LA VIA DEL NORD

NORWAY

di Anna Murabito

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Mi chiedo se non sia una mia impressione, ma al Nord il cielo è diverso.

Sarà per via dei frutti di bosco allappanti, delle argille di fiume, di una natura più aspra e povera rispetto al rigoglio del Sud, ma il cielo nordico mi sembra che abbia un sapore amarognolo e un odore di ferro bagnato, di stoppie accatastate e umide. Le ho viste tante volte, viaggiando in automobile.

Il cielo del Nord è come i loro dolci che sanno di pane di segale e qualche spezia, semi di lino e di papavero, un chiodo di garofano sperduto. E come le loro minestre: l’odore fa pensare a dadi da brodo usciti dall’industria farmaceutica, ma si sa che non sono letali. I “nordici” non  conoscono il basilico, ecco perché il loro cielo è amarognolo.

È solo uno scherzo. E poi il cielo del Nord io l’ho visto d’estate, da turista. In inverno magari, come da noi, profumerà di fumo e di cantina, di miele e di muschio. Il fatto è che sono innamorata del Nord più che del Sud, anche dove il Nord è difficile, come in Norvegia. Un po’ meno amo la Scozia, troppo livida e uniforme per me che cerco i colori, con i suoi laghi a specchio tutti uguali. In Norvegia almeno dipingono le case. E sui tetti cresce l’erba.

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In Norvegia il cielo ha sapore d’acqua e di squame argentate di pesci. Sarà così? Così pensavo allora.

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Volevo andare in Norvegia l’estate in cui morì mia madre. Marzio come al solito mi aveva portato in Francia, in campagna, dove le mie angosce si placano. Ma quell’anno riconoscere i luoghi a me cari era stato come percorrere una Via Crucis. Ogni sosta, ogni luce intravista, i girasoli e il colore dell’erba mi facevano piangere. Sommessamente. Ma non alzare la voce non addolciva il mio sentimento.

Tornati a casa, volevo viaggiare ancora: fermarsi era un pericolo. Così guardavo riviste pubblicitarie che decantavano i fiordi norvegesi. Addirittura li volevo percorrere tutti con una convenzione speciale che imbarcava turisti a bordo di un traghetto per la distribuzione della posta. Ero disposta a lasciare Marzio a casa e a viaggiare da sola. Ma erano i primi giorni di settembre (da noi piena estate) e già il viaggio in Norvegia era sconsigliato. E forse il giro dei fiordi abolito. “Ci andremo l’anno prossimo”, mi disse Marzio poco convinto “o ci andrai la prossima primavera, io non sono molto attirato da questi luoghi”. Hic sunt leones, tanto per intenderci. Per lui il mondo si ferma al Vallo di Adriano.

Ci andammo alcuni anni dopo, in un viaggio che abbracciava anche la Danimarca e la Svezia, e alcune città della Lega anseatica, ricche di fascino e di storia. Certo, lui non mi perdona ancora di “averlo trascinato” in quei luoghi da fine del mondo, dove “mai vorrebbe vivere”. Il Mediterraneo è il suo habitat, non solo per la luce (non abiterebbe neanche a San Pietroburgo) ma come centro di una civiltà insostituibile: quella classica, greca e latina.

In pieno luglio, sul traghetto, nonostante la giacca a vento si rischiava la parestesia al labbro superiore e, avendo visto un fiordo, si erano visti tutti. La natura lì è sempre uguale: grigia, bianca, lucida, nuda. Con la sensazione di infilarti nella parte terminale di un cono, verso la punta, sempre più stretta. Attraversare un fiordo non svuota la mente, la inquieta, perché si tende a divagare e i pensieri non sempre sono buoni. E non vedere nessuno per ore induce a desiderare la città e le sue frenesie. Poi si arriva a Oslo e di frenesie neanche l’ombra. La cosa più eccitante che ricordo di quella città è un giardino costellato di statue di un artista locale, molto importante, dicono, di cui colpevolmente non ricordo il nome. E non lo dico a mio marito per non fornirgli l’assist di una facile battuta: “Prova a dimenticare il nome di Fidia”.

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Ma la Norvegia è anche il Mercato del Pesce di Bergen, tutto rosso con la carne nera di balena, il salmone imperatore e l’aringa damigella. E qualche gioviale norvegese al banco, pronto a scambiare quattro chiacchiere in non so che lingua, come se tutto il mondo fosse paese. Bergen è bella anche al tramonto con il suo andamento a ferro di cavallo e colori languidi sulle case dei ricchi mercanti della Lega anseatica.

Certo, riposare per i poveri turisti stanchi non era previsto. Molto vicino al nostro albergo, di buon livello, si festeggiava non so che ricorrenza con musica rock a volume incivile per tutto il pomeriggio e buona parte della notte. In camera non si sentiva cosa diceva l’altro, nonostante i serramenti fossero rigorosamente chiusi e le ricche e polverose cortine di velluto ben accostate. Arrivati a casa scrivemmo al sindaco della città di Oslo per denunciare qualcosa che di solito si denuncia a Portici, con il sentimento, un po’ triste questa volta, che tutto il mondo “è” paese. I miti crescono soprattutto sull’immaginazione.

Per esempio la bellezza delle nordiche io non l’ho vista. E non è invidia, la mia, perché a Praga mi giravo continuamente incantata a guardare le donne, giovani e mature, come se fossi divenuta improvvisamente omosessuale. Di una grazia incomparabile: belle nel portamento, nella malinconia dell’espressione, nell’intensità dello sguardo. Occhi grigi, azzurri, infiniti. In Norvegia, ed anche in Svezia e in Danimarca, ho visto moltissime ragazze,  bionde, sì, e con la pelle chiara, ma grasse da fare concorrenza alle autiste degli autobus di New York. Si dice che i neri americani si nutrono peggio dei ricchi bianchi e perciò ingrassano a dismisura. Ma le giovani donne norvegesi? Così burrose da non distinguerle dalla materia prima da spalmare sulle tartine?  Forse Bergman non aveva tutti i torti a parlarci dei conflitti delle anime nordiche. E anche i famosi drammaturghi dei primi anni del ‘900.

A Oslo, ci faceva da guida uno strano personaggio, una sorta di maestrina di origine italiana, residente nella capitale da una trentina di anni. Sembrava rimpiangere la bacchetta dell’Ottocento con cui ci avrebbe volentieri colpiti sul palmo aperto. Una donna di mezza età, “mai stata moglie, senza mai figli, senza più voglie”, avrebbe detto Fabrizio De Andrè, almeno relativamente all’aspetto. Ci rimproverava continuamente, “qui non si usa parlottare, qui non si usa interrompere, e nessuno si distrae, e nessuno fiata quando qualcuno spiega …”. Ci “spiegava” una Banca, l’ingresso del Municipio ed altri emozionanti monumenti della città, forse una scuola. Morivamo di noia e di imbarazzo. Qualcuno del gruppo cominciava ostentatamente a ridacchiare. Quando un collega le diede il cambio per non so quale inventata funzione specialistica e ci apprestammo a scendere dal pullman,  le passai accanto e mi accorsi che borbottava qualcosa. Pensai di non aver capito, la prima volta, ma lei ripeté, abbastanza chiaramente perché la sentissi, una volgarità popolare in dialetto romanesco “M… tua. Te possino cecatte” all’indirizzo del suo collega norvegese purosangue. Chissà quanto le era costato negli anni un allineamento su canoni impropri, ritenendo più adatte al suo sentire queste ultime imprecazioni.

Sarei andata in Norvegia solo per la casa di Grieg. Una casa elegante e nobile dai mobili raffinati, in un posto superbo vicino a un lago, le belle stanze aperte su un paesaggio di verde che corre all’infinito. Più suggestiva per me del pur suggestivo Wasa di Stoccolma. Pioveva quel giorno. Una pioggia chiara e sottile e il cielo profumava di incenso. In quel luogo la commozione dell’intero Romanticismo si muoveva insieme alle note della “Suite dai tempi di Holberg”, con un retrogusto più antico e quasi etnico quale emerge nei ritmi veloci dell’ultimo movimento della stessa Suite.

Grieg

Ma la casa di Grieg ci parla del suo stato sociale, della sua famiglia, del suo mondo di relazione. Perché della sua anima ci parla il casotto, isolato, a parecchi metri da casa, un po’ più in basso, verso il lago, e tanto piccolo da contenere soltanto un uomo, il suo pianoforte e la sua solitudine. Non è difficile immaginarlo mentre componeva, e alzava gli occhi per vedere tra gli alberi il lago dolente e rassegnato.

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Una vera emozione, quel casotto, vissuta tuttavia con lo scrupolo di essere entrati nell’intimo dell’artista, nel suo rifugio, quello in cui sperava di non essere scoperto; in quel rimpianto del tempo che passa e della morte che incombe, percepiti spesso nei suoi capolavori.

Marzio quasi si sentiva partecipe di uno stupro che avrebbe preferito evitare. Forse avrebbe voluto dire, all’ombra di Edvard, “Mi scusi, non sapevo che lei fosse qui”. E scappare via.

Mi è piaciuto anche il rumore irrimediabile delle cascate, con l’acqua che sbatte sulle rocce cadendo; un “paesino” di tre case e due barche; e le valli che si aprivano inondate da un sole insolitamente tiepido nel primo pomeriggio. Appena più tardi, le nuvole e la bruma a mezz’altezza.

Senza ipocrisie vegetariane ho mangiare l’alce, carne bene insaporita con le bacche di ginepro. Non ricordo cosa abbiamo bevuto a tavola. Forse un po’ di vino. Certo la Francia è un’altra cosa.

Però, anche le cascate dopo un poco stancano. Ce n’è sempre una più alta, più grande, più magnifica. E all’ultimo appuntamento non ti alzi più dal pullman. “Aspetto qui.” “Allora, posso lasciare la borsa?” “Certo”. Nessun barlume di intellettualità nel nostro gruppo anonimo. Mio marito ha passato molto tempo a consolare la piccola e sprovveduta guida francese che aveva pene d’amore e, almeno con lui, si sentiva tornata finalmente a casa. Consolare con le parole, intendo. Altrimenti il bilancio di quella lunga gita in Scandinavia sarebbe stato per me anche più fallimentare.

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Sono partita senza rimpianti, anche perché i rimpianti sono legati prevalentemente ai sentimenti; i luoghi li ritrovi in cartolina, nelle foto. Mi è passato il desiderio di imbarcarmi sul Postale per percorrere tutti i fiordi. Che me ne farei? Io voglio pronunciare parole, voglio incontrare sguardi. Questo mi è successo in Marocco. Ho incrociato sguardi di uomini, prevalentemente anziani e colti, come quello del gestore di un museo: sembrava portarsi negli occhi mille secoli. Pare che in Norvegia nessuno parli con gli altri: tutti lavorano e poi tornano a casa. Il sabato sera escono e si ubriacano. Da soli.

Chissà quale sarà d’inverno il sapore del cielo norvegese. Forse sarà sapore di birra. Di neve. Di niente.

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Mi chiedo da cosa tragga origine il mio amore per il Nord. Che poi, a parte la costa settentrionale della Francia, conosco abbastanza poco. Tralasciando l’ipotesi romantica delle brughiere ventose, che pure esercitano qualche attrazione, credo si tratti prevalentemente di insofferenza per il caldo e per i toni troppo aperti e sguaiati dell’estate. L’estate con le sue continue avances, come un uomo incontinente nei gesti e nelle parole la prima sera che esci con lui. Nessuno spirito di avventura, dunque, ma una banale ricerca di benessere fisico, una mal sopportazione delle ascelle sudate. Chissà. Solo vedere in luglio la gente per strada con un soprabito leggero e l’ombrello mi fa respirare, mi fa pensare al profumo dell’erba. La pelle è liscia e asciutta e non hai bisogno di correre a casa a fare una doccia. Il raggio di sole che si accende nell’aria venendo dal lontano cielo grigiazzurro, è una benedizione, non un supplizio da subire pur essendo incolpevoli.

Non si può dire di conoscere un posto se non quando se ne conosce l’essenza intima. Nonostante tutto, sono più allenata, imprecando per il caldo,  a capire Medea, che a percepire l’anima norvegese: non so cosa c’è sotto le incerate e le galosce, sotto gli sguardi assenti del sabato sera. Potrei dire che il cielo norvegese ha sapore di solitudine, ma sarebbe una banalità, arbitraria tra l’altro, perché la solitudine può invadere anche un cielo “trapunto di stelle” delle canzonette. Come quello che c’è al Sud, d’estate e d’inverno.    

Anna Murabito      annamurabito2@gmail.com

LA VIA DEL NORDultima modifica: 2021-06-04T14:06:55+02:00da helvalida
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6 pensieri su “LA VIA DEL NORD

  1. Con Alida è sempre un viaggio fantastico, il suo errare nei luoghi è puro godimento non sfiora superficialmente un paese, il luogo le persone ma entra, con una lievità tutta sua, nel loro intimo con accordi di colori e sensazioni che ti avvolgono e ti fanno partecipe.

    • Chissà che non viaggeremo insieme, Ivana. Abbiamo un caffè in sospeso, tu “espresso”, io “americano”, non sappiamo ancora dove.

  2. Come sempre i testi , della mia amica geniale ed eclettica, informano,arricchiscono e coinvolgono per la notevole capacità descrittiva e analitica .Il testo completo e curatissimo fa conoscere le caratteristiche ambientali e l’anima dei popoli nordici.

    • Grazie ad Agata. Saremmo dovute partire insieme, ma le vicende dolorose di quel periodo non lo hanno consentito. Abbiamo compensato in seguito, comunque, con molti viaggi divertenti.

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