RASSÌA

Si chiama Russia, ma loro dicono Rassìa.

Una strana nostalgia mi vince quando parlo di questa immensità pianeggiante e dispersa, divoratrice di eserciti. Feroce.

La sua grande letteratura ha fatto parte della mia vita fin dall’adolescenza, e Ivan Karamazov ha camminato a lungo insieme con Ulisse e Prometeo nella mia Magna Grecia. Ho fatto quello che ho potuto, per la Russia: le ho assicurato quello sbocco sul mare cui sempre ha ambito.

Mi sono chiesta, a volte, se questo Paese straziante e lontano non fosse il continente della mia anima.

Lì ci sono gli spazi aperti che il mio immaginario cerca. Lì ha cavalcato Caikovskij, macinando note e leghe, urlando il suo dolore senza verecondia, come solo un russo “eccessivo” può fare. Lì il valore della vita ha toccato il suo minimo. Lì corre ancora la disperazione di Dostoëvskij, che scrive di notte inseguito dai debiti di gioco, si succedono i lampi della sua grande arte impressionistica e crudele. Il cupio dissolvi dei suoi personaggi. Lì ho sentito nominare per la prima volta il delirium tremens, fenomeno a me sconosciuto, pur chiamandosi Enotria la mia terra.

Ci sono stata. Solo una volta. E non ho avuto voglia di tornarci. Ha prevalso l’amarezza. L’Unione Sovietica ha martirizzato questo Paese e alcuni segni erano ancora evidenti nel 2002, anno in cui ho visitato Mosca, San Pietroburgo e i suggestivi monasteri dell’“Anello d’oro”. Viaggio rigorosamente organizzato e non poteva essere altrimenti. Ci si sente lontani da casa, “in terra incognita”, e in pericolo. Con la sensazione che, se stai male, non hai a chi rivolgerti, non sai che lingua parlare. Nessuna scritta in inglese accompagna il russo.

Quando ci sono andata io, il turista era ancora malvisto, vessato, trattato da merce. Non so se adesso le cose sono cambiate. Un cameriere scacciò il nostro gruppo in malo modo: “Via, via”, diceva, avanzando minaccioso verso di noi perché avevamo interpretato male un avviso in cirillico puro e ci eravamo presentati a cena con mezz’ora di anticipo. Sembrava un boscaiolo a caccia di orsi. Ma noi eravamo orsacchiotti imbelli. Degno di boscaioli, quanto a rudezza, era invece il cibo. I francesi dicono degli inglesi che “Ils mangent de la merde”, avendo discretamente ragione. Ma quando hanno inventato la loro colorita osservazione non avevano ancora assaggiato il cibo russo. Oppure conoscevano solo i blinis e il caviale, accompagnato – perché no? – da champagne.

Il primo disperato contatto fu una colazione per migliaia di persone tutte insieme nell’enorme refettorio del nostro albergo, e una sorta di assalto alla diligenza per conquistare un posto a sedere. In questo girone dantesco ci venne “servita” una colazione da orfanotrofio, con una marmellata di lamponi che ondeggiava sui piatti, liquida come … non oso fare un paragone, dopo quello dei francesi. A fine colazione, tutte le scolature della marmellata incontinente sfuggite senza appello a migliaia di persone venivano raccolte dagli inservienti-camerieri-chef in enormi secchi di alluminio. “È per la colazione di domani”, insinuò un nostro amico con un senso dell’umorismo macabro fuori misura.

Andò sempre così col cibo. Durante uno dei viaggi di spostamento, un giorno a pranzo ci venne servito il famoso “borshch”. “Servito” nel senso che un pentolone fu collocato al centro della lunga tavola. Una gentile signora del gruppo si offrì di fare lei le porzioni per tutti. “Prima suo marito”, la invitammo, forse per ragioni di età o per ricambiare la gentilezza. Fu così che il marito della signora ebbe la sua zuppa e tutti gli altri solo acqua colorata di barbabietola, senza carne, appena sufficiente per uno. A mano a mano che serviva, la signora si dispiaceva: “Ma io non volevo, ma io non sapevo, credetemi …” Lei mescolava, mescolava a fondo, nella speranza di trovare qualche pezzetto di carne, ma era finita tutta nel piatto del marito, il quale, poveretto, si sentiva un ladro e non sapeva se poteva cominciare a mangiare prima che si freddasse. Noi ridevamo guardando le loro facce. 

In un ristorante di “lusso”, effettivamente distinto, ci venne somministrata un’altra zuppa tipica del Bassopiano Sarmatico, immagino. Eravamo stanchi ed affamati e la minestra fumava. “Strana, ma … buona”, osai, volenterosa. Anche altri cominciarono a sorbirla. Ci colpì a tradimento il giudizio di mio marito: “L’odore è quello del DDT”. “Oddio, è vero”. I piatti furono fatti convergere silenziosamente verso il centro del tavolo, come obbedendo a un unico comando. Volute di DDT seguirono il cameriere che portò via le minestre intatte e danzanti.

Ma un vero e proprio insulto fu quello che subimmo in un altro “locale tipico”, quello di Sergiev Posad. Lì il caffè ci venne servito prima che avessimo finito di pranzare (perché ci meravigliavamo, era lì pronto a nostra disposizione, no?) in tazzine sbrecciate e disuguali, quelle sopravvissute forse a qualche precedente massacro ceramico. Con in più la “nota di colore” di tracce di rossetto. L’acqua del rubinetto risuscitava incessantemente vecchie bottiglie di acqua minerale. L’odore delle latrine chiamate elegantemente “toilette” ci accompagnò per tutto il pranzo a cinquanta metri di distanza. 

Sembrava che l’anima di Fedor Pavlovic Karamazov, carica di tutte le nefandezze di quell’immortale personaggio, si fosse trasferita nelle cucine russe in cui veniva preparato il nostro cibo, perdendo la sua dignità e il suo epos e assumendo il carattere di una stolida cattiveria. Il cibo russo, come l’ho provato per dodici giorni, è indifferente al dato morale. Come il padre di Dmitri e Vania.

Certo poi San Pietroburgo ti accoglie con la sua aria europea, altera e familiare insieme, con la Prospettiva Nevskij, una delle strade più belle del mondo, con la Sindrome di Stendhal indotta dal suo celeberrimo Museo. Ti  trovi lì ad accarezzare con gli occhi le tante opere d’arte conosciute attraverso i libri, credevi che il regime sovietico te le avesse sottratte per sempre e invece. Per un momento ti senti a casa. Non si ha il tempo di tirare il fiato, però, che la città ti tende tranelli con la sua distante diversità: quel mare di un grigio implacabile in piena estate; gli avvertimenti da parte delle guide “Attenti agli zingari”… Ci circondarono infatti, in pieno centro, in uno dei rari pomeriggi liberi: una decina di ragazzini e tre adulti un po’ più defilati. Ce la cavammo, con po’ di spavento.

E poi ci sono i palazzi, tutti quegli inquietanti splendori dei palazzi sembrano risuonare dei gemiti delle migliaia di morti che costò l’ossessione innovatrice di un sovrano moderno e visionario. Efferato fino a far uccidere fra i tormenti un figlio che reputava traditore e indegno di sé. Cosa che la nostra sensibilità europea e attuale stenta a contestualizzare, pronti anche come siamo a dimenticare i delitti perpetrati nelle corti rinascimentali italiane. È un fascino culturale, freddo, quello di San Petroburgo. La città ancora oggi conserva qualcosa di artificiale. Anche quando, aprendo un portone lasciato accostato, abbiamo trovato, lasciato lì per noi da Dostoëvskij il cortile della vecchia e lo spirito non placato di Raskolnikov. Sicuro era quello. Aveva ancora tutta la miseria fatiscente della Russia eterna. Ma si è trattato di una constatazione, di un déjà-vu. Per il resto mi sono mancate le atmosfere, gli incontri occasionali, i sorrisi.

Ricordo con quanta commozione avevamo incontrato in Francia, subito dopo la caduta del Muro, un gruppo di tedeschi dell’est. “Finalmente Europa”, disse mio marito, con la commozione nella voce, avendo ricostruito dalle iniziali della targa del pullman la città di provenienza di quei turisti. “Finalmente”, ci rispose una signora non più giovanissima. E in quel momento fu come se ci fossimo abbracciati, come se ci fossimo riconosciuti nel nostro destino di uomini liberi.

Niente di tutto questo, in Russia. “Finalmente Europa”, dicevamo noi prima di partire, felici per loro. “Noi non siamo Europa, siamo Rassìa”, ci rispondevano quasi risentite le guide con cui scambiavamo qualche parola. Altezzosi ed arroganti, pronti a farci pagare con il loro rancore il nostro maggiore benessere.

Il viaggio in Russia non è servito a niente perché non abbiamo incontrato mai la gente. Solo ex funzionari del KGB. Durante il regime sovietico tutte le guide, i camerieri, i gestori degli hotel facevano parte dei servizi segreti. Godevano di una condizione di relativo benessere, e continuavano anche ora ad avere a che fare con i nemici. Per loro non era cambiato niente.

Ascoltavano freddi e annoiati le nostre rimostranze. Tutti a bordo di un treno fermo in stazione da tempo. “Stiamo per partire”. Ma il treno non si muove. Siamo stipati negli scompartimenti e il sudore comincia a gocciolare. Scendo. “Quando si parte?” “Appena possibile”. “Apriamo i finestrini”. “È proibito”. “Da chi?” “Dal regolamento ferroviario”. “Allora scendiamo, c’è gente che sta per sentirsi male”. “È proibito scendere”. “Ma dove ci portate, al gulag?”, ironizzo. Sono furente. Non mi guardano nemmeno. “Risalga sul treno”. “Lei non mi dà ordini, dovrebbe essere al mio servizio, sono io che le do il pane”. Si volta e si allontana fumando una sigaretta con la sua collega, conversano a voce bassa, sorridono. “Forse siete abituati ai carri bestiame, non siamo il vostro bestiame. Faremo i vostri nomi in agenzia”. Non alzano neanche le spalle, mi ignorano. Il treno parte con quaranta minuti di ritardo, nessuno ci dà spiegazioni, nessuno si scusa, l’aria condizionata si rivela adatta al caviale che continuamente ci viene offerto di contrabbando da contadini avventizi, inservienti del treno, operatori turistici di passaggio. Lo tirano fuori dalle gonne, dalle giacche, da sotto i grembiuli, con fare da prestigiatori. È di quello buono, dicono, come a Napoli. Impariamo a dire “niet”, senza cordialità. Arriviamo a Mosca stremati. Ci avevano parlato delle piccole poetiche dacie nella steppa. Abbiamo visto catapecchie, da fare sembrare villaggi turistici le case abusive dell’Italia del sud e della Grecia. Trentotto gradi all’ombra. Sapore metallico in gola. Scendiamo con gli arti congelati.

La metropoli si rivela una sorpresa. Moderna, vibrante di traffico, con negozi eleganti sotto i portici della sconfinata Piazza Rossa. Per niente tetra. Di notte illuminata in maniera magistrale, hanno ingaggiato i migliori esperti. Brutta architettura di regime, lo sappiamo, Cremlino sontuoso ed “orientale”.

 Abbiamo una guida nuova, Dmitri. Fortemente compromesso col regime sovietico, ma le guide sono tutte così. Lui è intelligente, e spesso mio marito lo prende a braccetto, e si diverte a metterlo in imbarazzo, con la sua conoscenza della politica e della storia che Dmitri vorrebbe raccontare a modo suo. Io non ho voglia di parlare, sono intenta a salvare la pelle e veglio sui miei cari. Non scherzo poi tanto. Se a San Pietroburgo avevamo “La Sarmata da corsa”, qui abbiamo uno che potrebbe aver fatto la maratona. Nessuno tiene il suo passo e chi rimane indietro, non so, forse gli sparano. Per essere guide turistiche, oltre all’appartenenza al KGB devo pensare che sia richiesta anche una medaglia olimpica in qualche specialità di atletica leggera.

Dmitri sa che non può negare il suo passato, il regime è caduto da un decennio appena, e lui è oltre i quaranta. Sa che non deve contrastare troppo i turisti e rivelarsi invidioso del loro benessere, cammina sulla lama sempre orgoglioso ma senza spocchia. Qualche volta incrocio il suo sguardo. Mi sembra freddo, privo di sensualità e d’anima. Ci  conduce a rotta di collo nella Metropolitana di Mosca. “Attenti a non perdervi” dice, “non avete possibilità di ritrovare la strada giusta”. È immensa e bellissima la Metropolitana, elegante e sfarzosa, ma è anche un incubo di scale mobili velocissime e ripide che precipitano a terra in rapida successione una dopo l’altra, una discesa all’inferno pericolosa e ansante, uno dei luoghi più ansiogeni che abbia mai attraversato, continuamente alla ricerca di mio marito e dei miei amici, non ci possiamo perdere, non ci possiamo perdere. Sudiamo. Ho fatto non so come qualche foto. Non vedo l’ora di uscire. Non è la mia Russia, penso.

Difficile dimenticare i paesaggi urbani stuprati dagli alveari abitativi della gente “normale”, dove sono stati stipati milioni di esseri umani innocenti costretti ad una degradante convivenza con estranei, con il gabinetto in comune, in fondo al corridoio. L’inferno quotidiano, la condanna senza colpa, nel silenzio connivente dei politici occidentali che gravitavano nell’orbita di Mosca e, facendo de albo nigrum, ci descrivevano la tortura come paradiso.

La miseria delle periferie russe delle grandi città uniforma il pensiero in un’immobilità di morte, ma i piccoli centri impressionano anche di più. Qui, accanto a magnifici monasteri restaurati di fresco con la facciata bianca e le cupole d’oro, ci sono case fatiscenti, fantasmi di muri, vetri rotti, tetti di lamiera o di eternit, nessun albero. Sono le abitazioni in cui vivono tuttora esseri umani che si riversano nelle chiese in un ritrovato ingenuo spirito religioso e baciano uno dopo l’altro le reliquie, lasciando l’impronta delle labbra. Chissà come se la sono cavata con il Covid. La libertà. Cos’è la libertà per questa gente che non ho mai abbracciato?

E comprendo sempre più l’amarezza che tinge di verde le mie parole. La Russia, come l’ho vista io, è un Paese a cui è stata tolta l’anima. Un paese ancora nel 2002 indottrinato e sconfitto che parla degli inauditi successi del comunismo; che attraverso le voci dei piccoli burocrati dice che non vuole essere Europa perché loro sono molto meglio e noi siamo dei poveretti a cui farla pagare in qualche modo. Eravamo i nemici dell’Unione Sovietica, e poco importa che l’Unione Sovietica politicamente non ci fosse più. Sopravviveva ogni giorno in questa incolta arroganza che, a Sergiev Posad, ancora attribuisce ad una vecchia contadina semianalfabeta, con tanto di grembiule, trenta chili in più del dovuto e il fazzoletto in testa per “fare autentico”, la funzione di guida, in uno dei suggestivi monasteri. Pagavamo, venendo dal corrotto occidente, per sentirci leggere in russo con dizione stentata una paginetta di storia del monastero, scritta dalle autorità competenti che dovevano dimostrarci che siamo tutti uguali. Dopo aver letto, la “guida” per fortuna aveva finito il suo intervento.

Certo, l’Unione Sovietica non c’era più, come era caduto il Muro quando con mio marito cercavamo di sistemarci in uno dei campeggi di Berlino est e i gestori sparivano o ci dicevano “non c’è posto” (vietato l’ingresso ai cani e ai meridionali). O, se ci dicevano distrattamente “vedete se riuscite a trovare qualcosa”, allora si avvicinavano gli stanziali a dirci “non accanto a noi” o mettevano oggetti, taniche d’acqua o cianfrusaglie per impedire che piantassimo la nostra tenda.

È grigio il mio racconto, qualche volta grottesco, mai commosso, perché non mi sono mai divertita in Russia, non ho mai riso, non ho mai pianto. È un racconto pervaso dallo stupore per un regime capace di sregolare le menti, alimentare il sospetto, seminare l’incultura. In Russia ha dilaniato le anime, ha asciugato la passione. Tutti nel mondo mostrano con orgoglio le tracce lasciate dall’Impero Romano; a Praga ti raccomandano di non parlare russo perché questa lingua, lì, non è gradita.

L’ultima sera prima della partenza ho parlato con le guide e ho spiegato loro perché non lasciavo mancia. “Non volete essere Europa”, ricordo di avergli detto. “Fate bene, vi separano secoli dall’Europa”. Lasciata la camera alle 12, dovevamo partire nel pomeriggio, con l’odore nauseante della torba in fiamme nelle vicinanze di Mosca che ci perseguitava. Partimmo all’una del mattino dall’aeroporto di Domodedovo. L’aereo atterrò a Palermo invece che a Catania, a causa delle ceneri dell’Etna in eruzione. E percorremmo in pullman le ultime tre ore di calvario. Era già mattino inoltrato quando arrivammo a casa. Ci mettemmo a letto senza svestirci.

In aereo, tormentata dalla tachicardia indotta dal bruciore di stomaco, mi attraversavano la mente lampi e frammenti di parole. Immagini. La  chiesa del Salvatore sul Sangue Versato, citata decine di volte dalle guide, con i suoi colori barbari, la sua fantasia demenziale da Meccano costoso. E San Basilio, sulla Piazza Rossa. Opere indigeste a noi italiani viziati da ben altra architettura.

  E ricordavo ossessivamente un pomeriggio passato in un “locale tipico”, non so perché ci conducevano nei locali tipici invece che al Bolshoi. Una specie di balera in pieno centro dove un’orchestrina suonava motivi anni ’60, con un volume di decibel che avrebbe assordato un jet al decollo. Gli uomini indossavano smoking bianchi presi in affitto o abiti “eleganti”, da sera. Le donne sembravano felici con le loro gonne ampie e le scarpe col “tacchetto”, come fanciulle debuttanti. Ballavano. Una malinconia da Bollywood.

Anna Murabito     alimarbit@yahoo.com

 

 

 

 

 

 

 

RASSÌAultima modifica: 2020-08-23T12:32:04+02:00da helvalida
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2 pensieri su “RASSÌA

  1. Che differenza c’è tra il racconto che ognuno di noi può fare del suo primo amore e Giulietta e Romeo, di Willian Shakespeare? Semplice: mentre noi, pur parlando di qualcosa che a suo tempo ci ha deliziati e straziati non siamo capaci di andare oltre la cronaca, Shakespeare di quel sentimento ha fatto un’opera d’arte immortale.
    Avviene così anche per questa cronaca di viaggio, che ho vissuto anch’io, senza mai essere più lontano di un metro dall’autrice, e tuttavia rileggendo queste righe, e queste considerazioni, mi rendo conto di quanta distanza c’è fra ciò che avrei potuto raccontare io, e ciò che ha raccontato lei. Il miracolo dell’arte è proprio questo, che di una pietra fa una statua di Prassitele, della materia inerte un’emozione anche per chi non saprebbe scolpire nemmeno un nano da giardino.

  2. Una lettera di un caro amico, Carlo Guastamacchia. detto Tamà.

    Che sollievo poter leggere ogni tanto articoli di questa portata!
    Scorrevoli e convincenti per il contenuto, ammirabili per le capacità evocative dei ricordi, stimolanti per quanto poter rispondere con “pezzi di vita” (e convincimenti) propri: nell’insieme un gioiello rasserenante in questi giorni di “lotta continua” !
    Esordisco con un pensiero riconoscente per avermi messo a parte di questa realtà russa, vissuta personalmente: lontana ma perfettamente rievocata….poi vengo ai miei “dunque”, con i quali spero non annoiarvi, anche se svolazzerò qua e là con disinvoltura, meglio onorata da Pindaro con i suoi “voli” che non da un modesto dentista del 2020 !

    LA MIA RUSSIA. E’ tutta concentrata nella sua letteratura. Ho letto TUTTO il leggibile, portato per mano, per lo più, dall’eccellente traduttore Ettore Lo Gatto (da non confondere con Alfonso Gatto). A fronte delle lunghe maratone, non sempre avvincenti, di Tolstoi e Dostoiewsky, fantastici, invece, i raccontini delle Memorie di un cacciatore di Turgenev o l’Ingegno che guaio di Griboiedow, un autentico “pezzo” di bravura leggera e conciliante con i guai del mondo.
    L’ architettura russa. Ma per carità! Oltre a qualche traccia rubacchiata dall’oriente, non rimane che tutto quanto hanno costruito gli italiani…oltre alle isbe e alle dacie. Bella la metropolitana di Mosca? Ci credo! Lì, scavando, c’era solo fango e torba: provassero un pò a scavare dove si trovano, qualche centimetro sotto, ruderi infiniti lasciati lì da migliaia di anni!
    Il resto della Russia. Poco, c’è ben poco: appartiene alla vasta categoria dei Paesi barbari, che hanno dato poco o niente all’insieme dell’Umanità. Per cercare di spiegare questo mio enunciato apodittico vi spiego come io vedo l’insieme dell’Umanità, soprattutto elencando i Paesi ai quali l’Umanità deve infinita riconoscenza.

    Al primo posto c’è la Grecia, storicamente e come sostanza intellettuale: se togliamo dalla storia dell’Uomo tutto il pensiero greco l’orizzonte stesso vacilla e non si sa dove ancorarsi.
    Al secondo posto c’è l’Italia. Comunque si giri la frittata (della storia), l’Italia, da tremila anni, fornisce all’umanità elementi di enorme sostanza: non mi addentro nelle citazioni ma alludendo a Roma, Cristianesimo e Rinascimento non c’è luogo al mondo che possa, anche lontanamente, assomigliarci.
    Al terzo posto, tutti insieme, ci sono i Paesi latini (guarda un pò l’aggettivo): Francia, Spagna e Portogallo… hanno riempito il Pianeta con le loro valenze.

    Quando alludo al “riempito il Pianeta” lo faccio a ragion veduta e con grande convinzione: è inutile citare, come grandi civiltà, quella dell’antico Egitto, o la cinese, o la giapponese, o l’indiana o l’araba: tutte, indistintamente, hanno regalato all’Uomo valenze fondamentali, ma la loro capacità di penetrazione in tutto il globo terraqueo è stata modesta e, quando c’è stata, lo fu perché “lanciata” o “trainata” dai primi tre gestori citati sopra.

    Al quarto posto, con qualche esitazione, per non averlo accorpato con i Paesi del terzo posto, metto tutto il mondo anglosassone. Per carità, oggi è straripante, ma è pur sempre un “derivato” dei pionieri del terzo posto: senza di loro anche gli anglosassoni non sarebbero dove sono oggi.

    La Russia appartiene al mondo barbaro. Lo classifico così utilizzando, con benevolenza, l’aggettivo che i greci usavano per i “non greci”. La Russia ha invaso, purtroppo, il Pianeta, con la sua nefasta ideologia, messa in piedi sbocconcellando pezzi di idealismo Hegheliano e di rigurgiti della rivoluzione francese. La sua esplosione (ideologica) ha coinciso con l’esplodere dei mezzi di comunicazione di massa, che ha permesso anche alle teorie più balzane di essere ripetute, martellando, fino a diventare verità indiscutibili.

    E adesso? La Cina è pronta ad occupare tutto il Pianeta, ma cominci ad usare, senza eccezioni, l’alfabeto latino, e allora se ne potrà riparlare.

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