MUSICA

Lettera a un amico

Non so da cosa nasca la sensibilità musicale. Si è portati ad immaginare pianoforti, parquet su cui scivolano silenziose domestiche, il signorino o la signorina che apprendono.

Il mio mondo d’origine era molto povero, economicamente e culturalmente (mia madre sesta Elementare, mio padre seconda classe dell’Istituto Tecnico Industriale). Sottoproletariato, direi, perché nel mio ambiente non c’era alcuna consapevolezza politica né, tanto meno, sindacale. Non c’erano svaghi. Nei primi anni ’50, in età prescolare, come unico “divertimento” ricordo la radio, grande quanto un mobile, con le sue belle manopole. Mentre lavava le lenzuola a mano, nelle grandi vasche di zinco, o cucinava, mia madre accendeva la radio per ascoltare la musica, prevalentemente opere liriche, meglio se “La Traviata”, di cui amava gli interludi fino a commuoversi. Mia sorella, più anziana di me di otto anni, accendeva anche lei la radio per ascoltare le canzoni del Festival di Sanremo. Non so come, io “sapevo” e “sentivo” che gli interludi verdiani erano più belli di “Papaveri e Papere”. A quattro anni, quattro anni e mezzo, cantavo le canzoni di mia sorella come canzoncine per bambini, mentre Verdi mi faceva compagnia più a lungo nella memoria e nel cuore.

Ma la mia prima “educazione musicale” me la diede uno zio quasi analfabeta (seconda Elementare), maschio siciliano imperioso e prevaricatore, allevato a pane e pregiudizi. Aveva fatto parte per anni della banda musicale del suo paese e la musica lo aveva stregato. Intorno ai sei, sette anni, di sera, accanto a lui ho ascoltato le opere liriche che venivano trasmesse in diretta, naturalmente secondo il suo gusto e la graduatoria che aveva istituito. Verdi era il suo preferito, ma anche Bellini.

Gli immensi occhi azzurri dello zio, dono dei Normanni, si perdevano nella nostalgia di un giovane bello, biondo, “e di gentile aspetto” avrebbe potuto dire, ma lui diceva “fino assai” che è la stessa cosa, e nell’incomprensione di un mistero grande: come aveva potuto, la Morte, toglierci l’autore della “Casta Diva”? come aveva osato? Le lacrime gli scivolavano lungo le guance, e lui non provava neanche a nasconderle. E ricordo altre cose. “Cortigiani, vil razza dannata” gli ispirava una solidarietà di fuoco per il dolore bruciante originato dal torto subito. E poi la Tosca e Castel Sant’Angelo, e Mimì e via dicendo. Certo, dopo Verdi e Bellini, anche Puccini aveva i suoi meriti. Mascagni no, era un autore scadente. Si poteva fare a meno di ascoltarlo.

Il mio è stato un approccio popolare alla musica e, attraverso le vicende esagerate delle opere liriche, anche alle tragedie greche. Mutatis mutandis, naturalmente. Quanto a me, bambina inserita in una famiglia disagiata e infelice, vivevo la mia personale tragedia: non mangiavo niente perché volevo morire. Il preludio del terzo atto della Traviata era bello ma non bastava.

 Scoperte precoci: il dolore, il desiderio di suicidio, la consapevolezza di una bellezza che nulla può contro il male del mondo. E l’aver visto che alla musica è collegato il pianto.

A dieci, undici anni, superato il periodo peggiore, anch’io piangevo di nascosto se mi capitava di ascoltare Edith Piaf. Non capivo una parola, ma la passione dell’interprete arrivava “under my skin”.

In quarta ginnasiale la grande svolta: conobbi Isabella, che divenne la mia amica dell’adolescenza. Nella sua casa agiata e borghese si ascoltava musica classica. Io ero stata “adottata” come ragazza povera “dai grandi mezzi”, oltre che compagna di banco di Isabella. Ogni pomeriggio, per anni, mentre studiavamo, la madre di Isabella ci faceva ascoltare Chopin, Caikovskij, Gershwin. Ho finito col sapere molto di loro. E li lascio in quest’ordine d’importanza. Quando poi la signora ci fece ascoltare “La Pastorale”, ne rimasi folgorata, e compresi (e anche questo è un mistero) che qui eravamo in un ambito diverso. La musica che avevo ascoltato da bambina ancora oggi la rispetto e me la ritrovo familiare anche per la tenerezza del ricordo, ma la sento troppo ingenua per collocarla sullo stesso piano della grande Musica.

Nel frattempo, finivo il liceo, a mio padre avevano regalato due trentatre giri, con la “Terza Sinfonia” in uno e la “Patetica” e l’ “Appassionata” nell’altro. Lui non li avrebbe mai ascoltati e li passò a me. Erano i primi e unici dischi di musica classica che possedevo. Li ho ascoltati migliaia di volte, insieme ai trentatre giri di Fabrizio De Andrè, di cui ricordo anche le copertine. La Terza fa parte di me più delle sonate e trovo che non ci siano lische, in quella sinfonia, solo polpa squisita. La ascolto ancora con autentica meraviglia. Ma parlare di Beethoven non serve.

Non mi sono più fermata dai diciotto fino ai trentaquattro anni, quando ho incontrato Marzio, e qui si sono unite due follie. Lui mi ha aperto il mondo della produzione cameristica che ho percorso come il mio più congeniale; io gli ho regalato le mie sottigliezze del sentire (anche riguardo alla musica), la mia maggiore apertura verso il “moderno”, il mio orecchio che si fa via via più fine nel distinguere un’esecuzione da un’altra. Ancora oggi ascoltiamo tre quattro ore al giorno di musica e durante gli  infiniti viaggi in macchina ho dovuto eliminare l’ascolto dei nostri ormai obsoleti Cd: una volta abbiamo rischiato di avere un incidente perché “fatti” di Brassens.         

Anna Murabito    alimarbit@yahoo.com

MUSICAultima modifica: 2020-08-01T16:36:25+02:00da helvalida
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