PROFUMI

di Anna Murabito

L’altra sera, una pioggia violenta ed ansiogena mi ha tenuta sveglia a lungo. Quando finalmente si è placata, ho aperto un’anta del balcone: a parte il giardino parzialmente allagato, tutto sembrava in ordine. Ho cercato il profumo delle notte, ora quieta e quasi irridente, e ho pensato a Marcel Proust. Devo confessare di essermi vergognata: anch’io cedevo allo stereotipo della “madeleine” che, nell’infinita ricchezza degli scenari della Ricerca, sembra avere suggestionato l’immaginario collettivo. Con la superficialità culturale di chi riduce Machiavelli ad uno slogan che non è nemmeno suo: “Il fine giustifica i mezzi”. Mi è sembrato di aver tradito Proust. E mi sono sentita a disagio.

In realtà Marcel Proust è uno scrittore diverso da tutti gli altri e averlo conosciuto costituisce un’esperienza che cambia la percezione della vita. Ma non si tratta solo di un’esperienza intellettuale. Con Proust si entra in una tormentosa sintonia di malessere. Ci si ribella a volte alle sue sottigliezze che sembrano esasperanti ma si finisce col respirare la sua angoscia e soffrire quasi della sua fame d’aria. Si crea con lui una sorta di morboso connubio. Un’ “incresciosa intimità”, avrebbe detto un poeta. Soprattutto la sua dolorosa anatomia di ogni secondo della vita ci fa entrare nel meccanismo di un’analisi che dà le vertigini, “at the end of thought”, per parafrasare Leonard Cohen, ai limiti del pensiero, anzi dove non si credeva che il pensiero potesse arrivare. Quindi Proust non sopporta le semplificazioni o la superficialità.

Dopo aver letto la sua immensa opera ci si sente stremati, con la consapevolezza di un’impresa compiuta che non si può più ripetere. Non conosco nessuno che abbia letto due volte la Ricerca. Alla fine Marcel non è più il nostro amico intimo, si tende a rimuoverlo dalla coscienza, come una crudeltà che si vuole dimenticare. E la memoria sceglie ciò che non fa soffrire, i ricordi che cullano e non graffiano. Ecco il perché della fortuna dell’episodio della “madeleine”. Però, estrapolando dalla Ricerca solo gli episodi inoffensivi, si compie un’operazione non solo riduttiva ma anche un po’ vigliacca – vestiti di tutto punto mentre l’autore continua ad essere nudo – tra l’altro con la lieve spocchia di una abusata confidenza. Per questo ho provato disagio.

In realtà Proust non c’entra. Pensare a lui ha deviato i miei pensieri e mi ha fatto sbagliare in più direzioni. Il tipico profumo di terra bagnata si sprigiona quando il terreno è asciutto e riceve la prima pioggia, ma quest’anno piove da tre mesi e si sono succeduti numerosi nubifragi. Se un odore c’era, dopo l’ennesimo diluvio, era di calamità. Inoltre non è che ogni profumo sia legato ad una tappa significativa dell’esistenza o ad un sentimento coinvolgente. Ci sono profumi, come quello del gelsomino rincospermum o del ligustro, che io trovo ripetitivi, invadenti e quasi nauseanti, e non vale certo la pena di parlare di un fastidio. Infine siamo in pieno inverno, vicini a Natale, ed io pensavo agli odori dell’estate. Quindi la mente ha istituito i suoi liberi e misteriosi accostamenti.

A proposito dell’approssimarsi del 25 dicembre, ieri ho visto un video sulla mia città, trasformata in un suq arabo per i festeggiamenti natalizi: decorazioni volgari, paccottiglia in vendita, gruppi di artisti di strada con strumenti amplificati a suonare “musica” da far rimpiangere non dico Il Messiah di Händel, ma l’ingenuo Tu scendi dalle stelle. Orribili bancarelle traboccanti di frutta secca sfusa che tutti toccano anche se c’è scritto “non toccare”: peggio dei pipistrelli per la diffusione di virus e batteri di qualunque genere. E la gente a fiotti, con le mascherine al collo. Non mi interessa questa società, questa insiemità, questo strapaese: sono un’anarchica individualista, così si diceva una volta. I profumi di cioccolata e di cannella dovrebbero avere la forza di un uragano per attraversare questo fiume di inerte e invadente omologazione.

Devo dire poi che in generale gli odori invernali non mi sembrano molto rilevanti, complice il freddo che li attutisce. Sono uguali a tutte le latitudini: prevalentemente odore di fumo e di funghi in campagna; di minestre in città. E le zuppe sono zuppe ovunque. Inoltre gli odori della natura nei Paesi del Nord sono più fragili e pudichi: si nascondono, mentre quelli del Sud si offrono. E ci sono, al Nord come al Sud, profumi accattivanti, quello dell’erba tagliata, della brughiera, dell’Oceano. O quello delle tuje e delle magnolie. Ma sono state per me acquisizioni temporanee, adulte, culturali. Le ho vissute con emozione, ma non le ritrovo al fondo di me.

Gli odori che segnano la mia memoria sono prevalentemente estivi e accompagnano la mia scoperta della vita. Nel caldo Sud. Appartengono ai vicoli degradati abitati da gente inguardabile: lui con la canottiera bianca, lei con il vestito a piccoli fiori delle casalinghe, la cintura del grembiule a sovrastare la vita sottolineata sui fianchi straripanti. Persone infrequentabili, odori divini. Si poteva addirittura succhiare l’umore dolce di ogni piccolo fiore di gelsomino, noi bambini lo facevamo; l’oleandro invece – amaro e velenoso, profumato di salmastro – era intoccabile, pena la vita. Il geranio e la menta, immancabili nei balconi e nei cortili, facevano parte dell’intimità domestica, al pari del gatto. Il basilico riccio si accarezzava la sera, come un re che ricevesse il suo omaggio. Quasi un rito prima di cena. Un singolare aperitivo. L’odore della zagara mi dava un confuso sconvolgimento che confinava con la malinconia. In questo intreccio di povera ebbrezza si annidano le evasioni della mia infanzia.

Sto enumerando i profumi che ho conosciuto da bambina, quelli che ancora oggi fanno accelerare il mio respiro, ma non mi piace parlare di quegli anni. Quelle stradine mi erano estranee ed io le percorrevo con passi da aliena: intrise di “sorrisi e canzoni”, secondo il mito dolciastro, nascondevano drammi umani, miseria, grossolanità, sopraffazione. La mia scoperta della vita era dolorosa.

Eppure ho appreso molte cose respirando l’aria di quei vicoli. Per esempio, ho imparato a leggere e scrivere con mia madre, esperienza che la riempì d’orgoglio. Ho saputo che, se si vuole ottenere una gonna svasata, si deve disporre la stoffa di traverso, cioè di sbieco, a 45 gradi, così fa le campane, si chiamava anche “scampanata”. I peperoni arrostiti si dovevano mettere ancora caldi nei sacchetti di carta del pane così il vapore sviluppato avrebbe favorito l’operazione di pulitura delle pellicine esterne bruciacchiate e sgradevoli al gusto. Con l’uncinetto si poteva realizzare una coperta partendo da molti residui di lana variamente colorata, altrimenti inutilizzabili. E poi, sempre a proposito di odori, non era vero che Anna Magnani fosse sporca e spettinata e avesse le ascelle che puzzavano di sudore, ma era una brava attrice, una delle migliori che il cinema italiano avesse prodotto. Così dicevano tutti, almeno, e ai bambini non restava che imparare. Certo, quando ho visto Rita Hayworth, mi è sembrata più bella di Anna Magnani e profumava anche attraverso il film.

Gelsomini rampicanti crescevano lungo le strade urbane a ridosso di muri ed inferriate. Ondate di profumo dolce e sensuale, portate dal vento fresco della sera, raggiungevano le “arene”, cioè i cinema all’aperto. Forse inseguendo quel profumo mi sono innamorata per la prima volta: lui era un attore biondo e bello, si chiamava Jacques Sernas, e recitava in ingenui “peplum”. Con la scoperta del cinema l’evasione vera, il viaggio della mente, si sovrapponeva a quella fiabesca dei profumi. D’inverno andavo al cinema con mio zio, che si compiaceva di portarmi in locali “buoni”, nel senso di eleganti e ben frequentati, come l’Odeon, che sopravvive ancora come uno dei cinema storici della mia città. Mio zio non sceglieva il film, e qualche volta ci è capitato di rivederne qualcuno. Film quasi sempre di guerra, indistinguibili. “Abbassa il periscopio, alza il periscopio”, l’epos e i giapponesi cattivi. Curd Jurgens era troppo vecchio e grasso per me, non rientrava nei miei sogni semierotici di ragazzina. Quanto ai profumi, d’inverno i gelsomini dormivano e l’unico profumo proveniva da una famosa rosticceria che preparava un’eccellente pasta al forno. Così dicevano tutti e la gente faceva la fila all’uscita del cinema per comprarne delle porzioni da portare a casa per lo spuntino notturno. A me il cibo non interessava. Quella pasta al forno non l’ho mai assaggiata. E il ricordo non mi provoca nessun batticuore.

Poi, crescendo, sentii parlare di un’altra guerra molto più lontana nel tempo, scoppiata per una donna bellissima; di eroi e semidei; di fanciulle schiave e di regine altere. La vita, il valore, il destino uscirono dagli schemi hollywoodiani e anche da quelli provinciali di sorte e malasorte. Le storie degli uomini si fecero più sorprendenti: non sempre arrivano i nostri, non sempre c’è il lieto fine. La visione mediocremente manichea della vita si arricchì di variabili e il concetto di ineluttabilità segnò la prima commozione astratta: “Tre volte cercai di abbracciarla, tre volte le mie braccia strinsero il fumo”. La morte non fu più noiosa cerimonia funebre ma rimpianto della luce.

Mi dispiace terribilmente che non ci siano profumi a sottolineare quella che fu, credo, la più grande scoperta intellettuale della mia vita. Parlare delle classi male aerate e male illuminate, senza riscaldamento, dei banchi scrostati e scomodi e dell’odore spento del gesso mi sembra arbitrario, retorico, artificioso. Nessuno allora nelle scuole pretendeva condizioni ottimali e, se nelle classi si formava cattivo odore, si apriva un po’ la finestra, quando c’era, ed era fatta. Poter frequentare la scuola ci sembrava un grande privilegio. Eppure la scoperta di Omero e della civiltà greca avrebbe meritato una celebrazione anche olfattiva. “Omero è per sempre”, mi verrebbe voglia di dire parafrasando una famosa pubblicità; è uno sguardo eterno nell’anima dell’uomo; è la poesia che irrompe nella vita. In mancanza di profumi, un’immagine mi torna in mente come emblematica della civiltà omerica  ed è quella dei campi di asfodeli. Gloriosi nella luce di marzo.

A ripensarci, forse non è vero che i profumi invernali non sono significativi. Ricordo quelli delle feste, meno sensuali di quelli estivi, più goderecci. Mia madre cucinava per giorni, e l’odore greve del ragù impregnava la casa e i vestiti. A questo odore ero indifferente come a quello della pasta al forno della rosticceria. Mi piacevano invece i profumi legati al sogno. Mi piaceva vedere “nascere” il torrone: mandorle pelate, zucchero, scorzette di mandarino. Sul fuoco lo zucchero si bruciava e diventava caramello. Si versava il contento ustionante del pentolone su una lastra di marmo cosparsa di olio d’oliva e si spianava con una spatola. Poi si tagliava a striscioline e si lasciava raffreddare. Infine si avvolgeva in carta stagnola argentata. Una magia.

Ma l’odore più bello degli inverni della mia infanzia è un odore che non ci si aspetterebbe al Sud: quello del muschio. Lo devo tirar fuori a forza dalla mia mente, perché è un ricordo intimo, legato non al sogno, ma ad un’altra scoperta: quella della poesia della natura. Mio zio a Natale portava il muschio dalla campagna: zolle vive, vellutate, fragili, con le felci che trovavano lì il loro habitat naturale. Lo portava in sacchi e già il profumo si sentiva dalla strada. La gioia era avvelenata un poco dai lamenti di mia zia: “Si è levato la vita a raccogliere tutto questo muschio”! In Sicilia, soprattutto in ambienti in cui il pane non era gratis, tutto era avvolto da un’aria se non di tragedia, almeno di pena e di sforzo.

Le ho prese spesso, quelle zolle odorose, le mani mi tremavano, stando attenta a non spezzarle; sentivo la vita nelle mie mani. E il contatto con un mite mistero, con il bosco senza pericoli, con le favole inventate da mia madre. Costruivo paesaggi per il presepe e non capivo perché non bastasse il muschio a celebrare Nostro Signore. Eventualmente, si potevano aggiungere dei mandarini con le foglie, che c’entravano le statuine?

Quello del muschio è un odore che fa parte di me nel profondo pur avendo abitato sempre in città e prevalentemente al sud. L’ho ritrovato in Bretagna, con lo stesso sentimento di commozione del passato. Forse Proust non c’entra, ma Freud ha veramente ragione quando dice che i primi anni di vita sono i più importanti. Oggi copio immagini di fiori a migliaia e forse cerco inconsciamente i giacinti e i narcisi che mio padre piantava nel cortiletto della mia infanzia. Ricordo anche la violacciocca: nelle sere di maggio a lungo si intravedeva la sua ombra di velluto, satura di passione, confondersi lentamente col buio. E poi era notte.

Anna Murabito     annamurabito2@gmail.com

 

 

PROFUMIultima modifica: 2021-12-25T12:44:42+01:00da helvalida
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5 pensieri su “PROFUMI

  1. Bello! I bambini vedono e colgono di più. Il resto, al di là dei profumi, dei colori, delle forme – soprattutto nel Meridione – è teatro, sono voci “didascaliche” (“leggermente” isteriche) che accompagnano gesti ed eventi che vengono esagerati, spinti all’estremo. Fino allo stremo.

  2. Alida, il tuo bellissimo scritto mi ha riportato ai profumi della mia fanciullezza, nel periodo di Natale. (Chissa’ perche’, il Natale ti riporta al passato). E incredibilmente sono raffiorati, profumi dimenticati. L’odore della soffitta, umida e fredda, quando da bambini salivamo a prendere le statuette per il Presepe. Le bucce di mandarino gettate nel braciere acceso. L’odore del vincotto, che mescolavamo con la neve nel bicchiere.
    Grazie Alida. Ogni tanto c’e’ bisogno di tornare bambini.

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