemente consapevole e smagliante nella sua adeguatezza.

 

 

 

 

IL MAIALE – Sec. XVIIultima modifica: 2020-08-16T10:33:15+02:00da helvalida
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5 pensieri su “IL MAIALE – Sec. XVII

  1. mi associo al commento di Anna Murabito e aggiungo che in tutto il racconto non c’è un punto di sospensione, solo qualche virgola. Non è un caso

    • A volte accade che l’autore sia in uno stato di grazia, e allora tutti gli elementi, anche la scelta della punteggiatura, concorrono a realizzare un’opera artistica.

  2. Posso solo commentare che, se il racconto e’ un capolavoro, il commento di Anna e’ a dir poco geniale, nel cogliere tutti gli aspetti di questo quadro di Goya.

    Il racconto ti resta dentro come un incubo, non si dimentica facilmente. Ancora una volta complimenti, Giuseppe Alu’.

    • Caro Nicola de Veredicis, le sono davvero grato per il giudizio lusinghiero che ha voluto riservare al mio raccontino che, tra l’altro, risale agli anni 80. Mi ha fatto davvero piacere soprattutto il suo sentire una vicinanza a Goya e ad uno dei suoi “incubi”. Era proprio quello che volevo fare e lei lo ha perfettamente compreso. Grazie.

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