LANTERNE PER LUCCIOLE

di Anna Murabito

Maxfield Parrish

Sulla mia terrazza, in collina, ho un posto in prima fila. Da lì vedo tutto quello che c’è da vedere. Qualcuno si chiederà se io non sia agli arresti domiciliari o impossibilitata a muovermi, ma non è così. Ho sempre amato la città. Proprio quella alienante, indifferente, con i rumori di ferraglia e di clacson. Con l’estraneità stampata sulle facce incolori delle persone. Con la frenesia dei passi e il pulsare concitato delle insegne. Ma anche con gli spazi vuoti, rarefatti, metafisici, di De Chirico.

Se alcuni anni fa mi avessero chiesto dove mi sarebbe piaciuto abitare, avrei scelto New York: fiumi di gente ai semafori, bicchieroni di caffè fumante e il ricordo delle letture d’evasione giovanili, con l’investigatore privato che suda nel suo ufficio angusto, quando i condizionatori d’aria erano merce rara e i polizieschi non si avvalevano di effetti speciali. Ma da un po’ di tempo, complici la crisi economica e la pandemia, le città non mi piacciono più: tanto amo le metropoli smaglianti, quanto mi rattristano quelle impoverite, decadute e degradate. Per questo abito in collina. La città si stende ai miei piedi ed io la immagino da lontano.

Quando non posso farne a meno, “scendo” dai miei trecento metri di altitudine ma poi, al ritorno, mi devo lavare. Come i personaggi dei film americani che, persino inseguiti da un efferato assassino, appena arrivati in un motel corrono a fare una doccia. Una irresistibile coazione: torno a casa, e vado a “lavarmi” in terrazza. Guardo il cielo per prima cosa. E se c’è nebbia guardo la nebbia.

La terrazza è igienizzante e dà libero corso alle mie visioni. Per esempio, gli stormi mi fanno venire in mente barche a vela guidate a testa in giù da marinai ubriachi. E forse scriverei queste parole in una poesia. Magari barchette a vela, propongo a mio marito che scuote la testa. Lui ha un forte senso del reale e pensa che gli stormi (di storni) siano raggruppamenti di uccellini che appartengono alla famiglia dei passeracei e pesano settantacinque grammi a testa. Non mi ha mai perdonato di avere attribuito per iscritto a Pegaso un percorso non in linea con le coordinate astronomiche, ed è pronto a cogliere tutte le occasioni: “Tu sei quella che…”. Sono aquiloni neri, insisto. Non va bene. Aquiloni di bambini, piccole anime che non vedono più la luce, gli aquiloni la vedono per loro. Oppure sono fazzoletti di prefiche che hanno dismesso il lutto e ora quegli straccetti volano via verso paesi dove non si muore. Insomma il cielo disegnato di nero mi rattrista. Ma mi mette K.O. la sintesi folgorante di un poeta vero: “A volte vedo solo bare a vela”. La poesia sfuma.

Ma subito dopo comincia un’altra visione. Il cielo mi soccorre. E non mi può sfuggire, perché lo imprigiono nelle grinfie del mio cellulare in centinaia di pose: vestito di stracci e in abito da sera. Con tutti i luccicori che il vento di primavera gli elargisce e con le note del Requiem di Mozart in certe giornate di Novembre. Qualche volta mi tradisce: l’immagine non corrisponde alla visione. Mi accosto con l’intento di impadronirmi del corredo da letto di Sheherazade e viene fuori uno sfumato anonimo e grigiolino con qualche pennellata di rosa ingenuo che non mi fa pensare all’amore ma ad una ninnananna, alla carta da parati di una cameretta per bambina. Mi sono emozionata nel freddo per fotografare le luci che sembrano tremare ed è venuta fuori quasi sempre una sorta di fanghiglia pastosa, insignificante. Ma spesso il cielo è salvifico.

Durante il periodo peggiore della pandemia, dalla terrazza non si vedeva nessuna automobile, nessun passante. Anche il tempo tratteneva il fiato. Quando poi è stato consentito di uscire, soprattutto la domenica ha cominciato a formarsi lungo il marciapiede una fila di sagome nere, distanziate, in attesa. Cosa aspettano? mi ha chiesto Marzio. Aspettavano i polli. Uno squallido girarrosto, accanto ad un abbeveratoio con la dignità della pietra antica, cuoce polli allo spiedo da mane a sera, in tutte le stagioni, e aveva ripreso la sua attività. Mi hanno detto che quando è morto il nonno, il patriarca pollivendolo, il feretro è stato esposto all’interno del negozio e la povera salma ha affrontato “l’ultimo viaggio” tutta profumata di grasso e di volgari istinti vitali.

Ma tendo a divagare, anche per dire che la mia terrazza alimenta non solo visioni poetiche. Per esempio, l’altro giorno ho visto per terra una formica che portava ciecamente sul suo dorso una grossa mollica. E c’è un po’ di inutile spocchia in questo “ciecamente”. Io non posso fare a meno di avere le visioni, e noi tutti non possiamo fare a meno di essere quello che siamo. “Non so dove i gabbiani abbiano il nido”, dice un altro poeta. Se io sapessi dove quella formica ha il nido, andrei a trovarla e lo distruggerei, affermando la mia natura di mammifero superiore che si avvale della sua forza per sterminare tutte le formiche che incontra. In questi atti c’è ben poca poesia. E tuttavia la singola formica beneficia di tutta la mia tenerezza.

L’Etna l’ho visto per molti anni, finché una vicina per dispetto ha fatto crescere a dismisura un albero che me ne impedisce parzialmente la vista, così anche la Montagna mi tocca immaginarla, almeno per metà, oppure spostarmi di alcuni metri, modificando il rituale. Adesso poi, la cenere nera distrugge in poche ore la perfezione accecante della neve candida. Ma il mare no, il mare è quello che è. Ne inventa sempre una nuova. L’altro giorno era diventato carta stagnola, la più semplice, bianca argentata, netto e splendente nel marrone di questo autunno alluvionato.

Dalla mia terrazza vedo anche le lucciole. Quelle che non ho mai visto: ho sempre abitato in città, fin da bambina, ed allora erano proibite, come i sogni. Sto dando adito a qualche equivoco, non intendevo le passeggiatrici, ma le lucciole vere, e non oso descriverle per non incorrere in qualche imprecisione scientifica. Ora le posso collocare dove voglio. Sugli alberi come raffinati ornamenti, lungo la ringhiera come festoni misteriosi. Persino in cielo, per una Via Lattea profumata di estate, senza il freddo e la lontananza di universi inospitali e irraggiungibili. Mi dispiace non averle mai viste, anche perché il verso “e la lucciola errava appo le siepi” mi ha sempre fatta piangere. Tutta la nostalgia del mondo si concentra in quelle parole e vince anche su quel brutto latinismo. E le cicale, perché non dovrebbero far sentire il loro verso in inverno? La loro canzone martoriante forse potrebbe intaccare il gelo, segare il cristallo invece di ossessionare le menti degli uomini e fare aumentare il caldo percepito, come ora si dice. Sulla mia terrazza si può.

E si può anche pensare a una vita dietro le case lontane, non melensa come nelle pubblicità, con bambini che mangiano e sorridono ebeti, con madri che godono lavando i pavimenti, con uomini tatuati e “tartarugati”. Mi piace immaginare i dialoghi di un dramma, la solitudine di uno sguardo sconfitto, una mano che ne cerca un’altra nella notte. E un sesso elegante e glorioso senza le sguaiataggini e i voyerismi di chi “immortala” perfino la prima volta per “condividerla” con gli “amici” di Fb.

Forse la mia terrazza mi piace perché è magica e generosa e, anche se prendo lanterne per lucciole, mi perdona. Che importa dove va Pegaso? Io ho ancora fogli bianchi da riempire.

Anna Murabito    annamurabito2@gmail.com

LANTERNE PER LUCCIOLEultima modifica: 2021-11-26T10:52:08+01:00da helvalida
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3 pensieri su “LANTERNE PER LUCCIOLE

  1. Alida, hai ragione. La fantasia e’ piu’ importante della realta’. Della quale bisogna periodicamente “lavarsi”, per rientrare nel mondo della magia, il quale e’ quello che conta.

    • Ringrazio il mio amico Nicola De Veredicis per avermi fornito la foto di un quadro di Maxfiel Parrish, artista statunitense, intitolato “I portatori di lanterne”.

  2. Se non temessi di tradire l’intento della Murabito, leggero come un lampioncino serale, direi che lo scritto è una sorta di Sinfonia Fantastica. Raffinate divagazioni di una bellezza trasparente, sempre nuova, ricca, invitante. Fantasia a briglia sciolta come il sorprendente corredo da letto di Sheherasade il cui colore non è fulgido ma “sfumato anonimo e grigiolino con qualche pennellata di rosa ingenuo che non mi fa pensare all’amore ma ad una ninnananna, alla carta da parati di una cameretta per bambina”. Che dire? Croce distingueva l’immaginazione dalla fantasia: qui siamo nel regno della seconda. Come le lucciole (quelle vere), che in città “erano proibite, come i sogni”. Si scrive di seguito, non si va a capo, ma è poesia. Tutta questa descrizione di vita è un’altra foglia che scende dall’albero degli zecchini della Murabito.

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